Le cose della vita

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Le cose della vita e la fine della Modernità.

Come lo sguardo crea il paesaggio – perché è sempre l’intenzionalità dell’atto a conferire senso e dignità all’oggetto – così lo sguardo interiore crea il paesaggio interiore, di cui la casa è il supporto come la tela lo è di una pittura.
Lo sguardo interiore è il lavoro necessario per trasformare in paesaggio interiore il continuo mescolarsi di pensieri e stati d’animo in una matassa greve e untuosa.
Tale lavoro denota e separa aspetti e sfaccettature dell’anima che per rimanere in presenza hanno bisogno di essere posati su un oggetto, contenuti dentro una scatola, riparati da un muro, chiusi dietro una porta.
Dunque non si può dare un’architettura degli interni, nella misura in cui non si può dare un paesaggio interiore dall’esterno. L’architettura degli interni può essere solo architettura interiore, cioè può essere solo costruzione di sé. Cioè può essere solo un abitare.
Né tantomeno si può mostrare; quando viene mostrata cessa di essere abitare e diventa qualcos’altro, il più delle volte pubblicità e commercio.

Le cose sono la nostra vita,  perché sulle cose si posa il tempo. E posandosi si ferma. Una casa diventa la casa della vita solo quando col tempo diventa la nostra scatola dei bottoni,  il contenitore delle nostre cose, che sono il racconto solido e sempre vivente della nostra vita. Motivo per il quale non bisognerebbe mai buttare nulla, e motivo per il quale si va sempre in giro per mercatini cercando giorni perduti.
La casa è la struttura fisica che rende possibile la crescita culturale dell’individuo,  che diventa tale solo quando si riconosce come soggetto, in una relazione (logos) di continuo tenersi di esperiene con i suoi oggetti, che è quindi sempre anche racconto, cioè frequentazione di sé, abitudine, abitare.

La Modernità, indipendentemente dalla fase storica che si vuole considerare, costituisce sempre la sua base ideologica sul mito dello sradicamento e della irrilevanza delle identità culturali. Questa base ideologica trova applicazione concreta nella propaganda che, negando la funzione primaria della casa, valorizza, stravolgendola attraverso la creazione di appositi filoni narrativi, la definizione culturale dell’alloggio, e dunque della precarietà, eleggendo in questo modo la precarietà a valore.

Da qui il supposto privilegio di cui si sarebbe destinatari dovendosi spostare da un luogo all’altro, per seguire le necessità del lavoro e del capitale, e non potendosi più immaginare come “abitanti” ma solo come  “occupanti temporanei”; non potendosi più permettere,  “culturalmente” prima che economicamente, una casa, e cioè non potendo più permettersi di conservare nulla, di costruire un racconto, ma, anzi, dovendo allegramente buttare tutto, perché “costa meno ricomprare che conservare”, e comunque “non c’è spazio”.
Da qui anche l’altro supposto privilegio di poter/dover cambiare tanti lavori, per adeguarsi alle necessità del mercato, non avendo quindi il tempo di  esercitarsi in quegli studi e quelle ricerche che soli consentono di giungere ad un livello di eccellenza, che anzi è strategicamente negato e posto fuori mercato attraverso la banalizzazione del gusto e del sapere, operata attraverso una sistematica riduzione semantica del linguaggio, che non può che corrispondere a una riduzione della capacità di risoluzione del pensiero. Fino al punto che, per il noto effetto moltiplicatore prodotto dai sistemi di comunicazione di massa, “realtà” diventa la rappresentazione delle opinioni di una massa di analfabeti. E dell’intelligenza non si sente più la mancanza. Si abbassa così la domanda di “competenza” e di “conoscenza” che diventano qualità non più richieste.
Tutti “liberi” dalle differenze, “liberi” dalle competenze, “liberi” di spostarsi dove il lavoro chiama, spiriti dal pensiero leggero, fratelli analfabeti, operai consumatori di se stessi.
Che l’Architettura Moderna abbia partecipato, più o meno ingenuamente, più o meno inconsapevolmente,  alla festa della Modernità,  è peccato irredimibile, responsabilità imperdonabile,  che basta da sola (al di là – cioè – dei pur discutibili esiti formali),  a giustificarne la condanna senza appello  e ad auspicarne la mai troppo rapida fine.

Quando si sente parlare di fine della Modernità significa che il capitalismo sta resettando mercati e sistemi di produzione, al fine di mantenere i livelli occupazionali necessari al funzionamento sistema, cioè al consumo.
Questo, con buona pace delle anime pie, è stato il post-moderno; questo è il post-post-moderno; questo sarà il post-umano, the final frontier (dove nessuno è mai giunto prima).
In questo senso la produzione post-post-moderna di prodotti tradizionali ecocompatibili a chilometro zero ma delocalizabili è del tutto analoga a quello che alla fine dell’Ottocento produceva oggetti tradizionali con decorazioni art nouveau realizzati in serie. Così come attraverso un percorso parallelo – in modo che nessuno dei due escluda o sminuisca l’altro –  l’evoluzione della tecnologia post-umana promette a tutte le tasche il Paradiso della Connessione Eterna.

La fine vera della Modernità non può essere altro che l’esito di una catastrofe, cioè del collasso di un sistema che inevitabilmente produca una crisi della relazionabilità ed una conseguente e salutare rifondazione dell’esperienza. Dopo duecento anni il sistema sociale imposto dalla produzione industriale sembrerebbe finalmente arrivato al capolinea, scontrandosi con i limiti delle risorse, con la fragilità intrinseca di ogni sistema strutturalmente rigido, con le conseguenze devastanti prodotte dalla sua stessa esistenza.
La differenza tra l’attuale crisi  e quelle del passato consiste nel fatto  che il sistema sociale ha prodotto un cambiamento degli equilibri  al livello globale di cui non siamo in grado di prevedere le conseguenze.
E tuttavia, se non siamo in grado di costruire uno scenario per il pianeta del 2050, abbiamo fiducia nel potere che frena, cioè nella nostra capacità di essere sempre riusciti ad evitare la catastrofe finale, la sola che consentirebbe un cambiamento radicale, e la venuta del nuovo dio.
Cioè nella nostra capacità di fermarci prima di superare il limite, laddove però la pericolosità della crisi attuale deriva appunto dalla nostra conoscenza del limite, non più così chiara; e nella possibilità non più scontata  (in termini di tempo necessario a mobilitare masse e capitali), di resettare paesaggi e impianti produttivi in  funzione dell’utilizzo di nuove risorse che sostituiscano quelle in via di esaurimento, e che consentano di continuare a produrre nuove merci di cui culture di massa all’uopo sviluppate costituiranno il bisogno e la richiesta.
Perpetuando in questo modo l’eterno ciclo della fine e della rinascita della Modernità.

Smarriti in questo non-paesaggio, tra continui mancamenti del terreno sotto i piedi,  il nostro pensiero va a Liuba che parte, la poesia che Eugenio Montale scrisse nel ‘38 per la sua amica Liuba Flesh, israelita, che alla vigilia della guerra ormai imminente, lasciava l’Italia.

Non il grillo ma il gatto
del focolare
or ti consiglia, splendido
lare della dispersa tua famiglia.
La casa che tu rechi
con te ravvolta, gabbia o cappelliera?,
sovrasta i ciechi tempi come il flutto
arca leggera – e basta al tuo riscatto.

L’essere nomadi, sul piano culturale, prima, e poi pratico, anche, significa essere fuggiti da un male peggiore.  Ma la strada che si percorre è un filo sottile sul quale sempre si sta in bilico tra il non essere schiavi e il non essere liberi.

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