Manara Valgimigli, Teetèto

da Poeti e filosofi di Grecia vol. II

Che cosa è conoscenza? Questo è il problema del Teetèto. Se non che il contrario piuttosto sembrerebbe essere, che cosa non è conoscenza. Di fatti il dialogo ha conclusione negativa: e nelle sue tre parti dimostra che la conoscenza non è sensazione; che non è opinione vera; che non è opinione vera accompagnata da ragione. Non può definire conoscenza chi prima non abbia definito di conoscenza l’obbietto, cioè l’essere. E in verità che cosa fosse conoscenza era implicito nella dottrina delle idee, la quale aveva già avuto nel sistema platonico il suo pieno sviluppo.
Il Teetèto, per un quasi comune accordo che muove e risulta da considerazioni molte e molteplici, si ritiene appartenga all’ultimo periodo delle attività di Platone; e precisamente all’inizio di quest’ultimo periodo, al quale assegnano, tra gli altri dialoghi,  insieme col Teetèto, il Sofista e il Politico, il Filebo e il Timeo.
Se davvero Platone avesse voluto dimostrare, esplicitamente e sistematicamente, che cosa è conoscenza, avrebbe tenuto altro modo. Pare il certi momenti, di su le labbra di Socrate, poter cogliere la parola rivelatrice. Quando, per esempio, egli induce Teetèto a  rispondere con quali mezzi riusciamo a cogliere l’essere e il non essere, il pari e il dispari, il simile e il dissimile,  e Teetèto risponde che è l’anima (185 d), essa sola e da sé,  che codeste cose riconosce; ecco che allora il Socrate del Fedone e della Repubblica ci ritorna dinanzi, e ci pare di riudire la sua voce che pone l’esigenza e dimostra l’esistenza delle idee incorporee e intelligibili. Ma non è questo il fine del Teetèto; ché è piuttosto il complemento negativo alla dottrina delle idee: dimostrando che l’essere non si può cogliere né conoscere per le vie variamente tentate dai filosofi naturalisti; coi quali la dottrina delle idee può riconnettersi solo in quanto li superi, conciliando eraclitismo ed eleatismo in una superiore unità.

(ma come può la dottrina delle idee, che sono esterne all’essere, dire l’essere? Solo ammettendo che l’essere non appartiene all’essere, cioè all’esistere qui e ora, cioè a se stesso. La superiore unità è solo un artificio narrativo per ri-velare il problema: non per risolverlo. Ri-velarlo infatti  non è solo mostrarlo, è di nuovo-nasconderlo, dunque non dirlo; cioè scegliere di non dirlo. Cosa di cui Platone è assolutamente consapevole (Colli)-

(dimostrando che l’essere non si può cogliere né conoscere per le vie variamente tentate dai filosofi naturalisti; eppure costoro l’avevano colto! )

Infatti la soluzione positiva vi è implicita: ne è come l’interno e vivido sangue che per tutto il dialogo refluisce e trascorre; emerge qua e là in parole e proposizioni che la suggeriscono palesemente; si compenetra e fonde, via via apparendo e scomparendo, nell’immagine della maieutica, onde apprendere non è altro che scavare ed estrarre dall’intima anima le conoscenze riposte; e sbocca e dilaga, a mezzo il dialogo,  in quella mirabile digressione su la gioia e l’ozio e la libertà del filosofare, la quale non è digressione affatto,  ma tocca ed esprime il più alto motivo del dialogo stesso.
(dunque vivere per conoscere sapendo di non poter conoscere)
(la mia posizione è differente: è solo attraverso il rapporto con l’altro, che, per differenziazione, si forma il soggetto;  attraverso cioè un percorso opposto, che dall’oggetto conduce al soggetto. Dunque è solo conoscendo l’altro che si può conoscere se stessi.
Per Socrate/Platone bisogna conoscere se stessi per conoscere il mondo, perché ognuno ha in sé (grazie alle Idee Innate) la conoscenza di ciò che è nel mondo,  e di ciò che gli consente di conoscere e giudicare ogni ente del mondo. Questa è la linea di pensiero che da Socrate arriva ad Hegel e a Croce e Gentile. Dentro di noi è ciò che da forma al mondo. Il mio pensiero è opposto: è il mondo che dà forma a noi, e grazie a questa forma ci dà modo di conoscerlo. Nietzsche ecc.)
(Treccani vocabolario: maièutica s. f. ([dal gr. μαιευτική (τέχνη), propr. «(arte) ostetrica», «ostetricia», der. di μαῖα «mamma, levatrice»]. – Termine con cui viene generalm. designato il metodo dialogico tipico di Socrate, il quale, secondo Platone (dialogo Teeteto), si sarebbe comportato come una levatrice, aiutando gli altri a «partorire» la verità: tale metodo consisteva nell’esercizio del dialogo, ossia in domande e risposte tali da spingere l’interlocutore a ricercare dentro di sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma.)

1.
Le linee del dialogo sono queste e si svolgono in questo modo. Che cosa è conoscenza? Sensazione è, risponde Teetèto. Ma dire “Cosa che io sento è a me quale la sento”; come se la stessa cosa, per esempio un soffio d’aria, ferisca me e un altro, e io la senta fredda e l’altro no, e così via; è come dire, “cosa che a me appare è a me quale appare”: il che si accorda con l’affermazione di Protagora che “l’uomo è misura delle cose e, di quelle che sono che sono, di quelle che non sono che non sono”. Le tre proposizioni  si identificano. Ma codesto, in codesto modo,  potea dire al volgo Protagora, non agli iniziati, nell’intimità della scuola,  ev aporreto.
Non è vero che ciò che appare è. Dire è significa fermare questo mutevole e mobile apparire; e dunque annullare questo apparire stesso.

(Dunque ciò che appare non si può fermare, cioè non si può dire, perché anche solo il dire, e non solo il dire è, significa fermarlo. Ma se l’apparire non si può dire, cosa si può dire? Ciò che è apparso. Per questo il dire è sempre un parlare  al passato anche quando parla al presente: come guardare la luce delle stelle. Per questo il presente esiste solo come espressione del passato. Per questo l’unico tempo nel quale possiamo esisterecome soggetto, cioè consapevolmente, è il passato.)

In verità niente è, perché niente sta fermo, e dunque tutto diviene, perché tutto si muove. Se si deve parlare con rigore, per i filosofi e non per il volgo, questo essere si ha da toglier via in ogni modo. E così la dottrina della sensazione si inserisce in quella del perpetuo fluire di Eraclito.
Nella vita tutto è moto, e tutto si produce dal moto; e ci sono due sorta di moto, del soggetto e dell’oggetto, dell’agente e del paziente;  da cui si generano, dice, figliolanze infinite, in due serie parallele, del sensibile l’una, l’altra della sensazione. E bianco, duro, acuto non sono nulla ciascuno per sé,  ma relativamente a chi vede, a chi ode, a chi tocca e così via; e Socrate ammalato è altro da Socrate sano, e lo stesso vino a uno apparisce amaro,  e all’altro dolce. Né è possibile che divenga uno senziente se  non di qualche cosa;  nè che divenga una cosa sentita, o amara o dolce, se non per qualcuno. E dunque vera è per ciascuno, sia sano o malato, o anche  sveglio o sognante, la cosa quale egli sente e gli appare; ciascuno, come dice Protagora, è giudice sicuro di codesta verità.
Ma che cosa è codesta verità? Se conoscenza è sensazione e sensazione non si dà mai di ciò che è, ma di ciò solo che appare, e nel momento solo  in cui appare, e a quello solo cui appare; che cosa è oggetto di conoscenza? Non trascende esso, necessariamente, la momentaneità della sensazione? Come può essere verità, e quindi oggetto di conoscenza,  se non ciò che è per se stesso, indipendendemente da qualsiasi relazione con chicchessia? E il divenire, vedemmo, è divenire a qualcuno e a qualche cosa; è fenomeno, non essenza; è alcunché di relativo, non assoluto; è il di fuori  dell’essere, che dall’essere riceve sua ragione,  non l’essere che ha sua ragione in sé e la dà a tutto.
Ebbene, già sorgono nel terreno stesso della osservazione empirica innumerevoli difficoltà e stranezze.  Per esempio, se vedere è conoscere, uno che, veduta una cosa, chiude gli occhi e quella cosa non vede più, neanche più la conosce? E se con un occhio guarda e con l’altro no, e dunque vede e non vede,  anche conosce e non conosce? E ancora: se ognuno è misura e giudice di verità, perché Protagora e i suoi seguaci si danno tanto da fare, e ne guadagnano anche tanto denaro, per  persuadere altrui della verità loro? E Protagora stesso, se ammette che tutti sono giudici di verità, e che tutti, senza eccezione, hanno opinioni vere,  e che dunque hanno opinione vera anche coloro i quali ritengono che non abbia Protagora opinioni vere; ebbene, ammettendo codesto,  non dovrà ammettere anche di sé stesso Protagora che non ha opinione vera? E dunque nessuno e tutti hanno opinione vera.

Ma c’è, nella  difesa di Protagora, pur dentro lo stesso limite pratico entro cui sembra volersi chiudere, il sospetto di una esigenza diversa. Non si affidano gli uomini, in certi casi della vita,  a persone che reputano più sapienti? Per esempio, al medico chi è malato, al pilota chi viaggia sopra una nave. E tanto più in rapporto all’avvenire e all’utile; dove il criterio di giudizio non può essere dato dalla sensazione, la quale vale per ciò che è nel momento, non perciò che deve essere poi.
(Quindi come faccio a giudicare una cosa che dovrà avvenire se ancora non ne ho la sensazione?)
Trattandosi di una  cosa futura, non ogni uomo è un giudice bastevole, ma solo chi è più sapiente; così, per esempio, di ciò che sia per essere utile a città o a stati, non ogni cittadino sarà ugualmente giudice, ma il savio legislatore soltanto. Il che ammette anche Protagora. E già questa ammissione, e quindi limitazione, infligge una assai grave fenditura alla sua dottrina. La quale pertanto dovrà limitarsi, tutt’al più, alla momentaneità della sensazione.

(Ma chi ha fatto esperienza di un fatto che dovrà avvenire, perché ne riconosce le premesse, avendolo già vissuto e conoscendone dunque gli esiti,  costui può essere giudice bastevole. Dunque la sapienza non è che esperienza, quindi basta aver fatto esperienza di qualcosa per poterla giudicare, e non c’è bisogno di idee innate.)

 Ma le due obiezioni capitali e risolutive derivano l’una dal principio stesso della dottrina del moto, l’altra dalla dottrina della sensazione.
Due specie di moto ci sono nelle cose:  uno, della cosa in quanto si sposta all’esterno, da un punto all’altro dello spazio, e uno della cosa stessa dentro di sé, in quanto  si altera: trasferimento  e alterazione. Se tutto è moto, le cose si muovono necessariamente in tutti due i moti sopradetti. Ma allora come facciamo di una cosa a cogliere, per esempio, il colore e a dire che è bianca,  se questo stesso bianco non sta mai fermo,  e si altera incessantemente? Solo dire di una data cosa che è di un dato colore, arresta l’istantaneità del suo essere, ferma e nega la mobilità sua; si dovrebbe dire che è e non è,  che si  vede e non si vede; e quindi,  poiché vedere, cioè sentire, è conoscere,  che si conosce e non si conosce.
E dunque conoscenza equivale a non conoscenza.
Ancora. Noi diciamo che con gli occhi si vede, con gli orecchi si ode,  e così via: ma in realtà occhi e orecchi sono semplicemente mezzi o strumenti con l’aiuto dei quali vediamo e udiamo; e l’uno è indipendente dall’altro,  e coglie della cosa solo quell’aspetto che gli è possibile cogliere. Ma se noi sentiamo, di una stessa cosa, che è bianca e liscia, chi  pone tra le due sensazioni questo rapporto; chi le riferisce, tutt’e due, a quell’unica cosa? Non certo i sensi,  i quali ci dicono ciascuno una qualità staccata dall’altra. O vogliamo dire che questi sensi procedono ciascuno per conto proprio, e hanno ciascuno una propria vita,  come quei tali armati dentro il cavallo di legno; e che noi siamo appunto il cavallo di legno? Che cosa c’è dunque entro noi che si vale di questi sensi e gli asservisce a una relazione reciproca, e li coordina in una superiore unità? Chi ci dice, di due cose, che sono due;  che sono simili o dissimili;  che ognuna è altra dall’altra e identica a sé; che tutte due esistono, e così via? Nessuna di queste proprietà o qualità comuni può avere uno speciale senso o strumento che le percepisca: bensì è l’anima, la quale, senz’altro mezzo che sé medesima, e seco medesima ragionando, e codeste qualità e sensazioni riferendo le une alle altre, e in sé comparando ciò che fu e ciò che è con ciò che sarà;  tutte quante le avverte e le apprende e conosce.
Chi non conosce l’essere nulla conosce.

(sbagliato: l’essere è ciò che è dunque è impossibile non conoscerlo! Platone comincia a pensare l’essere come qualcosa che è oltre ciò che è, e che essendo oltre, non si può conoscere. Ma l’essere è ciò che è, cioè ciò che esiste, e in quanto tale è conoscibile. Non conoscibile è ciò che non esiste, o che non si vede esistere. Ma questo pone il problema dell’esistenza su un piano fisiologico (limiti della percezione) e non metafisico! Nietzsche ecc.)
(Ma che significa conoscere l’essere? Significa forse conoscere il senso dell’essere?  O significa conoscere l’essere solo come dato – ciò che è, che esiste? O significa che il senso dell’essere è il suo esistere, e non altro? Chi non conosce l’essere nulla conosce non significa niente, perché tutti conoscono l’esistere delle cose, dunque il loro essere. Tutti conoscono l’esistere dei propri giudizi e dei propri ragionamenti, dunque tutti conoscono il proprio esistere in quanto essere che giudica e pensa. L’unica cosa che non si conosce è appunto l’origine di questa capacità di pensiero, presupponendo che sia diversa da quella del corpo e ad esso estranea. Ma perché la capacità di pensare dovrebbe essere estranea al corpo? La materia pensa, diceva Leopardi.

Parrebbe che secondo ogni ragione, secondo l’andamento naturale dell’intelletto e del discorso, noi avessimo dovuto dire e tenere per indubitato, “la materia può pensare, la materia pensa e sente”. Se io non conoscessi alcun corpo elastico, forse io direi: la materia non può, in dispetto della sua gravità, muoversi in tale o in tal direzione ec.  Così se io non conoscessi la elettricità, la proprietà dell’aria di essere instrumento del suono, io direi la materia non è capace di tali e tali azioni e fenomeni, l’aria non può fare i tali effetti.  Ma perché io conosco dei corpi elastici, elettrici ec. Io dico, e nessuno me lo contrasta: la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali fenomeni. Io veggo dei corpi che pensano e che sentono.  Dico dei corpi; cioè uomini e animali; che io non veggo, non sento, non so né posso sapere che sieno altro che corpi. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente. – Signor no;  anzi voi direte: la materia non può , in nessun modo mai, né pensare né sentire. – Oh perché? – Perché noi  non intendiamo come lo faccia. – Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili effetti dell’elettricità, come l’aria faccia il suono? Anzi intendiamo forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di elasticità; che cosa sia l’elettricità, che cosa sia forza della materia? E se non l’intendiamo, né potremo intenderlo mai, neghiamo noi per questo che la materia non sia capace di queste cose, quando noi vediamo che lo è? – Provatemi che la materia possa pensare e sentire. – Che io ho da provarlo? Il fatto lo prova. Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. – Quei corpi non sono essi che pensano. – E che cos’è? –  E’ un’altra sostanza ch’è in loro. – Chi ve lo dice? – Nessuno: ma è necessario supporla, perché la materia non può pensare. – Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra da se: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più.
In fatti noi non possiamo giustificare altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti, fabbriche in aria, sopra lo spirito e l’anima, se non riducendoci a questo: che la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove. Noi siamo effettivamente partiti dalla supposizione assoluta e gratuita  di questa impossibilità per provare l’esistenza dello spirito. Sarebbe infinito il rilevare tutte le assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza. Qui davvero che il povero intelletto umano si è portato da fanciullo quanto mai in alcuna cosa.  E pur la verità gli era innanzi agli occhi. Il fatto gli diceva:  la materia pensa e sente; perché tu vedi al mondo cose che pensano e sentono, e tu non conosci cose che non sieno materia; non conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire, altro che materia. Ma non conoscendo il come la materia pensasse e sentisse, ha negato alla materia questo potere, e ha spiegato poi chiarissimamente e compreso benissimo il fenomeno, attribuendolo allo spirito: il che è una parola,  senza idea possibile; o vogliam dire un’idea meramente negativa e privativa, e però non idea; come non è idea il niente, o un corpo che non sia largo né profondo né  lungo, e simili immaginazioni della lingua piuttosto che del pensiero.
Che se noi abbiamo conchiuso non poter la materia pensare e sentire, perché le altre cose materiali, fuori dell’uomo e delle bestie, non pensano né sentono (o almeno così crediamo noi); p. simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della elasticità non possono esser della materia, perché solo i corpi elastici sono atti a farli, e gli altri no; e così discorretela. (9. Marzo. 1827. 2.° Venerdì di Marzo.). )

Ed essere e verità, come altre qualità sopra dette, non i sensi del corpo avvertono, ma l’anima sola avverte e intende.
C’è, al di sopra dei sensi, una mirabile opera che i sensi non compiono; c’è, dentro le cose,  una sostanziale realtà che i sensi non colgono: chi coglie questa realtà? Chi compie quest’opera? Che cos’è dunque, ancora una volta, conoscenza?

(Platone non poteva andare oltre. Ma ciò che coglie quella realtà e che compie quel lavoro e sì l’anima,  identificando con tale nome quella autocoscienza formatasi come processo continuo di differenziazione; dunque come nascita del Sé come differenza da ciò che è altro, e affermazione da parte del Sé della propria esistenza in quanto individuo/differenza,  depositario di una propria autonomia di pensiero e comportamento. Tale entità, che esiste ed è materia, ha sede nel cervello, cioè è il cervello. E tuttavia, che un agglomerato di cellule irrorate da vasi vasi sanguigni possa essere ciò che io sono, rimane fatto difficile da accettare. Dire infatti che l’autocoscienza si forma attraverso un processo di differenziazione non risolve il problema, implicando la necessità di una intenzionalità dell’atto: chi è che presiede al processo di differenziazione? Il cervello è una macchina in grado di effettuare connessioni e instaurare relazioni tra diversi aspetti percepibili, identificando ciò che gli è pertinente da ciò che gli è estraneo: Chi è che a questo elenco di informazioni, cioè a se  stesso,  attribuisce una identità? E ancora: le informazioni sono costituite da interazioni elettriche tra le cellule del cervello. Dunque anche le memorie, che sono vere e proprie registrazioni di esperienze vissute. Ma come si conserva una memoria? Se è un evento elettrico che crea un’immagine bisogna pensare che esista una biblioteca di eventi elettrici ognuno collegato a uno stimolo preciso, e da questo di volta in volta attivato. Ma quando lo stimolo manca, e attraverso un esercizio mentale (il ricordare) si richiamano determinate memorie, chi è che pone in atto tale esercizio? E’ come se il Sé, diventato Io, si fosse distaccato dal cervello, acquisendo identità autonoma e autonomia funzionale anche rispetto al cervello stesso. Cioè è come se l’Io si fosse portato fuori dal cervello.
A ben vedere, dunque, il problema rimane aperto e irrisolto, e la domanda può essere riformulata in maniera più precisa: non “Cos’è l’essere?”, ma “Cos’è l’intenzionalità?”;
“Cosa determina l’atto intenzionale?” “Chi è, o cos’è il soggetto capace di concepire e mettere in atto una intenzione?”
Il pensiero naturalmente va alla Volontà di Schopenauer. Verificare.)

Si deve ricercare non più, ora, nella sensazione, ma in quell’altro procedimento onde l’anima opera, come si disse, da sé medesima, intorno a ciò che è. E questo si dice opinare:  che è una specie appunto di ragionare e dialogare che l’anima fa con sé stessa. Se non che opinare non implica solo verità,  perché c’è anche un opinare falso; e ciò basterebbe ad abbattere fin dal principio la nuova definizione. Teetéto previene e cansa l’ostacolo distinguendo, e definisce che conoscere è opinare con verità. Ma è possibile opinare falso? Perché, se non fosse, anche così la definizione cadrebbe. E infatti tutta la contesa intorno a questa definizione seconda si risolve in questo nuovo problema: se sia o no, anche nell’opinione come nella sensazione,  possibile l’errore. In verità non parrebbe possibile. Uno non può altro opinare se non ciò che conosce; ciò  che non conosce, non può; e dunque non è possibile che opinare o non opinare. E ancora: uno non può altro opinare se non ciò che è; ciò che non è, non può; e dunque anche qui altra alternativa non è possibile che opinare o non opinare. Né è possibile allodoxia: come può uno prendere una cosa per un’altra? Perché, o le conosce tutt’e due, e non è possibile che egli opini una essere l’altra; e tanto meno se non ne conosce nessuna delle due; né mai potrà,   conoscendone una sola, opinare che quella che non conosce sia  l’altra che conosce o viceversa. Dunque, se opinar falso  non è possibile, noi ci troviamo dinanzi alla medesima difficoltà che già ci offese nella prima definizione: come tutte le sensazioni sono vere, così sono vere tutte le opinioni; e ogni distinzione tra conoscenza e non conoscenza vien meno. E allora bisogna pensare che sia possibile opinione falsa; il che anche il senso comune e la comune esperienza sugeriscono e richiedono. E’ possibile, infatti, come ingannevole accoppiamento di sensazione e pensiero. La nostra memoria è come una tavoletta cerata in cui si imprimono le varie impressioni del mondo esterno. Può accadere scambio tra cosa che vediamo, nel momento che la vediamo, e imagine di altra cosa, non bene impressa o svanita, che già da tempo conserviamo nella mente. Se non che codesta non è spiegazione bastevole: perché limita la opinione a ciò solo che si riconnette a una sensazione presente;  e invece si può dare errore di pura e semplice operazione intellettuale, come di che, per esempio,  sommando sette con cinque,  dica undici e non dodici.  Per chiarire questo modo di errore, si ricorre a una distinzione tra possedere e avere conoscenza; come uno che sì, possegga in una sua gabbia tanti uccelli, ma in realtà non abbia se non quello o quelli che prenda e tenga di volta in volta nelle sue mani. Ora, l’aritmetico, possiede sì nella sua mente tutti i numeri; ma, quando abbia bisogno di prenderne uno può capitargli di prendere quello che non dovrebbe, scambiandolo con l’altro che dovrebbe. Ma anche così non si conclude: perché non si capisce come possa uno non conoscere proprio quella tal conoscenza che ha nelle mani e perciò stesso conosce. E la precedente distinzione tra possedere e avere non vale più. Bisognerebbe ammettere che nella nostra mente oltre che conoscenze, fossero anche non conoscenze; e quindi conoscenze di conoscenze e di non conoscenze, e così via all’infinito. Dunque opinar falso, come pura operazione mentale, non è possibile; e dunque non si può dire che conoscere sia opinare con verità. Di che si da una prova ulteriore osservando quello che accada spesso a giudici e avvocati ne’ tribunali; i quali possono avere di qualche cosa,  come di latrocinii o sacrilegi, o altro,  opinione vera pur senza poter renderne conto, cioè senza conoscenza.
E allora conoscenza, soggiunge Teetèto, sarà vera opinione accompagnata da questo rendere conto, cioè da ragione, metà logou. Ed è la terza definizione. La quale Socrate crede di identificare con certa dottrina che ha nella mente, dice, come in un sogno. Gli elementi delle cose sono sensibili, ma non conoscibili; appena possono essere nominati; ma nienye si può predicare di loro, nemmeno l’essere. E invece i gruppi di elementi, o nessi o sillabe,  come quelli dei quali, per mezzo appunto degli elementi che li compongono, e possibile rendere conto, sono conoscibili. Ma ecco che anche qui si urta in difficoltà gravi. O la sillaba è composta di lettere,  e non si capisce come possa uno aver conoscenza della sillaba senza prima aver conoscenza delle lettere che la compongono – che è quel che succede a tutti nell’apprendimento del leggere; – o la sillaba è per sé stessa un tutto indivisibile, e allora non si capisce come possa essere conosciuta dal momento che la sua conscenza implica precisamente la divisione delle parti. Ma torniamo, dice, al primo proposito. Che cosa significa questo render conto, questa parola logos, ragione tre cose può significare. La prima è discorso, o espressione di un giudizio. Ma ci può essere giudizio opinione che non siano espressi con parole? Oltre che la parola non esprime solo verità; e dunque non c’è opinione, o vera o falsa,  che non sia accompagnata da ragione in questo senso. Secondo: può significare analisi Si torna al punto già esaminato prima. Oltre che uno può dar conto, e cioè fare la enumerazione,  di tutti gli elementi che compongono una data cosa, e non conoscere codesta cosa. Terzo: puo significare distinzione, o conoscenza di differenza; onde una cosa si  riconosce distinguendola dalle altre. Ma anche l’opinione vera per se stessa distingue. Oltre che, definire che conoscenza è opinione vera con conoscenza di differenza è chiudersi in un circolo senza scampo e dare una risposta ridicolissima sopra tutte.
(Il problema speculativo quindi rimane irrisolto, a conferma di quanto detto all’inizio. E anzi si potrebbe duire che l’idealismo platonico  nasce dall’estremo individualismo della dottrina protagorea; cioè sorge dall’esigenza di individuare un bene che supera la pura sensazione e mira dall’alto il vano fluire delle cose.
Leopardi, la vanità del tutto, l’angoscia del divenire, cioè della irreparabile mancanza di quel bene. L’eraclitismo come origine del pessimismo.)

2.

Evidentemente il teetéto è un dialogo polemico.Perciò è negativo e non costruttivo. Ma contro chi è polemico? Non è sempre facile né forse possibile determinare con esattezza. Certo polemizza, in generale, contro Protagora e contro gli Eraclitei. Ma anche su questo rispetto nascono molti dubbi. Di chi sono, per esempio, certe sottili e capziose obiezioni contro Protagora, che Socrate dà come sue e poi respinge con tanto dispetto? – “Noi abbiamo l’aria”, dice, “di quegli antilogici che si mettono d’accordo su le omologie e vincono in tal modo l’argomento avversario;  ci vantiamo filosofi e non eristici; e veniamo a fare proprio lo stesso di quei trementi disputatori”.  E combatte senza tregua e a più riprese codesti cavillatori inonesti, che tendono tranelli nelle domande, che s’appigliano alle parole e non alle cose, che non hanno pacato animo di ricerca, che sono irosi e pugnaci. C’è in tutto questo una complessità assai delicata e intricata di motivi che non è facile districare e discernere. Protagorei estremi che non interpretavano rettamente il m aestro, e dai quali la dottrina del maestro,  perché se ne disputasse con serietà degna,  doveva essere liberata? O è Platone stesso che ama talvolta prendere quella vista, per difendere e per offendere? E chi sono quei filosofi amousoi,  quei grossi e rozzi materialisti i quali non  credono ci sia altro al mondo se non ciò che possono prendere e tenere stretto con le mani? Di fronte a costoro qualche affinità si discopre tra  Platone e Protagora. Alcunché dell’idealismo platonico è nel fondo della dottrina protagorea. Sorge da quell’estremo individualismo l’esigenza di un bene che supera la pura sensazione e mira dall’alto il vano fluire delle cose. E almeno per codesto bene, se non per il vero,  non tutti gli uomini sono eguali; ci sono gradazioni fra loro:  chi è più sapiente e chi meno. Plartone v’insiste. La difesa di Protagora è assunta a un certo punto da Protagora stesso con molto calore. Insinua forse Platone che già codesto incrina e fende la compattezza della dottrina? La incrina difatti.  Su quel mobile fluire eracliteo anche Protagora dovè pure intravedere alcune luci che vi si riflettono immote: Platone le riconosce.
Ancora. Era già in Protagora la connessione della dottrina sua che l’uomo è misura con la dottrina eraclitea del moto e del divenire? Non parrebbe. O almeno non parrebbe che fosse nei libri, se Platone distingue tra quel che si leggeva nei libri e quello che Protagora insegnava ai suoi discepoli ev aporreto.  Anzi, questa distinzione suggerisce a taluno che si tratta probabilmente di invenzione platonica. Può darsi. O anche può darsi, come ritiene il Burnet, che sia rifacimento e rielaborazione platonica di dottrina di Cratilo, che fu, com’è noto, maestro di Platone, e fu anche, come spesso interviene, assai più eracliteo di Eraclito. Ma sono problemi insolubili.  Né Platone poteva avere il senso storico filologico che possiamo avere noi. Se vedeva connessione di una dottrina con l’altra, esprimeva quella connessione e non curava dirci se era lui che quella connessione poneva o se altri l’aveva posta prima. Certe idee o correnti di idee smarrivano, dirò così, il segno della persona loroper aderire ad altra con la quale, altrimenti atteggiate o rappresentate, venissero ad avere maggiore affinità. Massime presso grandi scrittori di così potente concentrazione e rielaborazione fantastica come Platone.
Del resto, è assai singolare questo senso della persona umana che avevano i Greci, assai più vivo e concreto e intimo di quello così estrinseco e analitico che abbiamo noi. Si può dire che le creazioni mentali di poeti e filosofi si spersonalizzavano dall’esterno per riimpersonarsi, esse stesse, più coerentemente alla loro vera vita, in figurazioni e atteggiamenti personali. La vita dei filosofi si costruiva quasi sempre dal loro stesso filosoafare; come da loro poetare la vita dei poeti.  C’erano errori e fantasie e stranezze grandi; ma c’era anche un senso pieno, se pur inconsapevole di bella unità e concretezza umana, che noi troppo spesso, con tutti i nostri problemi e dubbi e con tutte le nostre indagini sistematiche, inutilmente desideriamo.

3.

Se questo è il motivo fondamentale del dialogo, vi  è anche un altro motivo, che non riguarda espressamente l’aspetto speculativo,  ma che è ugualmente importante, anzi, per Valgimigli è il “cuore poetico” del dialogo:
– Un dialogo di Platone, e massime un dialogo come questo, che assomiglia nella struttura più a quelli della precedente e migliore età, Al Gorgia, al Sismposio, al Fedro, al Fedone, alla Repubblica, che non ai successivi; e dove il puro speculare e teorizzare non si è tuttavia irrigidito, sminuendo o spegnendo vigore e colore alla fantasia e alla mimesi; un dialogo come questo non si descrive disegnandone solo le linee della speculazione. C’è dentro una sottile trama spirituale che vibra a ogni tocco di risonanze innumerevoli. Questa trama bisognerebbe cogliere; e ascoltare.

Sebbene appena nel testo appena si possa: in queste belle pagine in cui  le linee nette e nitide del greco rilevano anche non so che atti e moti di persone e di anime al lettore discreto. Ed è una malinconiua leggere traduzione; com’è una pena tradurre. Chi ci rende la voce di Socrate? E il suo viso e sorriso, e dietro e dentro quel sorriso la sua gravità pensosa e austera? Più è commosso e più sembra ami chiudere in sé e celare la  sua commozione; e talora la punge con parolette lievi e sottili che  perdono levità e finezza fuori di quel loro tono e accento speciale.
Quando Teetéto, dopo lunga indagine, intravede cosa è veramente conoscere, e pronuncia la parola anima, e dice che l’anima per sé stessa e in sé stessa conosce; e Socrate esclama, –“ Bello sei Teetéto, e non brutto, come diceva Teodoro, perché bello e buono è chi bello parla”; – queste parole suonano all’orecchio nostro un poco smorzate e scolorate, anche perché kalos non vuol dire bello soltanto.
E quanto Teetèto, dopo quella sua definizione delle potenze, avverte in sé, per le domande di Socrate, come un interno travaglio; e Socrate dice – “Tu hai le doglie, Teetéto; segno che non sei vuoto, ma pieno”;  non è facile, attraverso la sua giocosità apparente, sentir la finezza e insieme la severità profonda di questo motivo che più frequente ricorre per tutto il dialogo. Tanto che, proprio alla fine di quella parlata che sembra tutto un giocare di immagini intorno a questa maieutica socratica, e dove il sorriso di Socrate pù s’appunta e s’aguzza; ecco, dico, che alla fine il sorriso cade, e la parole si fanno gravi, e lente e solenni: – “Già molti – dice – amico mio, hanno verso di me questo malanimo, e sono pronti a mordermi se io cerco strappar loro di dosso qualche stoltezza; e non pensano che solo per benevolenza io faccio codesto, e solo perché accettare il falso non mi reputo lecito, né oscurare la verità”–.
Questo è Socrate. E apre quei suoi grandi occhi meravigliati che toccano e scoprono, come la luce nuova dell’alba sul mondo ancora assonnato, ad una ad una tutte le cose.

Perché filosofare è appunto – egli dice – essere pieni di meraviglia. E cioè guardare le cose per imbeversene l’anima, e rivederle e contemplarle dentro di sé in  un nitido specchio, che sì ne rifletta il mutevole apparire,  ma anche ne colga e fissi la realtà immutabile ed essenziale. Dentro l’anima è questo duro e lieto travaglio.
Di qui nasce il mito della maieutica. Ognuno deve cercare in sé da se stesso.
“Che altro possiamo fare – dice – se non riesaminare da capo, quietanente,  senza impazienze, ma guardando bene in fondo a noi stessi, che cosa sono queste fantasie che abbiamo  dentro di noi?”
Appunto: ma per superarle e vincerle, queste fantasie o apparenze, le quali ci perturbano e velano e celano la realtà, e ci contrastano di conoscerla; perdersi a “esaminare e confutare gli uni degli altri opinioni e giudizi che siano veri per ciascuno, sarebbe la più grande e grossolana stoltezza”.
La verità importa districare; la quale per tanto non si conquista e produce se non con disagio e doloroso tormento. Conoscere è conoscere sé medesimi; è realizzare in sé medesimi la conoscenza.
Il motivo centrale del dialogo è in questo contrasto tra sentire e conoscere, tra ciò che è mobile e ciò che è immobile; tra ciò che è contingente e ciò che è eterno; tra ciò che appare e ciò che è.
(L’esigenza di una conoscenza che superi il sentire era comprensibile per i Greci, non lo è più per noi. Oggi infatti per noi, come per Eraclito, conoscere è sentire. Noi possiamo di nuovo permetterci di essere eraclitei).
Se non che questo contrasto non è solo significato speculativamente nella negazione del primo termine, ma è rappresentato e raffigurato drammaticamente nella persona di Socrate che il secondo termine afferma e in sé stesso realizza. Pensare, dice nel Sofista e qui ripete,  non è altro che un ragionare muto che l’anima fa con se stessa. – “L’anima, dice, quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la quale conversi con sé medesima, interrogando e rispondendo, affermando e negando”.  Se non che non raggiunge ella in codesto pensare, come qui parrebbe,  la doxa, ma supera la doxa e attinge la verità.
Pensare è vivere questa battaglia, ed è filosofare. Filosofo, dice nel Simpsio, nessuno è degli dei: che non può aver desiderio di divenire sofo chi già è, e già vede e tocca immediatamente la verità.

E nemmeno l’ignorante; che, nella sufficienza sua, credendo bastare a se stesso, autò einai ikanon, anche ignora di ignorare, e non ha l’ansia di conoscere. Bensì chi è nel mezzo tra questi due;
(nel mezzo” è sempre il luogo della tensione)
in quanto è filosofo colui appunto che ama conoscere, e codesto conoscere si procaccia attraverso ricerche e fatiche, trascurando il parere per l’essere, combattendo l’errore per la verità. E giunge via via nel suo lieto travaglio  da un maggior errore a un errore minore; da un parere più corpulento a un parere più estenuato; e afferma e nega, e ritorce ancora sue affermazioni e sue negazioni, e solo scorge da lungi la verità ultima irraggiungibile.
Sostanzialmente, anche per  Platone filosofare è in questa dialettica: in questo avanzare di grado in grado, in questo procedere di discorso in discorso, in questo superare via via il falso, mobile, il contingente; in questo guardare e riguardare dentro di sé; in questo indugiare e attendere, pacatamente, senza fretta; in questa oziosa, placida, abbandonata contemplazione. E di questa dialettica, di questo divino ozio contemplativo, il Teetèto, fra tutti i dialoghi di Platone, è esempio e specchio singolarissimo.
Perché il filosofo si dà tempo. Platone insiste su cio. “Con tanto tempo, Socrate dice, a nostra disposizione, possiamo ben ricercare fino in fondo dentro di noi”. E ancora più avanti: “Non abbiamo tempo – domanda a Socrate Teodoro, immerso ormai anche lui nel divino ozio – quanto ne vogliamo?” – Rileggiamo ora come comincia la digressione famosa. – “Ma certo, risponde Soocrate,  e più volte anzi, mio buon amico, anche in altre circostanze,  ma in questa particolarmente, m’è capitato di osservare come coloro che il più di lor tempo consumano nello studio della filosofia, quando si presentino davanti a tribunali, appariscono oratori ridicoli: ed è naturale che sia così.  Se non che coloro che fino da giovinetti ebbero consuetudine di andare attorno per i tribunali e per luoghi simili, di fronte a quelli che sono stati allevatio nello studio della filosofia,  sembra che abbiano avuto un allevamento come di schiavi di fronte a uomini liberi. Perché hanno sempre gran tempo questi a loro agio: e i discorsi loro fanno agiatamente e in pace; e niente li sospinge e li affretta; e mutano argomento quando vogliono; e niente li preoccupa e gli angustia, se non questo solo, di toccare la verità”.
Ebbene questo, come dissi, è il punto dove l’anima del dialogo sembra come accendere e concentrare tutta la sua luce.Socrate è per andar anche lui, ora, dinanzi a un tribunale; ed è per essere condannato. Ma quell’episodio non lo tocca.   E’ una contingenza della vita come tante altre. Tranquillo e in pace egli ragiona tuttavia della conoscenza; anche il dì dopo, dice, farà lo stesso; e si dà convegno con gli stessi amici.
Il contrasto tra opinare e conoscere, tra sentire e conoscere, si esprime qui  nel contrasto tra gli uomini volgari e il filosofo, tra gli zelatori di una legge fallace e il zelatore della verità. Servi e schiavi essi sono della vita che non dominano, della vita che li prende e irretisce e vince nell’infinito groviglio delle sue passioni impure; non conoscono libertà; non sono padroni e arbitri di sé stessi nella vita e nella morte.
Se verità è ciò che si sente o si opina, infinite sono le verità, e nessuna lo è; e tutte concorrono e trascorrono per il vuoto mondo senza luce (interiore),  e tutte s’impigliano e s’affondano in questa oscura e spessa e greve corporeità del vivere nostro che non è più di uomo che di bestia.
Codesto è opinare e sentire. E fa sì gli uomini sottili e accorti in quel loro volteggiare e brigare, e guardarsi e difendersi gli uni dagli altri;  ma li fa anche piccoli di anima,  e obliqui e storti. Non veggono essi la verità; e non la vedono perché distratti sono, e abbagliati hanno gli occhi da questo infinito e veloce variare di fantasmi che dà a chi guarda le vertigini, e l’essere copre e nasconde.
Ma la verità è l’essere, e solo l’essere, se conoscenza ha da esser di qualcosa, può essere oggetto di conoscenza.
E questo cura, a questo tende e protende l’anima chi  è filosofo veramente. Filosofare è assomigliarsi a Dio.
Anche qui, come nel Fedone, il particolare momento in cui il dialogo si finge dà a Socrate un particolare accento. In queste parole pare quasi che egli abbia dismesso il suo abito dialettico; nella sua voce s’è come smorzata quella asperità ch’è talora un poco stridula e beffarda;  c’è dentro un calore di commozione appena contenuta, un tremore di anima che si espande nella sua pienezza e purezza.
“Il male non può perire, egli dice, che ha pur da esserci sempre qualche cosa opposto e contrario al bene; né può aver sede  fra gli dei, ma deve di necessità aggirarsi su questa terra e intorno alla nostra natura mortale. Ecco perché anche ci conviene adoperarci di fuggir di qui al più presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio, per quel che un uomo può; e assomigliarsi a Dio è acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza”. – E il male è l’errore, che solo in se stessi gli uomini possono vincere; e il filosofo vince in quanto attua e realizza dentro di sé, dalla sua stessa fragilità umana,  verità e conoscenza, e insieme, santità e giustizia. Perché appunto nel conoscere è vivere con santità; né altra cosa è conoscere se non questo pertinace e faticoso anelito di distaccare e purificare la propria anima dalle contingenze mondane, e darle come una sottile e aerea e limpida levità. E l’anima sente che in ciò stesso è il suo premio e la sua naturale gioia. Solo vivere secondo pensiero è vivere da uomo: e vivere secondo pensiero è svolgere e liberare e tramutare di potenza in atto quel divino che l’uomo ha in sé.
E dunque nel filosofare e nel contemplare è la più alta e divina beatitudine. Della quale ragionerà più tardi Aristotele con ricchezza maggiore e diversa di motivi teorici; qui, nella persona di Socrate è raffigurata. Egli sa che forse lo aspettano catene e battiture e morte;  neppure questo sfiora e adombra il suo ozioso e beato filosofare. Il volto dell’uomo mortale splende di immortalità.
Fine, 15.10.23

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