A liberare la vita che l’uomo ha imprigionato

interior america

Il mondo dell’industrial design, cioè l’insieme degli oggetti – o la fanghiglia di merci, come scriveva Fortini nel 1962 – è un mondo che non ci appartiene.
Al di là della forma o del colore che i prodotti possono avere, essi semplicemente sono corpi a noi estranei. Non capiamo come sono fatti, di cosa sono fatti, da chi e spesso neanche per cosa sono fatti. L’unica cosa che sappiamo è che non dureranno molto, sia perché non danno l’impressione di poter durare, sia perché sono parte di un sistema di produzione fondato neanche più sull’obsolescenza programmata, ma sulla considerazione dell’effimero come categoria strutturante, che col suo imporsi soppianta tutte le altre: durata, resistenza, funzionalità, forma, contatto – tutto sacrificato (allegramente) all’ebrezza dell’evento. L’unico scambio empatico che involontariamente consentono è nella gestione creativa del loro degrado, cioè nella nostra capacità di continuare a utilizzarli malgrado l’obsolescenza o di riconvertirli prevenendo la sostituzione. Questo ci rivela il loro senso profondo: sono falsi, sia nel corpo (il materiale) che nell’anima (l’ideologia). Il loro scopo non è quello per assolvere il quale dichiarano di essere stati costruiti, ma quello – ormai neanche più celato – di mantenere alti i livelli di produzione, che però non essendo più collegati con l’occupazione servono solo ad accrescere la ricchezza di chi è già ricco.
Anche la casa è stata risucchiata nel vortice degli oggetti, diventando oggetto di consumo essa stessa, da cambiare o rinnovare secondo le campagne di marketing (le cosiddette “tendenze”) o le esigenze di mobilità del capitale.
Dell’abitare quasi nessuno ha più memoria, se già nel 1945 Adorno registrava l’avvenuta trasformazione della casa in alloggio. “Le abitazioni moderne sono astucci preparati da esperti per comuni banausi, o impianti di fabbrica capitati per caso nella sfera del consumo, senza il minimo rapporto con gli abitanti: esse contrastano brutalmente a ogni aspirazione verso un’esistenza indipendente, che del resto non esiste più”.
Trasformare la casa in un oggetto significa trasformare in oggetto anche la vita, che non è più presenza che manifesta in sé l’immanenza dell’essere, ma un semplice dato statistico da gestire all’interno dei piani di sviluppo.
Questo sistema complesso e per certi versi affascinante, vive e si mantiene grazie anche al contributo spesso compiaciuto dei designers, dei progettisti di prodotto, degli esperti di comunicazione, degli inventori di necessità inesistenti, dei costruttori di realtà di cartapesta, dei creativi, degli autori, dei pubblicitari, dei giornalisti di settore, dei pensatori “pret à porter”, cioè di tutte quelle cosiddette nuove professionalità parcellizzate nelle competenze, negli ambiti di intervento e nelle responsabilità, e quindi senza più obblighi di coscienza, e, soprattutto, rigorosamente privi, per formazione e contratto, di consapevolezza storica.
Da questa parvenza di mondo fatto di luoghi, oggetti e figure senza soggetto, in cui informazioni di contenuto sempre più ridotto vengono scambiate solo attraverso immagini codificate, esaurendosi il senso di tutto nella performance dello scambio, indipendentemente dal valore del contenuto; in cui anche le parole, persa ogni necessità di ricchezza di significato, diventano immagini esse stesse, e presto diventeranno solo 0 e 1, e saranno tuttavia sufficienti a esprimere quel poco che resterà da esprimere; in cui non solo è stato annichilito in questo modo il senso critico, ma persino l’esercizio dell’analisi; da questa condizione post-umana, o di  postumi in vita,  la fuga è impossibile. L’unica possibilità di sopravvivere è  passare inosservati, magari nascondendosi nelle sacche ristagnanti o nelle zone umide che inevitabilmente si creano tra i flussi di mercato. Nelle pieghe del capitale.
Qui non si tratta di ribadire cose già ovvie: ognuno troverà il suo modo di tornare alla  natura, perché ci sarà sempre una natura a cui tornare, anche negli spazi interstiziali di strutture artificiali complesse, e basterà un cartone a fare da tappeto.
Semplicemente importava chiarire di cosa si parla quando si parla – tra un aperitivo e un dj set – di design.
c.l.

(il titolo è preso in prestito da Gil Deleuze che così rispondeva alla domanda: “A cosa serve la letteratura?” Penso che si possa estendere, senza paura di sbagliare, anche all’architettura, che poi è la stessa cosa.)
(la foto è tratta da “Interior America” di Clauncey Hare)

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