
– Mostrarle dei tentativi? Ahimé, benché già vecchio, sono ancora agli inizi. Tuttavia comincio a capire, se così si può dire, io comincio a capire…
Un discorso sull’abitare non può prescindere da un discorso sull’essere.
Il concetto di essere è im-mediatamente (cioè senza alcuna mediazione possibile) legato al concetto di tempo, e il concetto di tempo è diventato il principale strumento ideologico posto in essere dalla vita produttiva. Ma è un concetto di tempo alterato, che si configura in senso lineare, come una progressione verso il futuro che si lascia indietro (dimentica), per necessità e quindi per strumentale ideologica virtù, ciò su cui si appoggia per andare avanti. Il tempo reale, cioè il tempo dell’essere nella sua pienezza è invece un tempo circolare, cioè un tempo in cui tutto torna. Da ciò discende che si può fare esperienza dell’essere nella sua pienezza solo se si vive nel tempo che gli è proprio. La teoria che qui si vuole dimostrare è che solo attraverso l’arte è possibile compiere questa esperienza. La difficoltà della ricerca posta in essere deriva dalla complessità stessa che oggi caratterizza il sapere, inerente alla diffusione incontrollabile di conoscenze sempre parziali e di carattere interpretativo, alle modalità con cui si acquisiscono e al modo in cui organizzano, con la conseguente necessità di risemantizzare parole, segni e simboli il cui significato è stato alterato e normalizzato, cioè indotto nell’uso in maniera distorta (un esempio per tutti: la parola “arte” oggi non significa assolutamente nulla); ma soprattutto dalla complessità che l’oggetto stesso della ricerca viene sempre più assumendo: chiedersi cosa sia l’essere, sempre per fare un esempio, mentre si partecipa a una video conferenza olografica significa chiedersi se si è qui o si è là, o se si può essere qui e là, e anche in altri innumerevoli là, e soprattutto quando oltre alla visione si potrà trasmettere per via elettrica anche la sensibilità fisica, forme elettroniche di tatto, olfatto e odorato, ebbene, cos’è l’essere che può essere in ogni luogo non essendo in alcuno di essi? Nel farsi di questa ricerca, che com’è facilmente intuibile non può avere esito, è possibile tuttavia, e anzi necessario, scattare delle fotografie degli scavi, per documentare lo stato di avanzamento dei lavori, e in questo modo introdurre i necessari correttivi (rispetto alla tecnica di scavo usata, per esempio), o semplicemente quegli aggiustamenti di percorso nell’andamento geografico dello scavo, che lo studio e l’analisi delle fotografie possono suggerire. Perché comunque di scavo si tratta, questo ormai è evidente, e l’archeologia è la nostra disciplina. (La vera meraviglia in questo farsi della ricerca, è scoprire che realtà e metafora coincidono, e cioè che scavando alla ricerca di tracce che ci restituiscano il pensiero antico ci avviciniamo sempre più alla comprensione dell’essere. Cioè lo scavo fisico e lo “scavo interiore” procedono di pari passo, e più indietro si arriva a conoscere il pensiero più avanti si arriva a comprenderlo).
Qui dunque l’attenzione si concentra su un aspetto particolare che tuttavia ci mostra in piena luce la portata degli argomenti messi in campo.
Il discorso è relativo alla poesia, cioè alla sua capacità di istituire un piano dimensionale diverso rispetto a quello sul quale ordinariamente scivola il tempo della modernità.
Nel verso infatti, (da versus, vèrtere, il voltare, quindi “l’andare a capo”) attraverso la cadenza degli accenti, si stabilisce un ritmo per mezzo e per causa del quale il tempo torna dove era partito. Nel senso che per la sapiente composizione degli accenti il verso si interrompe dove è necessario che si interrompa dando modo al tempo di andare a capo, cioè di tornare indietro, istituendo in questo modo una progressione circolare. E’ bene insistere su questo passaggio: non si va a capo perché finisce il verso, ma perché l’andare a capo è l’esito verso il quale il verso ci ha condotto; così come non finisce il verso perché finisce la pagina, ma perché in quel preciso punto (del tempo) la proporzione degli spazi tra gli accenti dominanti l’ha concluso.
In questo modo il verso dà vita ad una dimensione temporale differente da quella istituita dal parlare ordinario, che è appunto la dimensione del tempo in cui tutto torna, perché attraverso l’esecuzione del verso il tempo, tornando dove era partito, tiene insieme tutto quello che nel suo farsi è avvenuto.
Questo tempo ciclico, cioè questo tempo che per andare avanti torna indietro, è l’Eterno Ritorno, che non è il banale ritorno del passato, ma il ritorno dei pensieri e dei sentimenti – cioè di tutto il sentito – del passato, e non è neanche un ritorno, perché i pensieri e il sentito del passato non sono mai andati via;
ed è anche l’Eternità come l’intendeva Spinoza, cioè la pienezza della vita;
ed è, infine, quello che voleva dire Holderlin, quando diceva che poeticamente abita l’uomo: e cioè che l’uomo abita solo in un tempo ciclico, cioè può abitare solo un tempo in cui tutto (sottoforma di pensieri e sentimenti) andando avanti torna.
Tempo ciclico che è il tempo del verso, cioè il tempo istituito dal verso, e in questo senso, per analogia, l’abitare può essere solo poetico: cioè abitare poeticamente significa darsi le condizioni per permanere nel tempo ciclico, il tempo che va avanti tornando indietro, che è il tempo reale dell’essere.
Questo oltre al tempo del verso è anche il tempo della musica, anzi lo è propriamente, nel senso che dalla musica tutto discende: sia il verso, che è appunto un pensare (cioè un essere) sotto forma di musica, in cui gli spazi tra gli accenti dominanti costituiscono dei veri e propri accordi; che l’architettura, cioè un organismo edilizio conformato secondo proporzioni armoniche che dalla musica discendono, nel quale ogni elemento, essendo espressione di una precisa misura che deriva da una precisa proporzione entra in consonanza con gli altri, anche qui formando dei veri e propri accordi, e costringendo appunto il tempo a tornare sempre dove era partito, tenendo insieme tutto e rappresentando plasticamente del Tutto l’unità.
Questo è il Duomo di Pavia; questo sono le Cappelle Medicee. Ma questo è anche, compiuto il necessario salto di scala, la Robie House di Frank L. Wright, o questo era, per altra via, invero, e con tutt’altri mezzi, se possibile ancora più raffinati, Casa Miller di Carlo Mollino.
Naturalmente non ogni casa può essere una architettura. Ma ognuno di noi, dal momento in cui inconsapevolmente si costituisce come soggetto, comincia a costruire la propria casa interiore, che è l’unico vero luogo in cui il soggetto vive, indipendentemente dal luogo fisico in cui materialmente si trova.
Abitare poeticamente dunque significa acquisire questa consapevolezza, cioè significa cominciare ad abitare nella propria casa interiore. Cosa non scontata e per nulla facile. Questa casa infatti, sebbene la si occupi fin dal primo battito di ciglia, tuttavia incessantemente bisogna costruirla, e a questa costruzione partecipano innumerevoli attori, interiori ed esteriori, e cioè solo necessariamente interiori, direbbero alcuni, o esteriori interiormente determinati, come direbbero altri, con i quali si può entrare in relazione per via casuale, come dicono alcuni, o facendo in modo che succeda casualmente, come dicono altri. Oltretutto i materiali di costruzione e i metodi utilizzati per assemblarli variano nel tempo, e quindi, come si vede, non è lavoro facile, a cui tutti possono essere disposti, come giustamente già Eraclito lamentava.
Tuttavia delle condizioni materiali di contorno devono darsi, e quando queste si perdono tutto diventa più difficile. Ogni casa infatti, pur non essendo una architettura, dovrebbe, per la sua conformazione (spazi fisici dedicati all’inutile, cioè metriquadri non redditizi, oggi inconcepibili), e per la sua permeabilità (permanenza delle storie nelle incrostazioni dell’intonaco e nei graffi del pavimento, oggi inconcepibili), consentire quella stratificazione dei giorni trascorsi che, essendo appunto visibile nel presente sotto forma di trasformazione (ingiallimento, invecchiamento) della materia, conferisce al presente stesso una diversa consistenza, trasformandolo in quella dimensione del reale che non è statico e vuoto permanere ma parvenza di altro, che è o che è stato, e che appunto attraverso quella parvenza permane. Trasformando cioè il presente nella permanenza di ciò che solo apparentemente è passato.
Bisogna cioè che la casa abbia la possibilità di invecchiare, e questo non è più possibile, non solo perché non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (tutto sia lucido e pulito: questa è l’etica del modernismo);
bisogna che la casa contenga spazi all’apparenza inutili, ma che si riveleranno preziosi per contenere (e nascondere) “scatole dei bottoni”, e questo non è più possibile e non solo perché non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (nessun centimetro deve essere sprecato);
ma anche perché nel moderno modello sociale conformato sulle esigenze del moderno modello produttivo non esiste più la casa, ma esistono solo alloggi, come già nel 1945 Adorno aveva scritto, e vengono i brividi a pensare a quanto oltre, rispetto ad allora, siamo andati.
E non esiste più la casa semplicemente perché non può esistere più la famiglia, ovverossia quell’organismo sociale che può nascere solo per conseguenza (e in virtù) della possibilità (cioè dell’opportunità, ai fini economici) per un nucleo di persone di permanere stabilmente in un luogo. La differenza tra economia locale ed economia globale è tutta qui, e le conseguenze che questo passaggio comporta sono tali da interessare i processi evolutivi, cioè sono in grado di cambiare la natura dell’uomo.
L’abitare poetico, e quindi la possibilità di esperire il tempo reale dell’essere, non è più possibile appunto perché non è più possibile l’abitare, che etimologicamente significa avere un habitus, cioè un abitudine, cioè una abitazione, che è la condizione in cui si ha un’abitudine: un darsi le condizioni per cui si manifesti una abitudine: un avere frequentazione di sé: dunque un “avere se stessi”. Cioè non si può essere pienamente, dunque essere sè nella sua pienezza (l’eternità di Spinoza), se non si può avere se stessi.
La lingua esprime con cruda immediatezza quello che pareva impossibile da definire e invece è del tutto evidente. Perché se non si può avere se stessi non si è di se stessi, ma di qualcun altro. Dunque schiavi.
“La domanda “Che cosa significa abitare poeticamenente?” aspetta ancora una risposta”. In questo modo Giorgio Agamben conclude il suo libro sulla follia di Hoderlin (Einaudi 2021). A me pare che la presente risposta, necessariamente (per natura) non esaustiva, sia tuttavia sufficiente non per stabilire una partenza, cosa di cui bisogna essere grati ad Agamben, ma semplicemente per tentare un passo avanti. E invero ad Agamben non bisogna esser grati per stabilito una partenza, che ad altri autori compete questo merito, (tra i quali e tra i più importanti Cacciari), ma per averlo ripreso, cioè per averlo riportato all’attenzione. Perché questo è il senso vero della sua ultima riflessione: la risposta si aspetta sempre perché le domande – quelle importanti – vengono rimosse. Sollecitare una risposta significa dunque tenere viva la domanda, e tenere viva la domanda è già una risposta.