Ingresso





“Chiunque sia stato educato fin qui a questi misteri di amore, contemplando l’una dopo l’altra come si conviene le cose belle, giunto oramai al termine della sua iniziazione d’amore, ecco d’un tratto egli potrà mirare cosa per sua natura meravigliosa, quella bellezza, o Socrate, per la quale già sostenne in passato ogni fatica: bellezza eterna, che non nasce né perisce, né cresce né scema, che non è parte bella e parte brutta, né bella un momento e brutta in un altro, ne bella rispetto a una cosa e brutta rispetto a un’altra, né bella in un luogo e brutta in un altro, né bella per alcuni e brutta per altri;  e nemmeno gli apparirà nell’immagine di un bel volto o di belle mani o di altra simigliante cosa corporea; e nemmeno avrà forma di discorso o di scienza; né avrà sede in altro essere diverso da sé, per esempio in un essere vivente, o su la terra o nel cielo o in altro luogo qualunque; ma essa è tutta sola in sé con sé stessa,  uniforme ed eterna;  e tutte le altre cose che sono belle, di lei in siffatto modo partecipano, che dal loro generarsi e perire ella non riceve mai né accrescimento né diminuzione, né alcun’altra modificazione patisce. E quando taluno, da queste varie bellezze per diritto amore salendo, incominci a vedere quella pura bellezza, si può dire che egli tocca ormai il suo fine. Perché questo è il diritto cammino che uno fa da sé stesso o guidato da altri per la via d’amore:  che egli incomincia da queste particolari bellezze a salire in su per desìo di quella suprema bellezza, e sempre sale, come per i gradi di una scala, da una persona bella a due, e da due a tutte le persone belle, e dalle belle persone alle belle occupazioni, e dalle belle occupazioni alle belle scienze,  fino a che da queste scienze non giunge per ultimo a quella scienza la quale non di altra cosa è scienza se non della perfetta bellezza; ed ecco egli conosce finalmente che cosa è codesta perfetta bellezza.


E se c’è momento nella vita, o amico Socrate, disse la ospite di Mantinea, che veramente la vita meriti d’esser vissuta, è proprio questo, quando si contempli la vera bellezza. Chè se mai ti accada di scorgerla, più nulla ti sembreranno al paragone e l’oro e le vesti e i bei fanciulli e i bei giovinetti; nonostante che ora a vedere costoro tu rimanga stupito e turbato, e siate pronti e disposti, tu e altri molti come te,  per la smania di veder sempre codesti amori vostri e sempre stare con loro, a non mangiare nemmeno più né bere, se ciò fosse possibile, pur di vivere nella contemplazione e nella compagnia di quelli. E allora, disse, pensiamo un poco se ad alcuno capitasse vedere essa stessa la bellezza nella sua purità limpidissima, senza mistura veruna, e non contaminata da carni umane e colori e altre molte vanità caduche, ma proprio la divina bellezza in sé potesse contemplare,  immacolata e uniforme! Credi tu, disse, che sia miserevole vita quella di colui che quivi abbia volto lo sguardo, e codesta bellezza miri con l’occhio con cui si deve mirare, e in compagnia di codesta egli viva? O non pensi, disse, che a colui solamente il quale veda quaggiù la bellezza con quell’occhio ond’ella è visibile, a colui solamente accadrà generare non già immagini di virtù, perché non immagini egli attinge con l’occhio suo, ma vere e schiette virtù, perché la verità egli attinge; e generando egli e nutrendo vera virtù sarà caro agli dei, e, se alcun altro fu mai degli uomini, sarà anche immortale?”

(Simposio, 210 e – 212 a; trad. M. Valgimigli).

Ciò di cui Platone non si avvide, né probabilmente poteva, è che solo grazie al nostro corpo, che rimane lo strumento più complesso, evoluto e sensibile di tutto l’universo conosciuto, possiamo cogliere l’infinita bellezza.
Né ebbe consapevolezza del fatto che il nostro corpo non è soltanto ciò che è contenuto dall’involucro della pelle, ma è questo stesso insieme a tutto ciò che è al di fuori di esso. Il nostro corpo infatti è il corpo nostro e il corpo della terra insieme. Ed è solo grazie ad esso che il nostro spirito può elevarsi ad altezze tanto vertiginose. Imputare ai così detti “limiti” del corpo l’impossibilità di cogliere l’essenza dell’essere, significa non vedere che solo grazie a detto corpo possiamo cogliere l’esistenza dell’essenza dell’essere.
Il fatto di vedere il nostro corpo come un limite e non invece per quello che realmente è, una ricchezza infinita, è la causa della rovina dell’uomo, qui in Occidente e ancora di più in Oriente. Questo è ciò che Holderlin intuì, che Leopardi vide, e che Nietzsche, che di Holderlin e di Leopardi fu il continuatore, consegnò alla storia; sacrificando (per noi) la sua stessa vita.

Al di là di queste considerazioni, che lasciano il tempo che trovano, non potendo noi parlare con Platone, il valore ancora oggi prezioso di queste pagine, e con esse la cosa più preziosa di tutto il lascito di Platone all’umanità, l’insegnamento ancora oggi inascoltato, il motivo per il quale questa pagina è qui ricopiata come un epigrafe (un po’ troppo lunga, invero) posta sopra la porta di questa casa, consiste nell’aver detto non solo che la bellezza è l’unica cosa per cui vale la pena vivere, ma sopra tutto che solo l’anima che riesce a “partecipare”, cioè a far parte, a essere parte (méthexis) della bellezza infinita, diventa immortale. E’ la bellezza dunque, alla quale l’anima (grazie al corpo) riesce a partecipare, della quale riesce ad essere parte, che rende l’anima stessa immortale. E non la bontà, come qualcuno da duemila anni vorrebbe darci ad intendere.

(nella foto uno scorcio della cupola del Duomo di Pavia)

Comments are closed.