ATLANTE DELL’ASSENZA II. vol. X -2021

ANNOTAZIONI VOL. X – 2021

4.1.21
La musica è il tempo del processo, inteso nel senso di Whitehead, dunque il tempo vero: un flusso. Mentre il tempo ordinario è il tempo della realtà reificata, fatta cosa, in cui ogni istante brucia il precedente.

Il tempo del divenire non è divisibile in tempi interni, in “sottotempi”, in dimensioni (passato, presente, futuro). E un tempo uniforme, sospeso, in cui il modo presente indica soltanto la presenza del pensiero, che nel presente è passato e futuro insieme, essendo il futuro passato che si svolge. La musica è la forma del tempo del divenire, che attraverso l’armonia tutti i suoi accordi tiene insieme, come il verso attraverso i suoi accenti tutti i suoi segni tiene insieme.
Mentre lo scandire dei secondi che si succedono è il suono dell’eterno presente, spoglio, leggero, mai gravido di conseguenze, che ad ogni istante si ripete. (18.4.22)

4.1.21
Differenti forme della narrazione: Malick, il cinema come flusso di coscienza.
Nella narrazione tradizionale si descrivono i personaggi che compiono l’azione, il contesto in cui l’azione si svolge e dunque si dà conto dello svolgersi della stessa.
Nella narrazione processuale (il flusso di coscienza), i personaggi che compiono l’azione si costituiscono, si formano –  formano se stessi – momento dopo momento, attraverso i propri pensieri e le proprie sensazioni, pensiero dopo pensiero. Il contesto e l’azione risultano dal modificarsi dei pensieri e delle sensazioni, come un riflesso. Quindi non sono mai dati, ne definiti. La realtà non è mai data, né definita: è sempre il riflesso della vita interiore.

4.1.21

Nietzsche, F.P., 3.3.1, pag. 41
La musica è un linguaggio capace di essere infinitamente chiarificato. Il linguaggio spiega solo attraverso concetti, attra erso il mezzo del pensiero sorge dunque la simpatia. Ciò pone un limite al linguaggio.
Quanto sopra vale soltanto rispetto alla lingua oggettiva scritta, mentre la lingua parlata è sonora: e gli intervalli, i ritmi, i tempi, l’intensità e l’accentuazione sono altrettanti simboli del contenuto sentimentale da rappresentare. Tutto ciò appartiene al tempo stesso della musica. Ma la massa prevalente del sentimento non si esperime attraverso le parole. E anche la pariola accenna soltanto: essa è la superficie di un mare mosso, che è tempestoso nelle sue profondità.
***
Sviluppo che dall’incomprensibile geroglifico conduce sino alla frase.
***
La poesia segue spesso una strada che conduce alla musica: quando ricerca i più delicati concetti, e in questo campo la grossolana materialità del concetto quasi svanisce…

Nietzsche, F.P. 3,3,1 (26) pag. 49
Bisogna chiarire come si sono formati  principi  fondamentali del dramma. Le garndi processioni con rapprrsentazioni erano già dramma.
L’epos vuole che ci sorgano immagini davanti agli occhi; il dramma al contrario ci presenta subito le immagini. Qual è la mia intenzione guardando un libro di figure?  Io voglio capire. Dunque inversamente: capisco il narratore epico e ricevo in mano un concetto dopo l’altro: ora mi aiuto con la fantasia, sintetizzo tutto e ho un’immagine. Così è raggiunto lo scopo: capisco l’immagine quando l’ho prodotta io stesso.
Nel dramma parto dall’immagine: se sto qui a pensare cosa significhi questo o quello mi sfugge il godimento. Tutto deve andare da sé.
(Nietzsche però non coglie la conseguenza di tutto ciò: l’immagni ricevuta già pronta ti impedisce di elaborare una tua immagine, come invece succede quando ascolti un racconto. Dunque l’immagine ricevuta ti impedisce di pensare, imponendoti qualcosa di già pensato da altri. Il dramma come inizio della perdita della capacità di sintesi operata da pensiero. Perché quello che si perde è la capacità di sintesi, che è il motore della creatività.)

9.1.21
Schelling/Calogero/Treccani
L’orientamento ideale dello S.  nella prima fase risulta evidente  già dal modo in cui egli delinea (nel Sistema)  il compito della filosofia trascendentale. Egli muove dalla antitesi della soggettività all’oggettività come costituenti assoluti di ogni conoscenza  e considera distintamente il caso in cui data l’oggettività  si debba trovare una soggettività che ad essa convenga, e quella in cui il processo sia opposto. Il primo caso corrisponde alla scienza della natura, il secondo a quello della filosofia trascendentale.  Oggetto e Soggetto sono quindi considerati come punti di partenza equipollenti (e contemporanei di un processo che non si può disgiungere).
Ma anche in seno alla filosofia trascendentale si riproduce la stessa posizione: giacchè pur essendo punto di partenza l’assoluto Io, questo, per porsi e quindi per delimitarsi come tale, ha bisogno di opporre a sé il limite del non-Io.
E in quanto questo limite è posto dall’Io stesso, è vera la considerazione idealistica per cui l’oggetto è condizionato dal soggetto; ma in quanto il limite è necessario all’Io perché questo possa porre sé medesimo, è vare la considerazione realistica per cui il soggetto è condizionato dall’oggetto.

Anche in questo caso il soggetto e l’oggetto, l’Io e il Non-io, l’ideale e il reale, non sono termini l’uno dei quali debba per forza risolversi nell’altro, o almeno fondarsi sull’altro,  ma termini tra cui il rapporto di condizionamento è reciproco, a seconda che esso venga considerato in funzione dell’uno o dell’altro di essi.

Dunque esiste uno scambio continuo tra un’entità che si definisce istituendo delle differenze, e un’entità che condiziona la definizione della prima entità costituendosi come differenza. Questo scambio continuo è ciò che Holderlin chiama “essere” (vedi “giudizio e Essere).

11.1.21
De Scanctis, 1.3.263
La religione omerica

Tali nella essenza e nei caratteri gli dei di Omero. E conformi alla loro natura le relazioni con l’uomo. Tutto ciò che gli accade, e tutto ciò che egli opera, l’uomo lo riferisce alla divinità come causa efficiente.

Dagli dei dipendono la salute e il benessere dell’uomo non meno che le sorti delle battaglie. La morte è dovuta ai dardi scagliati da Apollo o das Artemide; il valore del guerriero, l’ispirazione dell’aedo, la perizia del fabbro, la bellezza della fanciulla, l’abbondanza del raccolto,  sono tutti doni degli dei. Essi intervengono anche nei piccoli fatti della vita quotidiana … favoriscono o dasnneggiano, illuminano o accecano.
La loro azione non è determinata da alte ragioni morali, ma da sentimenti e passioni mutevoli che hanno i medesimi caratteri dei sentimenti e delle passioni umane, e alla cui radice sta di regola, come per l’uomo, l’egoismo.
L’epopea pur tuttavia considera l’uomo responsabile dei propri atti, e per essi lo fa punire dagli dei o da altri uomini.
Circondato da tanti dei, che sa in parte nemici, l’uomo omerico non si perde d’animo perché sa che regna nel mondo divino un ordine come nel mondo  umano, e ha fiducia in Zeus, che è il più potente degli dei e che non l’abbandonerà ai suoi nemici, se non quando così sarà imposto dall’ineluttabile destino. Ma in questo destino (Moira) che incombe su ciascuno e che si sostanzia soprattutto nel fatto della morte che nessuno può evitare, non si deve cogliere uno spirito religioso, un significato religioso profiondo, quasi una vaga formulazione del concetto di provvidenza.
L’esperienza infatti insegna che si danno  mali da cui non vi è preghiera o sacrificio agli dei che ci può salvare; e la riflessione intorno al passato ammonisce non esservi forza umana o divina la quale possa oggi impedire che avvenisse quel che è avvenuto, donde il facile paralogismo che quanto  è avvenuto era necessario avvenisse.

Omero risolve il contrasto tra la forza oscura della Moira e la potenza degli dei in modo contraddittorio, identificando la Moira  con la volontà stessa degli dei.
Una analoga contraddizione c’è tra lal possibilità che egli ammette di una azione umana intenzionale ed efficace e la ineluttabilità della Moira, che dovrebbe rendere vana, anzi interamente determinare, l’azione degli uomini.
O ancora fra quei luoghi in cui pare che il poeta ammetta la possibilità di eventi contrari al fato e la ineluttabilità insita nel concetto stesso di fato.

19.01.21
Leopardi
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.

Opera fondamentale di estetica. E’ veramente incredibile quanto sia mancata l’influenza del Leopardi su tutto il secolo e sul novecento a causa di censure e oscuramenti. Fosse vissuto in Germania o in Francia la sua influenza sul mondo sarebbe stata infinitamente più grande e oggi il mondo sarebbe diverso.

Nelle due prime pagine Leopardi presenta il lavoro a cui si accinge e le motivazioni che lo hanno indotto a farlo,  e cioè di confutare in materia argomentata quanto si dice intorno alla poesia moderna o cosidetta romantica.

“ Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà fintantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile, e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale. Dice il Cavaliere  (Lodovico di Breme, autore di uno scritto sulla poesia moderna) che la smania poetica degli antichi veniva ssoprattutto dall’ignoranza per la quale meravigliandosi balordamente d’ogni cosa, e credendo di vedere a ogni tratto qualche miracolo, pigliarono argomento di poesia da qualunque accidente, e immaginarono un’infinità di forze soprannaturali e di sogni e di larve: e sopraggiunge che presentemente, avendo gli uomini considerate e imparate, e intendendo e conoscendo e ditinguendo tante cose, ed essendo persuasi e certi  di tante verità, nelle facoltà loro non sono, dice egli co’ suoi termini d’arte, compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione logica e il prestigio favoloso: smagata è dunque di questa immaginazione la mente dell’uomo. Ora da queste cose, chi voglia discorrer bene e da logico,  segue che la poesia, non potendo più ingannare gli uomini non deve più fingere né mentire, ma bisogna che sempre vada dietro alla ragione e alla verità.

Per i romantici dunque la poesia nè più nè meno sarebbe sparita, e di netto si sarebbe immedesimata e diventata tuttuno con la metafisica, e risolta in un complesso di meditazioni.

Leopardi rileva però la contraddizione della poesia romantica che vive e trova spunto in favole, detti e dicerie di culture diverse, orientali e medio orientali:

E quello ch’è più mirabile,  intantoché maledicevano l’uso delle favole greche, hanno inzeppate ne’ verso loro, quante favole turche arabe pesiane indiane  scandinave celtiche hanno voluto quasi che l’intuizione logica, che col  prestigio favoloso della Grecia non può stare, con quello dell’oriente e del settentrione potesse stare.

Quindi seguita per altre due pagine a discutere sulla necessità che la poesia ci inganni, mettendo in risalto che ingannando la facoltà immaginativa, e non la ragione intellettiva, essa non può nuocere agli uomini ma anzi, e solo in questo nodo, dilettarli.

Quindi entra nel merito:

Ora cerchiamo quello che ho detto, cioè quale sia più naturale nella poesia, la maniera antica o la maniera moderna.

E l’esperienza e la convesrazione scambievole e lo studio e mille altre cagioni che non occorre dire, ci hanno fatti col tempo tanto diversi da quei nostri primi padri che se questi risuscitassero, si può chedere che a stento ci ravviserebbro per figli loro. Laonde non è maraviglia se noi così pratici e dotti e così cambiati come siamo, ai quali è manifesto quello che agli antichi era occulto, e noto un mondo di cagioni che agli antichi era ignoto, e certo quello che agli antichi era incredibile, e vecchio quello che agli antichi era nuovo,  non guardiamo più la natura ordiariamente con quegli occhi,  e nei diversi casi della vita nostra appena proviamo una piccolissima parte di quegli effetti che le medesime cagioni  partorivano ne’ primi padri.  Ma il cielo il amre e la terra, e tutta la faccia del mondo e lo spettacolo della natura e le sue stupende bellezze furono da principio conformate alle proprietà di spettatori naturali:ora la condizione naturale degli uomini è quella d’ignoranza; ma la condizione degli scienziati che contemplando le stelle, sanno il perché delle loro apparenze,  e non si maravigliano del lampo né del tuono, e contemplando il mare e la terra,  sanno che cosa racchiuda la terra e che  cosa il mare, e perché le onde si innoltrino e si ritirino, e come soffino i venti e come corrano i fiumi e quelle piante crescano e quel monte sia vestito e quell’altro nudo, e che conoscono a parte a parte gli affetti e le qualità umane, e le forze e gli ordigni più coperti e le attenenze e i rispetti e le corrispondenze del gran composto universale, e secondo il gergo della nuova disciplina le armonie della natura e le analogie e le simpatie, è una condizione artificiata: e infatti la natura non si palesa ma si nasconde,  si che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille  ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti: ma la natura così violentata e scoperta non concede più quei diletti che prima offeriva spontaneamente.

E quello che dico degli scienziati dico proporzionatamente  più o meno di tutti gli inciviliti, e però di noi. (…)

Non contendo già dell’utile,  né mi viene pure in mente di gareggiatre con quei filosofi che piangono l’uomo dirozzato e ripulito  e i pomi e il latte cambiati in carni, e le foglie d’alberi e le pelli di bestie rivolte in panni, e le spelonche e i tuguri in palazzi, e gli eremi e le selve in città: non è del poeta ma del filosofo il guardare all’utile e al vero: il poeta ha cura del dilettoso, e del dilettoso alla immaginazione, e questo raccoglie così dal vero come dal falso, anzi, per lo più mente e si studia di fare inganno,  e l’ingannatore non cerca il vero, ma la sembianza del vero.

Le bellezze della natura non variano per il variare dei riguardanti. Nessuna mutazione degli uomini indusse mai cambiamento della natura.

Dunque per godere delle sue bellezze, che sono state  conformate dalla natura per il diletto di spettatori naturali, è necessario che non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura, e perciò la poesia non si venga mutando, come vogliono i moderni, ma nei suoi caratteri principali rimanga immutabile.

E questo addattarsi degli uomini alla natura, consiste in rimetterci coll’immaginazione come meglio possiamo nello stato primitivo de’ nostri maggiori,  la qual cosa ci fa fare senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie.

Ora che così facendo noi, ci s’apra innanzi una sorgente di diletti incredibili e celesti, si può comprendere sol tanto che, oltre il fatto medesimo si ponga mente alla nostra irrepugnabile inclinazione al primitivo  e al naturale schietto e illibato, la quale è per modo innata negli uomini che gli effetti suoi perché sono giornalieri non si considerano, , e accade in questa come in mille altre cose, che la frequenza impedisce l’attenzione.  Ma da quale altra fonte derivano e il nostro affetto alla semplicità dei costumi e delle maniere, e del favellare e dello scrivere,  e d’ogni cosa;  e quella indicibile soavità che ci diffonde nell’animas non solamente la veduta ma il pensiero e le immagini della vita rustica,  e i poeti che la figurano (…); e quei moti che ci suscita e quella beatitudine che ci cagiona la lettura di qualunque poeta espresse  e dipinse meglio il primitivo,  di Omero, di Esiodo, di Anacreonte, di Callimaco sigolarmente?  E quelle due capitali disposizioni dell’animo nostro, l’amore della natutalezza e l’odio dell’affettazione,  l’uno e l’altro ingenito, credo, a tutti gli uomini (…) provengono parimente dalla nostra inclinazione al primitivo. E questa medesima fa che qualora ci abbattiamo in oggetti non tocchi dall’incivilimento, (…) giocondissimamente ci compiacciamo con indistinto desiderio; perché la natura ci chiama e ci invita, e se ricusiamo ci sforza, la natura   vergine e intatta,  contro la quale non può sperienza né  sapere né scoperte fatte,  né costu mi cambiati né coltura, né artifizi né ornamenti,  ma nessuna né splendida né grande nè antica né forte opera umana pareggerà, non che altro, un vestigio dell’opera di Dio.

Interessante questo porre ogni opera umana al di sotto della natura, financo la poesia, che pure è paleseente opera superiore a qualsiasi forma della natura, per appartenere a una categoria diversa di enti. Ndc.

E che questo che ho detto sia vero, chi è di noi che (…) non lo sappia e non lo veda e non lo senta e non lo possa confermare col racconto dell’esperienza propria certissima e frequentissima? (…) Così come le forme primitive della natura non sono mutate

 né si muteranno,  così l’amore degli uomini verso quelle non è spento né si spegnerà prima della stirpe umana.

Ma che vo io cercando cose o minute o scure o poco note, potendo dirne una più chiara della luce, e notissima a chiccessia (…). Imperocchè quello che furono gli antichi siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno,  dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione  della fantasia, quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e la natura dei nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna insensata nessuna;
Passagio di grande valore critico. L’ignoranza che possedevamo da fanciulli era in realtà ignoranza sì  ma di sterili idee, ed era però ricchezza e pienezza di senso.

Quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva  che in un certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole,  e abbracciavamo sassi e legni e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficiati carezzavamo cose incapaci di ingiuria e di benefizio;  quando la maraviglia tanto grata a noi che spesso che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva;  quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degli insetti  quando il canto degli uccelli quando la chiarezza delle fonti, tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo ciascun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; (…) Ma qual’era a quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e instancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne,  e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti, che sogni beati, che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza, quanto vigore,  quanta efficacia, quanta commozione quanto diletto. (…) Io senza fallo mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui. Ora che la memoria della fanciullezza e dei pensieri e delle immaginazioni di quell’età ci sia straordinariamente cara … non voglio è dimostrarlo né avvertirlo: non è uomo vivo che non lo sappia (…).
Ecco dunque manifesta e palpabile in noi la prepotente inclinazione al primitivo, dico in noi stessi,  cioè negli uomini di questo tempo, in  quei medesimi ai quali i romantici proccurano di persuadere che la materia antica e primitiva di poesia non faccia per loro. Imperocchè dal genio che abbiamo alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella che si palesa e regna nei putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi, e le ricodanze della prima età e le idee prime nostre che noi siamo così gagliardamente tratti ad amare e desiderare, sono appunto quelle che ci ridesta l’imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano divinamente gli antichi, quelle che i romantici bestemmiano e riggettano e sbandiscono dalla poesia, gridando che non siamo più fanciulli: e pur troppo non siamo; ma il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura e imitando la natura dilettare: e dové un diletto poetico altrettantovero e grande e puro e profondo? E qual è la natura se questa non è? Anzi qual è o fu mai fuorchè questa?

Da segnalare il fatto che il poeta deve imitare la natura. E cosa diceva Holderlin quando asseriva che il poeta doveva con la sua tecnica imitare l’alternarsi e il divenire, che è il linguaggio degli dei? Vedi So9lmi sul superamento della concezione della poesia come imitazione della natura per l’idea della natura stessa come poesia/poetante.

Nelle usanze e nelle opinioni  e nel sapere del tempo nostro cercheremo la natura e le illusioni? Che natura o che leggiadra illusione speriamo di trovare in un tempo dove tutto è civiltà, e ragione e scienza e pratica e artifizi; quando non è luogo né cosa che abbia potuto essere alterata dagli uomini in cui la natura primitiva apparisca altrimenti che a somiglianza di un lampo rarissimo, (…);  quando la maraviglia è vergogna; (…) quando il cuor nostro o disincantato dall’intelletto non palpita, o se anche palpita corre tosto l’intelletto a ricercargli e frigargli tutti i segreti di questo palpito e svanisce ogni ilusione svanisce ogni dolcezza svanisce ogni altezza di pensieri ;  (…) quando la scienza dell’animo umano,  già certa e quasi matematica e risolutamente analitica, secondo l’idioma scolastico dei moderni per poco non s’espone con angoli e cerchi, e non si tratta per computi e formule numerali? La vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell’indistria, le esperienze, le scoperte, gli effetti dell’incivilimento daranno lena, secondoché dice il Cavaliere, alla fantasia? Quelle cose che l’affogano l’avviveranno? La ragione ch’a oni poco la mette in fuga e la perseguita e l’assalisce e quasi la sforza a confessare ch’ella sogna, l’esperienza che l’assedia e la stringe e le oppone la sua molestissima lucerna,  la scienza che le contrasta e le sbarra tutti i passi col vero, queste cose alimenteranno e conforteranno l’immaginativa? Non le angustie, non le carceri, non le catene danno baldanza  alla fantasia, ma la libertà (…) ed il vero conosciuto ed il certo hanno per natura di togliere la libertà di immaginare. Non però va creduto che all’immaginazione sia scemata la forza: solo l’uso è scemato e scema, man mano che prende piede la signoria dell’intelletto.

Resta la forza ma oziosa, restano i campi  per li quali soleva esercitarsi la foga della fantasia, ma chiusi dai ripari dell’intelletto:  a volere che l’immaginazione faccia presetemente in noi quegli effetti che  che facea negli antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla dall’oppressione dell’intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti: questo può fare il poeta, questo deve; (…)

La perdita della fantasia a causa dell’intelletto è esattamente la perdita della capacità di pensiero simbolico che è l’oggetto della mia ricerca; e il ruolo del poeta, unico che può “risvegliarla”, è esattamente l’esito che si vuole dimostrare, il medesimo esito di Holderlin.

Molti e gravissimi sono i mali che ha recati all’immaginativa il grande accrescimento della signoria dell’intelletto, dalla podestà dei quali la libera il poeta,  come e per quel tempo che può.

Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia dovette essere agli antichi  oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva,  e parlare il linguaggio della natura, è necessario lo studio lungo e profondo dei poeti antichi.

Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre  necessarissima opera del poeta,  ma rimovendo gli oggetti che la occultano,  e scoprendola, e diseppellendo, e spastando  e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che assume di ritrarre.

A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diklettisoprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? O da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non parte a parte, né da principio; (…) non senza il sussidio di coloro che, vedendo tutto il di la natura scopertamente,  e udendola parlare,  non ebbero, per essere poeti, bisogno di altro sussidio.

Ma noi cogli orecchi così pieni di altre favelle, adombrate invlluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali,  in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in algtri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto il giorno cose non naturali,  come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi,  ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo qyelle parti della naturas che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini,  ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre,  e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura?

Parrebbe che per L. per fare poesia si debba imitare la natura, e per riscoprire cos’è la natura si debbano studiare i poeti antichi, che la natura non l’imitavano ma la cantavano. O meglio sono stati i primi a imitarla inventando la poesia.

Pare anche tuttavia che l’imitazione della natura per L. significhi parlare di cose naturali, descrivere la natura nella bellezza dei suoi aspetti. E non, come faceva Holderlin, ricercarne l’essenza e riprodurre le sue regole e logiche fondamentali (l’alternarsi e il divenire).

22.1.21
La mia felicità dipende dal fatto che per me l’infanzia non è mai finita. Non si è esaurito cioè quello stato d’animo per cui tutto ciò che è non-conosciuto è misterioso, e perciò affascinante; e che fa si che  l’attività di indagarlo sia una necessità  interiore, una spinta che nasce dall’interno, che che mi porta a cercare di conoscere quello che non conosco, che in quanto tale è affascinanbte e misterioso.

29.1.21
Leopardi o dell’apparenza.
La verità estrema cui giunse Nietzsche, che l’unica cosa che conta è l’apparenza, che l’unica metafisica possibile è una metafisica dell’apparenza,  dunque falsa ma irrinunciabile, Leopardi l’aveva già trovata prima del 1830 in una serie di scritti e soprattutto nel Discorso.

30.1.21
Metafisica dell’apparenza non significa che è reale ciò che appare,  ma che solo ciò che appare ha senso.
Questo è un approdo possibile per la nave della ricerca che sempre  solca l’oceano della mia ignoranza.
Credo che Leopardi sia stato il primo a intuire l’importanza dell’apparenza,  e cioè che non era possibile tornare a uno stato di natura (Rousseau), e che la stravaganze romantiche tali rimanevano ad una analisi rigorosa. Perché, semplicemente, la realtà, come l’abbiamo svelata con la ragione – quindi col nostro modo lineare di pensiero,  efficace ma riduttivo – non ha senso! L’unico senso possibile è nei significati che noi conferiamo alla realtà e dunque nelle apparenze. Questo con 50 anni di anticipo su Nietzsche.
Leopardi è stato il primo Moderno della nostra età (l’età industriale); quello che per primo ha illuminato gli ambiti oscuri della ragione per scoprire e dire  al mondo che nulla esiste in quei luoghi. Da qui la necessità di dare sostanza a ciò che non ne ha,  cioè a quello che appare. Perché non siamo capaci di vivere senza senso. Abbiamo necessità di costruire una cornice di senso (Nietzsche) anche se sappiamo che è falsa.

31.01.21
La critica di Rousseau all’uomo artificiale è etica:
da Abbagnano:  “Tutto è bene, egli dice al principio dell’Emilio, quando esce dalla mani dell’Autore delle cose; tutto degenera fra le mani dell’uomo. Di questa degenerazione, R. fa un’analisi amara e spietata, che richiama quella di Pascal. I beni che l’umanità crede di aver acquistati, i tesori del  sapere, dell’arte, della vita raffinata non hanno contribuito alla felicità e alla virtù dell’uomo, ma lo hanno allontanato dalla sua origine ed estraniato dalla sua natura. Le scienze e le arti devono la loro nascita ai nostri vizi e hanno contribuito a rinforzarli. “L’astronomia è nata dalla superstizione; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia; la fisica da una vana curiosità; tutte, e la morale stessa,  dall’orgoglio umano (Discours sur les sciences)”.  Esse hanno inoltre contribuito a stabilire l’ineguaglianza tra gli uomini, ineguaglianza da cui nascono tutti i mali sociali. (…)

Tuttavia questa situazione non è, come riteneva Pascal, costitutiva di lui né dovuta al peccato originale. “La perfettibilità, le virtù sociali,  le altre facoltà che l’uomo naturale aveva ricevuto in potenza non si sarebbero sviluppate di per se stesse, ma avevano bisogno per ciò del concorso fortuito di più cause estranee che potevano non nascere mai  e senza le quali l’uomo sarebbe rimasto eternamente nella sua condizione primitiva”

Sono state dunque cause estranee ed accidentali,  “che hanno perfezionato la ragione umana deteriorando la specie, facendo l’uomo cattivo col farlo socievole,  e conducendo infine l’uomo e il mondo al punto in cui li vediamo” (Discours sur l’inégalité).

E’ evidente che l’uomo può risalire dallo stato in cui si trova verso lo stato originario: di fatti la decadenza  è dovuta a cause accidentali ed estranee sulle quali la volontà umana può agire. Perciò R. intende il progresso come un ritorno alle origini, cioè alla natura. Ma egli non intende questa condizione come uno stato di fatto. “Essa è uno stato che non esiste più, che forse nom è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, ma di cui è necessario tuttavia aver nozioni giuste per ben giudicare del niostro stato presente”.

Lo stato di natura è dunque soltanto una norma di giudizio, un criterio direttivo per sottrarre l’uomo al disordine e all’ingiustizia della sua condizione presente o riportarlo all’ordine e alla giustizia che devono essergli propri. Lo stato naturale non è, ma deve essere, non nel senso che l’uomo vi sia infallibilmente diretto, ma solo nel senso che ha la possibilità e l’obbligo di tendere ad esso.

31.1.21
Rousseau, Prima passeggiata.
Son dunque solo sulla terra, senza fratelli, né parenti, né amici né altra compagnia che me stesso. L’umo più socievole e il più disposto ad amare  i suoi simili è stato proscritto per unanime consenso. Nella raffinatezza del loro odio hanno cercato quale poteva essere il tormento più crudele per la mia anima sensibile,  e hanno violentemente infranto tutti i legami che mi tenevano avvinto ad essi.
Avrei amato gli uomini loro malgrado; non hanno potuto sottrarsi al mio amore se non cessando d’esser uomini. Sono dunque estranei per me, sconosciuti, nulli, e questo perché l’hanno voluto.

13.2.21
Pensiero poetante 1
L’imitazione della natura, che è per Leopardi nel 1818 il senso dell’arte in genere e della poesia in particolare, non viene esplicitata ancora nella sua pratica tecnica.
Cos’è l’imitazione della natura? Spesso sembra che basti descrivere con parole appropriate la sua bellezza. Rimanendo così sempre sul piano formale.  Delle indicazioni più precise Leopardi ce le dà quando dice che l’imitazione della natura,  e quindi la poesia, deve servire a recuperare per l’uomo il “pensiero primitivo”, cioè quella forma (capacità) di pensiero simbolico che ci consentiva di essere più in sintonia con la complessità della realtà, cioè con la natura,  e che la ragione, o meglio l’imbarbarimento causato dall’uso , che diventa necessariamente “signoria”,  della ragione ha causato. A causa del quale non riusciamo più a sentire ma vediamo soltanto (con gli occhi della mente, che sono gli unici occhi che esistono).
Ma l’indicazione più importante ci viene da questa attenzione per la parola, cioè per il suo suono, che corrisponde all’attenzione di Holderlin per la musicalità del verso, da ottenere attraverso un movimento in divenire, cioè “in mettere” e “in levare”, che imiti il divenire della natura, e che non è che il tentativo di fare musica con le parole. Cioè, a ben vedere, tutta la vicenda poetica dell’umanità non è che il tentativo di imitare la musica con le parole, e dunque con il pensiero. E dunque imitare la natura nel senso di imitare il processo con il quale la vita si sviluppa, e cioè attraverso una molteplicità di connessioni armoniche, considerando in questo modo il pensiero non più una concatenazione di parole, ma una relazione di connessioni armoniche. Pensando in versi, cioè facendo poesia, non pensiamo pù con le parole, o meglio pensiamo con parole che il verso, cioè la musica, ha trasformato in qualcosa di diverso, in qualcosa di più. Pensiamo per connessioni armoniche.
Dunque è la musica il nostro fine e il nostro limite. E la poesia, che è l’unica arte immateriale, oltre alla musica stessa, è quindi la forma eletta di pensiero, l’unica in grado di riportarci  dove eravamo stati.
(rev 1.5.22)

14.2.21
Ripresa dell’onda. Prima individuazione del principio di differenziazione)
31.12.20

L’onda in sé non esiste.  Esiste solo il segnale di movimento che passa da un elemento a quello adiacente, che, in conseguenza di ciò, si muove.
I singoli movimenti cadenzati dalla successione dei contatti producono una direzione del movimento che viene percepita come onda. L’onda dunque è solo l’immagine di una successione di variazioni di stato di singoli elementi posti uno nella sfera d’influenza dell’altro. L’immagine naturalmente è percepibile solo da un osservatore esterno  e non dai singoli elementi interessati dalla variazione di stato. L’onda cioè non esiste nel piano dimensionale in cui si materializza, ma solo su un piano dimensionale differente, quello dal quale può essere osservata.)

14.2.21
L’onda presuppone un tempo di percorrenza necessario a che l’impulso si trasferisca dalla fonte originaria al più vicino recettore; un tempo di reazione di questo rispetto all’impulso ricevuto, che è dunque un tempo di mutazione e adattamento, necessario per rilasciare a sua volta unimpulso che sarà diretta conseguenza del cambiamento di stato causato dall’impulso ricevuto.
Se tuttavia l’impulso viaggiasse alla velocità della luce,  essendo per esempio costituito da un segnale luminoso, che viene recepito nello stesso istante da tutti gli elementi recettori presenti nello stesso piano dimensionale, l’onda non si formerebbe, essendo  il movimento di reazione unico, uniforme e contemporaneo per tutti i recettori.
Dunque non esisterebbe più l’onda, cioè la direzione e il tempo del contatto tra un elemento e l’altro, venendo tutti gli elementi informati nello stesso momento.
Non esisterebbe più tale tempo della  trasmissione dell’impulso, con tutte le possibili implicite interazioni e le relative minime variazioni e differenze ad esso conseguenti, in virtù delle quali la natura stessa dell’impuslo originario cambia man mano che passa da un elemento all’altro, non esisteranno più neanche il tempo e lo spazio, che altro non è se non la camera di espansione del tempo,  cioè della vita; non esisterebbe più, ciioè, la possibilità di una conoscenza soggettiva della natura dell’impulso, possibile solo grazie al tempo necessario per la trasmissione dello stesso e della conseguente elaborazione comportamentale (risposta necessaria).
Dunque la soggettività è connessa indissolubilmente con un tempo necessario per la trasmissione del dato, cioè con una modalità precisa di comunicazione delle informazioni. Solo comunicando l’informazione in un certo modo posso consentire che essa venga interpretata.
Un impulso comunicato e percepibile all’unisono a tutti i recettori non istituisce il tempo del contatto tra un recettore e l’altro, e dunque il tempo dell’interpretazione, ma innesca soltanto una risposta condizionata, un rapporto causa-effetto che non comptempla null’altro che l’esaurirsi in sé dell’evento. E’ solo l’impulso che viene trasmesso attraverso la materia che produce tempo (vita) al contyrario di quello trasmesso attraverso il vuoto, dall’esterno, che produce effetto senza tempo, cioè senza vita.
Posto dunque un piano dimensionale

18.2.21

Massimo Cacciari, Filosofia e tragedia. Sulle tracce di Carlo Diano

Introduzione a  Carlo Diano,  “Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici”,  Bollati Boringhieri 2018

1.  Quale idea di storia della filosofia emerge da queste pagine? “La storia della filosofia non può più essere fatta come storia della pura e nuda filosofia. Chi dal V secolo d’Atene tolga, a mo’ d’esempio, Un Eschilo, un Pericle, un Euripide, un Fidia, fa come chi da un libro tolga tutti i termini concreti per lasciarvi solo gli astratti (…) Quando si credeva di poter dedurre tutto da un unico principio, si poteva anche credere che a tutto bastasse la filosofia; oggi questo non è più possibile”(1).  Lo specialismo filologico è necessario, ma non può finire col dissolvere la visione d’insieme di un epoca o di una civiltà.  Scienziato non è colui che si costringe nell’osservazione del particolare, ma chi nel particolare stesso sa cogliere i legami col tutto, chi lo “universalizza”. E ciò è possibile soltanto elaborando categorie fenomenologiche, e non deducendo da categorie ontologiche l’interpretazione delle diverse manifestazioni dell’esserci.

Qui è possibile cogliere tutta la rilevanza del rapporto tra Diano e Sergio Bettini, e il senso della loro completa estraneità all’ambiente storico-filosofico padovano, e non solo, tra gli anni cinquanta e settanta (2).
Tali categorie sono, per Diano, la forma e l’evento (3).  Si cercherà qui di portarle alla luce attraverso quel confronto, quell’agon, che segna tutto il destino del pensiero occidentale: l’indissolubile dif/ferenza tra Eraclito e Parmenide.
Inoltrarsi per lo “stretto sentiero” dell’Oscuro sembra necessario per il pensiero contemporaneo. E  Diano (con Colli) è forse chi in Italia ne ha più drammaticamente avvertito l’esigenza (4).

Si tratta di comprendere, storicamente e fenomenologicamente, il tempo della krisis, l’Achsenzeit, in cui logos, il termine “fatale” dell’Occidente,  “diviene” logica, argomentazione discorsiva,  e in tale dimensione e in tale senso acquista “chiarezza”, staccandosi dalla forma dell’enigma. 

Per Diano, come per Heidegger (5),  è proprio la presunta originaria equivalenza tra logos e Logik a essere posta in discussione.  Il logos dell’Oscuro riguarda “qualcosa” su cui la logica risulterebbe “incompetente”.

(a: Logos è conoscenza oltre la logica.)

Perché si possa accedere alla sophia (affermare di sapere e non solo di essere esperti in questo o quello) occorre ascoltare, prestare attento ascolto, al logos, e acquisire perciò un logos uguale (homologein).

Il discorso (così Diano traduce), dunque, è e non è  di Eraclito; Eraclito l’ha ascoltato, ha concordato con esso  e ora è suo.
Ma è suo solo perché è comune, anzi, il  Comune, to Xinon. Il discorso di Eraclito è lo stesso logos che egli ha ascoltato-accolto come il logos comune – è comune non semplicemente perché proprio di ciascuno, ma perché è-sempre, mai tramonta, e non tramontando mai eternamente illumina, rivela (Diano, fr. 6; fr 104) (6).

(a: per conoscere le cose bisogna esserne parte, bisogna essere le cose che si devono conoscere.)


Il Comune implica il cum; il discorso stesso è in sé un “dire insieme”; esso si articola in proposizioni, che sono accordo di nomi e termini diversi. Ma la forma del Comune vale più delle sue singole parti; anzi, quaste non acquistano un senso compiuto e non divengono comprensibili se non nell’insieme della proposizione,  e così le diverse proporzioni se non nell’insieme del discorso.

Naturalmente gli uomini possono ignorare il discorso, non accedere al sophon.  Il loro sarà in questo caso un parlare per termini sconnessi, un discorrere privato, “idiota”, incapace di comunicare, poiché comunicare è possiblile soltanto nel presupposto dello Xynon. Essi usano le stesse parole e compiono le stesse esperienze del sophos , ma non sanno farne discorso,  non sanno pensarle come il Comune; operano e parlano come dormendo (Diano, fr. 12). Manca all’uomo nepios, infans,  la capacità di armonizzare i termini del suo dire e del suo fare; egli passa la vita come una città senza legge, o le cui leggi costituiscano una confusa molteplicità senza comune radice (Diano, fr. 71; fr: 8).
Ma non si taratta soltanto di un ordine logico delle proposizioni, non si tratta di fare igiene nel linguaggio.  Se il discorso deve valere come trama di termini, nomi, proposizioni, ciò accade perché esso è chiamato ad esprimere-rappresentare la Trama, l’Armonia, che è nomos, che è legge della physis (legge immanente ad essa, da nulla decretata),  quella legge cioè per cui gli elementi di physis occupano le loro “parti”, appaiono nel e attraverso il loro dif/ferire, e così sono cum, formano un insieme, e comunicano tra loro. Potremmo anche dire che come le leggi umane traggono alimento “da un’unica legge che è la legge divina”, così la trama degli umani discorsi deve trarre alimento da quella Armonia che il logos esprime-rappresenta, che accorda i molti in un cum, che fa dei molti uno.
Questo logos, dunque, che non è canto, che non è mito, bensì espressione del puro phronein, questo logos che è il detto di Eraclito, si impone come immagine del logos cosmico-divino, che abbraccia,  comprende in sé connettendole, ogni differenza e ogni dissomiglianza. E’ il  logos “pre-potente” rispetto a ogni analisi e a ogni distinzione. Logos – legein secondo il suo etimo vero,  come “ciò” che raccoglie, “ciò” che custodisce in sé insieme i distinti modi dell’apparire proprio nel loro distinguersi.  Logos che non divide e separa, ma che armonizza e connette.  Il discorso che lo esprime non mira perciò a fissare, stabilizzare la distinzione,  ma a “fare ritorno” dall’apparire del distinto allo Xinon originario, dall’ “evidenza” del molteplice al Logos che ne è comune radice. Per chi ode, vede e parla senza pensare quella prima evidenza è tutta la verità; per chi pensa, invece, essa è il thauma che apre la via alla ricerca di sé, e di sé come parte del Tutto.
E’ chiaro che qui per Diano – come per Heidegger – è in gioco un “contraccolpo” che investe la struttura del “discorso logico”, fondata sulla “decisione” di dividere i contrari, di opporre “concorde” a “discorde”. La logica si afferma come logica del giudizio, krisis,  “taglio” tra gli opposti e tale taglio si vuole come originario, Ur-Teil.  Il logos di Eraclito è segno, invece di una Armonia “non statica e speculare”, di un’Armonia che connette gli opposti proprio salvandoli in sé. Anzi, la singola voce diviene pienamente comprensibile soltanto grazie alla relazione che la dif/ferisce dalle altre.  E’ solo grazie alla potenza dell’Armonia che gli stessi distinti possono in sé apparire.  I molti sono tali, e non un mucchio indistinto di fantasmi, perché il logos li unifica.
Armozein è il fare di physis. L’intima trama delle cose che si esprime nel logos è physis. In che senso palintonos (come legge Diano) o palintropos (come legge Colli)? Perché, come nell’armonia manifesta che la lira produce, essa “da un estremo ritorna all’altro” (Diano fr.26)? O perché riavvolge in sé gli opposti in cui si manifesta proibendo loro di “stare”? Perché costantemente  ognuno di essi è chiamato a “dar luogo” all’altro e fare di nuovo ritorno, in perenne tensione? Le due letture mi sembrano perfettamente integrarsi. Physis è l’armonia dei distinti, ma insieme, a un tempo, il loro movimento. Nessun distinto è fermo nel suo essere tale.  Il vivente  diviene la sua morte.  Il giorno si fa notte.  Sempre è giorno-è- notte; sempre il giorno è giorno e la notte e notte,  ma mai giorno e notte sono pensabili come immobili contrapposizioni: essi suonano insieme perché sempre tra loro vi è alternanza,  e vi è alternanza perché divengono reciprocamente. La trama di physis, che è la sua stessa legge, non concede a nessun ente di sottrarsi a questo “gioco”. Armonia compone le distinzioni, per riaffermarle di nuovo e poi di nuovo scomporle. Movimento incessante, in cui lo stesso ritorna, eppure non è mai lo stesso; entriamo nello stesso fiume, ma non sono le stesse acque; siamo noi ad entrare di nuovo, ma non siamo gli stessi di prima; anche il sole è nuovo ogni giorno,  anche la sua potenza obbedisce alla legge, alla misura che detta Armonia.
Nel discorso figurano molti nomi, ma guai a fermarli nel giudizio che separa,  a “spazializzarli”,  in domini incomunicabili.  Gli opposti vanno “raccolti”  sub specie  dell’unità di physis, che si manifesta, appunto, come incessante tensione-conflitto, polemos, tra loro. E la connessione fondamentale è quella tra il sorgere e il tramontare, tra l’accendersi e lo spegnersi: concordia dei massimamente discordi, nella cui polarità abitano tutte le possibili forme di conflitto (come Diano traduce polemos mettendo in evidenza il cum immanente al movimento in cui gli opposti, proprio nel loro opporsi, assumono la propria figura). Ma perché allora physis “ama nascondersi” ? Perché il discorso che intede esprimerla fa segno a un’Armonia “più potente”? La trama di cui finora abbiamo parlato non è forse manifesta, saphes, alla mente del sophos?  E come potrà il sophos seguire la natura delle cose  kata physin, “dire il vero e operarlo” (Diano fr. 75) se la natura gli si nasconde?  Sappiamo che l’uomo nepios non è in grado di vederla,  ma neppure il discorso del sapiente è tale da risolvere in “discorsività logica” l’enigma.  Egli ha “visto”  il movimento che divide-connette  tutti gli elementi del cosmo, e questo ha espresso nel suo logos, e inoltre ha saputo polemos come conflitto –relazione,  e armonia come polemos. Ma il centro di questo movimento, il centro di questo cerchio dove inizio e fine sempre coincidono, il cerchio senza di cui niente è pensabile,  “dove” è? Egli vede tragicamente confliggere nomi e timai divini, e comprende l’indissolubilità degli opposti, proprio perché essi possano manifestarsi.  Ma la comune radice del loro apparire non ha nome né forma.  Il saggio vede il cum tra gli opposti, ma il cum stesso non ha altro nome che il dif/ferire degli opposti medesimi. La trama apparente è questa: la necessaria relazione tra gli opposti, che è conflitto-armonia. Ma il fondamento di tale trama, ciò che la rende possibile, ha il nascondimento come il suo proprio.
Tutto però si fa astratto, se non ricordiamo, a questo punto, con l’aiuto di Diano, la tragedia del V secolo. I nomi divini s’intrecciano confliggendo, e mai l’uomo potrà corrispondervi “pacificamente”. Lo voglia o no, egli prende parte al gioco, assume la sua parte e deve cercare di portarla “a fondo” senza presumere di “oltrepassarsi”, credendosi “tutto”, non riconoscendo l’opposto.  Tuttavia dalla sua gola erompe continuamente l’interrogazione: ma il Divino degli dei, la radice che nutre armonia-polemos, è puro Niente? Un fanatasma della mente? Oppure è, ma inconoscibile e perciò irraffigurabile?  L’armonia aphanes è certamente in relazione con quella phaneres, altrimenti non potrebbe essere detta migliore (Diano fr. 27); quindi, poiché quest’ultima è certamente conoscibile e viene espressa nel discorso di Eraclito,  aphanes non potrebbe essere tradotto con “inconoscibile”. Ma ciò che non appare è nascosto. Si tratta perciò di un nascosto che ha relazione col conoscibile, pur non essendo conoscibile alla stregua di ciò che appare. (ma perché aphanes non può significare semplicemente “ciò che è inconoscibile per noi?” e che ha rapporti col conoscibile semplicemente perché occupa il reale? Noi vediamo il sole, sappiamo che non gira attorno alla terra, sappiamo di cosa e composto, come esiste e come si è formato. Ma non sappiamo perché. Il perché per noi è inconoscibile?  E perché dovrebbero essere conoscibili cose che sono oltre la nostra portata? L’Universo che conosciamo ha una dimensione che non riusciamo nemmeno a immaginare. Perché dunque dovremmo poer conoscerne le leggi? Il perché del sola, come di qualunque altro ente, è l’armonia nascosta, che non può che essere più potente di quella manifesta, nella misura in cui quella manifesta è manifesta per noi, cioè per la nostra insignificvante dimensione. NDR)

Ciò che è nascosto sta nell’oscurità (o semplicemente non è percepibile, ndr); tuttavia questa oscurità non può significare assenza di luce, poiché anche l’oscuro deve essere pensato in relazione con l’altro da se , e in questo caso è detto Kreisson, il “migliore”.  (passaggio non risolto).
La physis, in “ciò” che fonda e produce l’armonia-polemos, manifesta, manda segni – o piuttosto, l’armonia-polemos che coinvolge tutti gli enti e che la sophia riconosce è il segno dell’armonia aphanes,  e in questo essere-segno il sapiente anche la conosce. Il sapiente sa che la natura è armonia visibile-conoscibile,  e insieme segno dell’invisibile; egli non confonde in uno la distinzione; non pecca di hybris pensando che la propria umana saggezza possa disvelare il proprio della natura. Ma può far-segno a “ciò” di cui la natura, nella sua manifesta armonia, è segno.  Il sapiente non nasconde il nascondimento,  né discorsivamente può conoscerlo, tuttavia lo ri-vela, lo mostra appunto come tale, proprio nel farne-segno, semainen.
Allora nella sua trama il discorso giunge alla massima tensione: tra conoscenza chiara, saphes, e oscurità – così come la trama dell’apparire trova la propria akme nel conflitto tra sorgere e tramontare.  Il logos dice alethea (Diano, fr. 75) non perché divide-separa,  ma perché comprende nella loro armonia, che è polemos, tutti gli enti, e perché non dimentica in questa stessa connessione  la relazione che essi sempre hanno con Lethe.  Perché Aletheia non significa separare rivelazione e nascondimento,  ma far segno della loro “più potente” armonia. Ma il Dio? Il  Dio non può che guardare alle forme del polemos come tutte buone e giuste,  (Diano fr. 69). Il Dio non può giudicare “logicamente”.  Può il mortale  concordare con la visione del Dio? Potrebbe mai la sua mente e il suo ethos, quell’ethos che non sembra possedere gnome, agire e dire sub specie aeternitatis?   Anche il più sapiente avrà sembianza di scimmia al confronto del Dio” (Diano fr. 72) Timbro tragico – ma, come nella tragedia,  nient’affatto “pessimistico”; l’uomo può accedere al sophon, ogni uomo, e divenuto sophos può comprendere la trama di physis, comprendere di esserne parte e nel suo grande gioco custodirsi immune da hybris.  E può, ancora, slanciarsi oltre ascoltando i segni di physis e facendo segno, a sua volta, dell’armonia suprema e inconoscibile che nella parola stessa di aletheia si manifesta e si cela, dum patet latet.

2.
Ma l’interpretazione di Eraclito come filosofia tragica si fonda in Diano su quella che egli avanza dal “detto” anassimandreo. E’ questo uno degli snodi fondamentali di Il pensiero greco. L’essere si manifesta in determinazioni particolari che il logos esprime attraverso parole e proposizioni.  Essi stanno tutti in connessione.  Ma la connessione fondamentale è quella tra la loro totalità e “ciò” che li abbraccia e governa:  arche infinita e onni-comprendente, apeiron periechion.  Ogni connessione, ogni  armonia manifesta avviene nel suo ambito, non può sfuggire dalla vissuta esperienza che dell’apeiron ha il greco dell’età tragica. Le distinte armonie che il logos esprime nella sua discorsività dialettica sono finite,  ma ciascuna, allorché si fa consapevole, allorché non cade nella hybris di voler tutto manifestare-chiarire, di voler negare l’oscuro o il nascosto, guarda all’infinito-apeiron, al cerchio invisibile che tutto in sé abbraccia e tutto governa, da cui nessun evento può uscire e da cui provengono tutti i mondi visibili.  L’apeiron è “periferia” in-finita, ma che si fa “presente” nell’evento, poiché l’hic t nunc  dell’evento  si “sporge” in sé e da sé, all’ubique et semper. E qui ha sede Dio.
Questa idea dell’apeiron non poteva presentarsi che a uno storico-filologo che avesse studiato i frammenti dell’antica sapienza non solo con gli occhi della tragedia, ma dai gradini di un teatro. Da lì osservo l’evento, il drama, e in uno contemplo.  Lo spettatore greco è theoros: esamina l’agire decisivo, il dran, che sulla scena si rappresenta, e lo senste suo,  comune a sé, ma a un tempo lo vede proiettato sullo sfondo divino (theos-orao) dell’apeiro-periechon.  Dalla sommità di un teatro l’apeiron avvolgente il drama diviene autetica esperienza vissuta, è presenza reale in ogni istante dell’azione, e tuttavia mai afferrabile e denotabile. Se ne prova la  imponente potenza, l’arché, e tanto più quanto più avvertiamo l’impossibilità di “spazializzarla” nelle forme del nostro logos. La comprendiamo solo come “ciò” da cui siamo compresi. Ma il drama, che rappresenta il polemos del nostro esistere, perderebbe ogni senso se non facesse segno, in ogni sua fibra,  a tale suprema connessione. Gli eventi si disperderebbero in mere, astratte casualità se non si esprimessero in comune come da apeiron sorgenti e in apeiron tramontanti, nella sua arche compresi. La tyche tragica assume, allora, il suo pieno significato: non  puro caso, che in sé non potrebbe apparire se non irrelato e indecifrabile,  ma il divino nell’evento,  o l’even to colto nella sua relazione omni-abbracciante. Il divino proibisce all’ente di stare, si manifesta come connessione, armonia, polemos, che il logos è chiamato faticosamente a “raccogliere”. Si manifesta in eventi –  e cioè avviene, si dà. Ma evento per eccellenza è il sorgere e il tramontare, , l’alternanza instancabile del loro movimento. Questo è il respiro della tragedi cui nessun essere vivente può sottrarsi: per ciascuno è giorno e notte, estate e inverno. A ciascuno capita di ek-sistere e di “pagarne il fio”, ciascuno lo deve, secondo necessità.

3. Sono convinto  che l’idea di evento elaborata da Diano, in connessione alla sua interpretazione del detto di anassimando, renda possibile una comprensione della tragedia e della tyche tragica di straordinaria profondità e ricchezza, sollecitando, come abbiamo accennato, a contributi da parte di altre discipline (…). Ma qui dobbiamo limitarci a mostrare come, dalla prospettiva cui siamo pervenuti, sia possibile impostare il confronto decisivo, che anche Diano valuta tale,  tra Eraclito e Parmenide. Non c’è dubbio che, per Diano, corra tra i due pensieri una differenza radicale.  Logos pistos,  il logos degno di essere creduto, è per Eraclito quello che afferma la verità del dif/ferire,  la cui unità risulta dall’armonizzare gli opposti, che opposti sono, e proprio per il loro opporsi formano un’unità.   Anche Parmenide chiama stupidi e ciechi coloro che non comprendono il suo discorso,  ma il suo discorso non vuole corrispondere alla “discorde concordia”  della physis eraclitea, all’armonia palintonos-palintropos, ma all’unica via che rende possibile il conoscere, “la quale dice che è e non può essere che non sia”.  E “dovunque è il noein ivi è l’essere”; dove qualcosa si pensa ( e “per pensiero si intenda il puro vedere del nous”),  lì necessariamente si pensa che è.  Di quest’essere sarà impossibile dire che era o sarà,  “perché nell’ora esso è insieme tutto, uno e continuo” (assunto per decreto), indivisibile e immobile. “Necessità potente lo tiene nelle catene del limite (peiratos en desmoisin)” (Diano Fr. 8).  L’essere non può esser pensato ateleuton  (senza fine), perché se così lo pensassimo penseremmo oltre l’essere “qualcosa” che non è (nel senso che l’essere è in quanto dato finito, e pensare che sia senza fine significa pensare qualcosa che non esiste)  – ma pensare che  il non essere è, è appunto la via che rende impossibile la conoscenza. E se pensiamo “qualcosa” che limita l’essere , questo “qualcosa”  non potrebbe che essere di nuovo,  e dovremmo dunque dire che l’essere si limita solo perché specchia se stesso. La forma perfetta è perciò quella che si riferisce a sé, che di nulla abbisogna per affermare se stessa,  perfettamente irrelata;  l’opposto della visione eraclitea, dove ogni essere in tanto esiste in quanto sta in connessione con l’altro da sé.  L’essere, dunque è tetelesmenon pantothen, da ogni parte finito, circoscritto, in nessun punto maggiore o minore,  ovunque  hison, uguale a se stesso, e con+ ugual “peso”  en peirasi kyrei, s’imbatte nei propri confini e in essi sta. Per esso non saranno che flatus vocis  tutte le cose che i mortali hanno posto persuasi che fossero alethea , come il nascere e il perire,  il mutar luogo, il “mutar pelle”. (Il senso è che sono cose senza importanza, aspetti variabili rispetto alla compiutezza dell’essere, cioè della forma della vita, dell’impulso vitale sempre uguale a se stesso. In questo senso credo vada inteso l’essere parmenideo che “sempre è e non può che essere”. Cioè non come il singolo essere, che nasce e muore, ma come ciò da cui sempre scaturisce la vita, l’impulso vitale uguale sempre a se stesso (al di là della differenza delle molteplici manifestazioni).
Contrasto logico con Eraclito? Contrasto di esperienze vissute, prima ancora, conflitto tra intuizioni fondamentali della realtà. E di nuovo Diano  ci costringe a guardar oltre l’astrattezza dei termini e i sedentari specialismi .
L’essere di Parmenide è l’essere come forma,  e la forma “come unità d’essenza ed esistenza” (Diano p 64). I tre termini si chiudono in un cerchio infrangibile.  Il noein è pensiero dell’essere, ed è perché l’essere è.  Se pensassimo pensiero ed essere come divisi spezzeremmo il cerchio, e tra pensiero ed essere si aprirebbe un vuoto, che non è. Pensiero ed essere sono tauton (la stessa cosa), e rimangono assolutaente fermi nella loro identità. Qui assume “tremendo” rigore logico l’esperienza greca della forma, potremmo anche dire del Kalon, come dell’essere che sta, perfettamente compiuto,  integro, immutabile, che lo sguardo del noein abbraccia nella sua compiutezza. Qui prende voce con insuperata chiarezza il thauma del fare capace di perficere, del fare capace di esprimersi in forme che stanno, perfettamente “contenute” nei  propri limiti. E’ l’idea classica del tempio, della statuaria e della pittura, icone “di un cosmo che è finito”.
Parmenide porta al limite la visione della forma, ma lo può solo “al prezzo di degradare l’evento ad accidente”. L’evento, nella ricostruzione che Diano compie del pensiero di Eraclito, è dimensione della realtà in connessione, come si è visto, all’apeiron periechon, nient’affatto perciò accidentale. E non si dicono alethea se non si dice anche l’hic et nunc dell’evento, l’ek-sistere nella sua puntualità, e se la realtà dell’evento non si connette in un insieme, e se l’insieme non si proietta sullo sfondo-non-fondo del periechon. Questa categoria dell’evento non può che trovar luogo in Parmenide che tra i “nomi” della “gente senza giudizio”, (incapace di “krisis, Ur-teil, appunto!), tra coloro che si muovono, che “ondeggiano” tra essere e non essere. E tra tali nomi vi sarà anche quello di apeiron. Diano filologo parte  dal senso originario del noein: comprendo ciò che afferro con lo sguardo. Ettore, nel momento stesso che enoesen (…) ophthalmoisin (Il. XV, 421), nel momento stesso che “capì con gli occhi” che Caletore era caduto ecc. Non si dà conoscenza se non di ciò di cui si ha l’idea: Achille vede-e-riconosce Macaone (idon enoese; Il., XV 599). Fatale primato della visione;  la mente vale in quanto dispone di occhi più potenti di quelli del corpo,  capaci di vedere l’eidos dell’ente, cioè la sua forma. Ma quale idea sarà mai possibile avere di ciò che non ha confini? Come comprehendere l’in-finito senza forma? Questa sembra essere (appare alla mente-che-vede) la via che rende impossibile ogni conoscenza,  ogni theoria,   la via che afferma che il non essere è.  Parmenide nega, insomma, che l’apeiron sia noema, poiché identifica “la

pensabilità (essenza) e l’essere (esistenza) col peras, e cioè con la forma”. Questa la chiave di volta del suo pensiero – e della sua differenza da Eraclito. Alla sophia che dice (logos) l’unità degli opposti si oppone la specularità tautologica   dell’è parmenideo,  per cui la forma è se stessa e non è altro da sé, e il noein è identico ad essa.  Alla sophia che fa segno alla connessione fondamentale come quella tra peras e apeiron si oppone l’affermazione del logos in quanto visione compiuta della forma,  del conoscere come conoscere l’è nella sua Ora senza tempo, immobile nei suoi confini.  Conoscenza volta a superare la concordia discors della visione tragica, a bandire il threnos  (canto di lutto per una persona amata) tragico della Musa della filosofia?
Parrebbe così, ma l’interpretazione di Diano si f a subito  assai più complessa – ed egli “lavora” la Krisis che si apre per il pensiero occidentale tra Eraclito e Parmenide (e che forse lo “destina” tutto fino a oggi) secondo quella prospettiva affatto originale che gli deriva dalla fenomenologia di forma ed evento. La Dea espone a Parmenide anche le opinioni dei mortali. Che significa? Metterli in guardia nei confronti di ciò che è semplicemente “falso”? Impossibile, poiché l’ordine del cosmo che ella insegna è “in tutto eoikota”,  plausibile.  La doxa, cioè, non può essere confusa col pistos logos (discorso credibile) che è noema  (conoscenza) di verità, ma va riferita all’apparire degli enti in quanto apparire. Alla doxa corrispondono ta dokounta – ma è necessario veramente che gli enti appaiano nel modo in cui appaiono. E’ necessario che l’apparire sia; è necessario che gli enti siano nella forma dell’apparire stesso. Non è leggibile che così il Fr. 1, 31-32 insieme al Fr. 8. Ma allora è la doxa a farci apprendere l’ordine del mondo; il discorso intorno alla verità “finisce” e “da questo punto il mortale deve  apprendere le opinioni verosimili riguardanti i fenomeni. Non che manchi il passaggio, il metaxy, tra le due dimensioni: tutti gli essere che la doxa nominerà. sono; è la notte, è il giorno, e in questo loro essere consiste la loro unità, senza alcun divenire dell’uno nell’altro e senza alcuna mescolanza.  Domina anche qui il primato della forma.  E il cosmo degli enti dokonta, apprendibile kata doxan (Fr. 9) è finito, compiuto,  a immagine dell’Essere della prima via.  Il Logos assolutamente veritiero  vede come Dike non abbia concesso all’essere né il nascere né il perire; la doxa forma, invece, lìinsieme dei nomi attraverso i quali l’uomo indica il crescere e il finire delle cose.  Ciò è parvernza rispetto all’immobilità e all’immutabilità dell’Essere,  ma parvenza necessaria,  che non può venir meno. Ciò che la Dea insegna è la krisis (separazione) tra le due dimensioni: occorre de-ciderle. L’errore non sta nel seguire anche la seconda, ma nel confonderla con la prima. Bisogna imparare anche l’ordine dei nomi se vogliamo districarci nell’apparire degli enti,  ma guai a credere che a un “nome” corrisponda l’Essere nella sua identità al noein, e guai a crederre che l’apparire kata doxan veramente sia.
E qui Diano individua quella che potremmo chiamare la forma parmenidea della filosofia all’epoca della tragedia. Un ascolto della “tremenda” parola di Parmenide che, di nuovo, sarebbe impossibile a chi fosse storico soltanto della filosofia. Se valesse l’aut aut secco tra aletheia e doxa non vi sarebbe tragedia. Ma questo aut-aut regge soltanto nel senso che le due vie non sono insieme percorribili. Ma entrambe devono esserlo. (dunque sono compresenti – sono due dimensioni parallele. Cioè ogni ente ha una natura bivalente, come il fotone, che è insieme onda e particelle. Così gli enti, le cose, sono insieme forme ed evento, senza conciliazione dialettica, ma con evidente tragedia).
 E allora l’aut-aut è insieme un et-et. Ma et-et tra dimensioni inconciliabili, non dialettizabili, e perciò tragico.  Non vi sarebbe tragedia se si trattasse soltanto di vedere-essere, di pensare .l’essente secondo l’identità di essenza ed esistenza, o se si trattasse, all’opposto, semplicemente di “divenir del mondo esperto/ E de li vizi umani e del valore”. Se conoscere fosse soltanto esperire non sorgerebbe allcuna difficoltà;  il pensiero potrebbe “addomesticarsi” facilmente “nell’adeguare la rappresentazione alla cosa”.  Ma l’istanza del conscere, la volontà di conoscere che anima Parmenide è incomparabilmente più radicale, e consiste nella teoria della forma della cosa,  nel vedere la cosa per ciò che essa essenzialmente è, nell’adeguare, per così dire, la cosa a se stessa.  E tuttavia, per Diano, tale suprema forma di conoscenza non sa “salvare” i fenomeni. Per questo resta necessaria la doxa. L’opinione verosimile-plausibile-probabile, incapace di esprimere un giudizio incontrovertibilmente certo, è certamente necessaria.

Il logos dei mortali anela alla certezza,  ma allo stare dell’episteme perviene soltanto in un dominio che “non spiega il mondo”, e non spiegandolo neppure potrà mai eliminare la doxa che, in qualche modo lo nomina. Del mondo dei fatti, delle cose-pragmata vi è solo doxa; il mondo dell’apparire è spiegabile e apprendibile solo secondo la sua oscillante, sempre inquieta misura; la scienza dell’Essere, dell’unità dell’essente, non può esprimerlo che per via negativa, come, appunto, l’impensabile-inesprimibile. “Antinomia tragica, insanabile”, la chiama Diano; di piu: antinomia “fino ad oggi non sanata, ed oggi più tragica che mai”. Fino ad oggi? E’ chiaro: nella mente di Diano la formulazione di tale antinomia ricordava prepotentemente quella tra persuasione e  e retorica in Michelstaetder, la krisis delle scienze europee di Husserl (attraverso la mediazione di Paci, al centro della ricerca dell’amico carissimo Bettini) – e infine, forse, il “detto” dell’altro genio della filosofia del Novecento: nel mondo “tutto avviene come avviene;  non si dà in esso alcun valore – e se se ne desse uno, non avrebbe alcun valore”. Ciò che “vale” è l’incontrovertibile, ma esso si stacca dai fenomeni e si insedia “nel puro pensiero”.  Tuttavia il puro pensiero sa,  poiché è sempre il puro pensiero di questi mortali, che per affrontare gli eventi della vita è necessario affidarsi alla doxa,  “migliore”. Se non sapesse anche questo, cesserebbe ogni tensione tragica. La tragedia sta nel fatto che come la doxa fallisce nel cercare di essere scienza dei fatti,  così specularmente fallisce anche il vero sapere o il sapere del “solido cuore della ben rotonda verità” nello schematizzarsi (e il termine kantiano bnon è affatto casuale- di nuovo, è Diano chequi ricorda l’interpretazione che Paci forniva dello schematismo della Critica della ragion pura come del dramma irrisolto dell’intera filosofia contemporanea) al mondo dei fatti e della vita. Il “dialogo” tra gli inconciliabili, sapere del veramente certo e doxa,  è tragico perché ciascuno di essi “cerca”  l’altro  “cerca” quella sintesi che sempre manca. Se “mancasse” Parmenide, la sapienza apparentemente più estranea alla tragedia, non si darebbe alcuna tragedia,  ma solo la commedia del fra-intendersi tra le doxai. Scena tragica esige reale antinomia – e cioè inscindibile polemos tra aut-aut ed et-et.

4. La Dea di Parmenide dice in verità l’antinomia;  chiama il suo iniziato alla pura theoria e poi lo risospinge a considerare le doxai; libera il “prigioniero” dalla sua moira kake per poi ricondurre lo sguardo a quel mondo delle opinioni dei mortali in cui non regnano certo né Themis né Dike, in cui non può trovarsi valore che veramente persuada. Se questo è il timbro tragico del discorso parmenideo, esso allora non suonerà affatto astrattamente separato da quello di Eraclito. E’ proprio nella loro relazione che è polemos, nel loro dif/ferire apparirà il senso di quell’aut-aut che è insieme et-et.
Come il primo è lungi dal potersi risolvere in un aletheuein che escluda quella “aoristicità” che è propria dell’evento (importantissima, a questo proposito la nota filologica di Diano), così il secondo non appare certo  “nemico della forma” in quanto affermazione empirica del “tutto scorre”,  del primato del divenire. Anche il Logos di Eraclito è sempre,  e se i mortali lo ascolteranno sapranno, come si è visto, la legge infrangibile della Connessione, della Trama, dell’Armonia che fa degli opposti un insieme.  Il logos di Eraclito sa che “tutto è uno”. Eraclito è persuaso quanto Parmenide. Entrambi i discorsi sono altrettanto lontani dal dis-correre; entrambi oppongono al tempo del dis-correre l’Ora della certezza. Le trame che in Eraclito collegano gli enti  e li raccolgono nel logos sono, agli occhi di Parmenide, doxa; ma la Dea non le ignora, ne parla,  una volta “esaurito” l’insegnamento sulla Verità. Nessuna armonia tra i “nomi” che i mortali usano per distinguere l’apparire li “salva” dall’essere semplici “nomi”,  e “salva” l’apparire dall’essere tale.
   Eraclito non è certo historia,  e combatte la polimathia, il dissiparsi tra i molti saperi e le molte esperienze, esattamente come Parmenide.  Ma la sua sophia cerca ciò che per Parmenide è “proibito”: l’armonia di forma e di evento,  la connessione ben salda tra gli opposti, che sono realmente tali. Parmenide non esclude affatto la possibilità di questo armozein; ciò che afferma è che esso mai sarà ben saldo, che produrrà sempre connessioni in divenire,  indefinibili, im-perfette. Potremmo anche dire che la Dea di Parmeide è perfettamente disperata intorno al senso della ricerca eraclitea. Ma come un eroe tragico dispera di poter giungere a sapere la tyche! Il Dio di Eraclito fa segno, semainein, a una unità che la Dea di Parmenide non potrebbe mai affermare nell’inviolabile logica del suo vedere-e-dire.  Il primo accenna e fa segno – e non potrebbe essere diversamente, poiché, come si è visto, dalle molte armonie che lo sguardo raccoglie è necessario “salire” all’Armonia non manifesta -, la seconda disvela. E tuttavia il primo è sempre “ai ferri corti”  con il puro evento e ne cerca la forma nell’armonia che tutti li connette,  la seconda non può non confessare che la propria luce, ben ferma nei chiusi confini della  propria tautologicità, non “sa” dell’apparire altro se non ciò di cui la doxa di-scorre.  Eraclito si oppone al “divieto” di Parmenide, ma non può controbbattervi sul piano della  dimostrazione logica; Parmenide coglie il “cuore” della  Verità,  ma questa Verità non spiega il mondo.  Non può così che continuare la ricerca di Eraclito, da segno a segno, interminabile, della quale non puoi trovare i confini, per quante strade tu percorra, anche se tutte le percorressi. Tale è l’anima di colui che ricerca. E tale, senza fondo, sarà il suo logos.

   5.   Dalla intuizione della “contrarietà irriducibile e reale” di forma ed evento, che abbiamo cercato di rappresentare nella tensione tragica tra Eraclito e Parmenide, Diano muove per  la sua interpretazione del mondo greco.  Il pensiero greco andrà perciò letto in uno con quel capolavoro della saggistica filosofica che è Forma ed Evento. La filosofia di Diano, eraclitea in questo,  è tutta ispirata alla ricerca dell’unificazione dei due principi, unificazione, appunto, che deve nascere dalla loro stessa tensione, capace di custodirne la vivente polarità, nient’affatto sintesi statica, conciliante e risolutiva.
   L’Evento è in-dividuo; come può, alloraessere epistemicamente compreso? Dall’essenza, in cui Socrate ha la sua forma, possiamo concludere necessariamente che Socrate è mortale. Ma quando, dove, come morirà? Che ne sappiamo della morte di Socrate? Pure, ognuno di noi è innanzi tutto interessato alla sua morte. Il sillogismo, che trae la sua necessità dalla forma”, non spiega l’accadere.  Ma i nostri giudizi che cosa possono concernere se non l’accadere? Se affermo che Socrate è virtuoso non posso realmente intendere se non che Socrate, in questo contesto sta esercitando la vistù. Il vero non è altro che il fatto. E se vi è la Virtù non è in questo mondo; il mondo è alles, was der Fall ist. Ma tutto ciò che accade ha causa ed è causa a sua volta. Di tutto vi è principio o logos; ma non potrà trattarsi di una Natura fuori dal tempo  dallo spazio,  fuori dall’accadere, pura Forma. Il principio di tutti gli eventi riempie di sé  tutte le strade e tutte le piazze, tutto il mare e tutti i suoi porti. E’ lo Zeus dello stoicismo,  dei Fenomeni di Arato. A tale idea del divino – che non è più idea nel senso dell’eidos – “declina” il pensiero antico. Lo vedrà meglio chi connette il pensiero filosofico al pensiero artistico, letterario, architettonico e alle nuove forme di religiosità che si affermano nel mondo ellenistico. Viavia la Tyche, che nel V secolo era parola dotta, ignorata dal popolo, “è discesa tra la folla”, e “la folla l’ha trasformata e ne ha fatta una dea”.
   Ma non vogliamo qui seguire Diano nella ricchezza delle interpretazioni del mondo tardo antico che la fenomenologia di Forma ed Evento gli consente, quanto piuttosto tornare al problema di fondo della sua filosofia – poiché filosofia è essenzialmente quella di Diano, o, a la Warburg, filologia nata in Platonia! Questo problema è quello della relazione tra forma ed evento. Opposizione insuperabile e proprio perché taleessario rapporto; forma ed evento non possono porsi  individualmente ma soltanto attraverso la reciproca opposizione.  Relatio non adventitia, ma non attraverso philia, bensì contrarietà. Tuttavia, se questa paradossale relazione si presentasse in una forma logicamente definibile, entrambi i suoi membri si ridurrebbero ad essa e vi sarebbe forma soltanto. L’accordo-armonia-polemos tra di essi non può, cioè, essere presupposto; anch’esso accade. Tutto evento allora? O si dà una dimensione della vita e del fare in cui forma ed evento mostrano, insieme, il loro contraddirsi? In cui né l’una né l’altra dimensione si mostrano per superare o negare l’altra, ma proprio per esprimere l’unità più forte che nell’opposizione fonda l’identità di ciascuna?
   L’aletheia della sola essenza finisce col trasformarsi in verità logica; ma se si desse solo l’accadere dell’evento, anche questo si trasformerebbe in unica verità. D’altra parte non basta ricordare come,  tra Anassimandro ed Eraclito,  solo sullo sfondo della vissuta presenza dell’infinito che tutto comprende il qui e ora dell’evento possa manifestarsi. Tale sfondo costituisce l’evento, ma non ha “schema”  con la forma che la verità predica, e infatti la verità “bandisce” l’apeiron, relegandolo alla via del non-essere.
   E’ solo l’arte che non è né forma né evento, ma “forma ed evento in uno”. Non in una nuova forma o sintesi, il che sarebbe in sé contraddittorio, come si è visto. Ma nella concretezza di  figure. L’arte si esprime per figure particolari,storicamente determinate, non per “specie” o “stili”. Ogni “stile” è solo in quanto esiste riconoscibile nella individualità di queste figure. Ma nella figura l’occhio coglie la forma; “la forma è ineffabile, e non s’insegna”, tuttavia mostra sèù e si vede. L’artista vede la forma, ma l’esprime in figure, la rappresenta per epifania di figure – e cioè eventi. Fa accadere la forma.  Una figura che così si mostri allo sguardo, dice Diano, appare “aureolata”, ha intorno a sé “un alone, come un’aureola luminosa”.  Mentre la filosofia cerca di distinguere fino a separare tale luce dalla “materia” della figura, l’artista lavora per la loro armonia. Né potrebbe diversamente,  poiché l’opera nasce dalla sua esistenza,  è espressione necessaria del suo esserci – dell’anima di lui, figlio di tyche. Non è il prodotto di un discorso,  la conclusione di un sillogismo, ma il farsi-immagine di un phatos che  non poteva “guarire” se non esprimendosi; non è l’esito di una ricerca, che in quest’esito si acquieta, e de nobis ipsis silemus, ma la parola di quella “via profonda” dell’anima che nessun logos è capace di “raccogliere”. Se non quello dell’arte, dice Diano – ma il dire dell’arte avviene per figure e per segni, non può essere concettualizzato: e quando la filosofia s’imbatte nel problema dell’ephifaneia del phatos dell’anima,  che è l’essenza dell’evento,  allora si “trasforma” per forza in filosofia dell’arte.
   E’ questo il percorso di Diano, percorso non cronologico, concettuale:dalla filologia alla storiografia filosofica, alla filosofia, alla filosofia dell’arte.  Nell’arte non si dimostra  la sintesi di forma ed evento, ma l’evento, nella figura, appare come forma, e la forma si “incarna” nel tempo dell’evento. E così si mostra anche come quel contraddirsi di forma ed evento non fosse un astratto gioco di parole, ma realtà vissuta, forma di vita: l‘esserci dell’artista e il suo fare ne sono la figura concreta. Allorché la luce della pura forma si combina con l’eventualità dell’ek-sistere, ed entrambe mantengono la propria forza, e anzi sembra che soltanto a questo punto la raggiungano compiutamente, pervengano alla propria energeia, – quando, nella concretezza della figura l’evento appare “perfetto” e la perfezione della forma illumina la figura fin quasi a identificarsi con essa –, allora è charis, la grazia-gioia-dono del Bello. Qui, si badi, la tensione è massima, poiché in nessun altro luogo la forma si manifesta così profondamente, eroticamente, dovremmo dire, “rivolta” all’evento – e massima, insieme, l’armonia. Ma armonia, vale ripeterlo, niente affatto risolutiva, impossibile da afferrare una volta per sempre.  Nessun insegnamento, nessuna regola valgono a produrre quella figura “aureolata” – né chi l’ha prodotta saprebbe ripeterla,  come uno scienziato fa col suo esperimento o un filosofo con la sua dimostrazione.

   “E’ un equilibrio instabile, che non può esser raggiunto se non nell’attimo, l’exphaipnes di Platone e il kairos di Pindaro, e va riconquistato ad ogni istante. In questo equilibrio è l’essenza della “bellezza” .” Il bello non “salva” il fenomeno nell’ubique et semper, ma è insieme quel caso senza causa definibile, senza “fondo”,  e quella “forma” che ci appare compiuta e integra in sé, che ci appare come non potesse essere altrimenti.  Tuttavia proprio questa rimane un’ “immagine”,  o, se si vuole, un come-se.  E l’artista sa per primo come quell’opera che così appare, bella, sia evento, come avrebbe potuto essere diversa,  come potrebbe  ancora e continuamente essere da lui trasformata. Un istante è l’apparire armonico inseparabili mai uniti, forma ed evento.  Per un’istante essa dura; sta, ma per un attimo; sta e non sta. Tuttavia non è affatto mera questione di gusto; la percezione di tale istante si fonda trascendendalmente sulle categorie di forma ed evento e sulla necessità della loro relazione. In questo senso quella di Diano è vera estetica o filosofia dell’arte, e non critica artistico-letteraria, poiché essa mira a cogliere nella realtà dell’opera la verità o necessità dell’arte.
   L’exaiphnes non solo, per definizione, non discorre e non può essere fatto oggetto di discorso, ma è in sé inafferrabile. L’evento colpisce nell’istante inafferrabile dalla forma dell’opera; non appena ciò venga analizzato quel “colpo” è finito.  Dal thauma originario provengono, lo sentiamo,  le parole del nostro analizzare e sintetizzare e giudicare, ma quel thauma, bello-tremendo, non ha in sé parola. Così non ha parola il periechon che “trascende” ogni evento. E se – così Diano interpreta Platone – il nostro eros verso le cose e i discorsi belli è trascinato da “ciò” che in essi tuttavia rimane nascosto, anche “questo”, che pure dobbiamo presupporre come loro “causa finale”, rimane arrethon, indicibile. “il benon è se non l’invisibilità del bene fatta visibile – dice Diano, con accenti che potrebbero essere usati per l’arte dell’icona – ma non è esso stesso il Bene, che è assolutamente invisibile”. Dunque, la polarità che l’arte costituisce non è soltanto tra forma ed evento, ma tra il loro darsi insieme nell’attimo e l’ineffabilità dell’attimo stesso in quanto icona del Bene al di là di ogni determinazione di essenza, epekeina tes ousias (al di là, al di sopra dell’essere/dell’essenza). Tensione drammatica insuperabile: ogni fibra dell’opera è animata dall’eros per ciò che manca, animata da un’assenza,  e ne soffre. Né potrebbe esprimere questo pathos nella forma di un itinerarium mentis in Deum o in Bonum, un itinerario lungo il quale ogni “stazione” supera la precedente e ciò che domina, alla fine, è la forma dell’intero. Qui l’assenza si avverte immanente alla figura che appare come se  fosse forma compiuta, e non v’è “risultato” che non sia istante, che non venga istantaneamente rimesso al tempo di nuovo “scommeso”. La mente non può non compiere la sua via che cercando di “vincere” l’evento; l’arte se non cercando di esprimerlo in forma. – ma quando per grazia vi riesce, ciò è evento ancora, ma evento paradossale e stra-ordinario, evento che sta: in-stante.
   Nel compere la drammaticità costitutiva dell’opera d’arte Diano ha tenuto ancora la tragedia greca come sua guida. Le pagine conclusive di Linee di una fenomenologia dell’arte ne sono esplicita testimonianza. L’espressione artistica può realizzarsi secondo infinite possibilità; le figure, nel senso che si è spiegato,  cui l’arte dà luogo, e che sono figurazioni “dell’essere e dell’esserci”, costituiscono una “molteplicità storica” irriducibile a forme statiche, e tuttaviproprio la fenomenologia di forma ed evento può permettere di indicare le linee di un “sistema delle arti”, le categorie fondamentali entro cui si muovono le diverse arti e le diverse poetiche.  Questo “sistema” sembra a Diano potersi articolare lungo l’asse che va dal “massimo” di forma e “minimo” di evento al “massimo” di evento  e “minimo” di forma, a seconda cioè che la volontà artistica (il kunstwollen riegeliano che, attraverso la mediazione di Bettini, svolge un ruolo essenziale nell’estetica di Diano) figure dalla forma sostanziale, compiuta, che lo sguardo può comprehendere, “signoreggianti” lo spazio in cui si collocano, o, all’opposto, verso la rappresentazione di eventi, della temporalità dell’esserci. Ciò che è interessante non è tanto la distinzione possibile tra le diverse arti in base a tale fenomenologia, quanto l’oscillazione all’interno di ciascuna che questa polarità permette. L’oscillazione massima è riscontrabile per Diano nell’architettura e nella pittura (le arti di Betttini!). In quanto “spazializzazione e visualizzazione del ritmo”, l’architettura può raggiungere il massimo di sostanzialità (“monumentalità”) ma essa stessa può anche “vivere” lo spazio come aperto, “temporarizzarlo”, trasformarlo in vibrazione luminosa, irradiazione. E così la pittura, a seconda che prevalga l’enegia plasmatrice del disegno, la sua capacità “scultorea”, o invece la musicalità del colore. Ma la stessa arte del tempo per eccellenza, la musica, conosce questa oscillazione – che è autentica “contrarietà” di principi, che si manifestano  insieme e solo nel polemos appaiono comprensibili: concordia discors ancora. La musica può andare  dall’espressione del Numero, sub specie aeternitatis, capace di dominare il continuum temporale secondo i ritmi, il logos dettati dall’artista-creatore, alla “tonalità sospesa”, al ritmo-colore,  all’espressione più libera dell’evento sonoro. Tuttavia, la riflessione che davvero conclude la ricerca di Diano e che ne illumina tutto il percorso filologico-storico-filosofico riguarda, come si diceva, il dramma.

 E’ nel dramma che la tensione dell’arte della parola tra nome e verbo, tra la forma del nome, l’istanza a denominare stabilmente e l’espressione dell’evento scardinante ogni pretesa spazializzante, si manifesta alla sua akme. E’ nel dramma, poiché esso usa di tutte le arti, che l’oscillazione propria di ciascuna, si presenta in tutta la sua energia. Non si manifesta qui che l’oscillazione propria della storicità dell’esserci, “dramma del mondo”. La tragedia è theoria dell’opposizione di forma e di evento – opposizione che la tragedia, nell’esprimere il dran, il fare umano, riconosce inconciliabile. Ma la tragedia riconosce insieme, oltre il polemos delle parole, e delle parole che dicono forma-ed-evento, anche l’apeiro-periechon. E rende così visibile l’invisibile e ineffabile. Possiamo anche, neoplatonicamente,  chiamare Uno l’estremo periechon,  cui la tragedia fa segno. Ed ecco, allora, il dramma ultimo: “tutte le arti tendono alla parola” che è la parola della tragedia, “ma la paa al silenzio”.
Il silenzio è il limite ultimo, fine-non-fine, dell’arte – ma limite suo,  immanente alla parola,  intrinseco, alla sua vita, che riprende sempre e non s’arresta mai, e, toccando in ogni opera il suo culmine, lo cerca ogni volta e sempre il un’altra”.  Dove la filologia si sposa davvero a Ermete psicopompo, l’amore per la parola diviene amore della Parola al proprio ineffabile Inizio, e per intero si esprime, a un tempo, anche il segreto religioso della ricerca di Carlo Diano.

29.5.21
– Il divenire, e l’unità del tutto sono due cose diverse, e non in contraddizione tra loro.
L’unità del tutto è l’espressione che indentifica:
a) un fondo comune a tutte le cose (Eraclito);
b) un collegamento e allo stesso tempo qualcosa che collega tutte le cose (Eraclito ecc.);
c) il sentimento di appartenenza all’unità  e alla complessità della natura.
Nell’unità del tutto le cose possono divenire, ma restanao immutabili al fondo della loro esistenza, nel fondo comune, cioè al livello atomico.
Gli atomi infatti non divengono, non mutano, non cambiano di stato.
Tuttavia le aggregazioni di atomi danno vita ad enti differenti, i quali tutti divengono, cambiano stato, nascono e periscono.
Al loro perire i loro atomi sopravvivono per aggregarsi nuovamente nella formazione di altri enti.
Altra cosa è il sentirsi parte cmune con l’interezza del cosmo, la Natura, Phisis, e, soprattutto, il sentimento di distacco da essa che produce la consapevolezza dell’assenza del bene supremo, e dunque malinconia.
Questo ha a che fare con il mutamento della capacità del pensiero che è stato causato dalla diffusione della scrittura lineare (Leroi Gourhan). Cioè questo distacco è stato causato dalla riduzione delle capacità percettive causata dalla diffusione della scrittura.
W. Blake diceva che ci sono cose conosciute e cose che non si conoscono, e in mezzo ci sono le porte: si potrebbe dire che ci sono cose conosciute e cose che non si è più in grado di conoscere, perché non si è più in grado di percepirle. La parola poetica svolge la funzione delle porte che ci aprono di nuovo la possibilità di cogliere, conoscere cose che avevamo dimenticato (da cui la malinconia,  assenza di ciò che avevamo/eravamo), mentre l’alto muro che dal tutto ci separa, perché ogni porta presuppone un muro,  è  costituito dalla scrittura.
Allo stesso modo Anassagora diceva che ciò  che vediamo è solo la parvenza di ciò che è invisibile, e allo stesso modo si potrebbe dire che ciò che vediamo è solo la parvenza di ciò che ci è diventato invisibile. O è solo una parte, modificata e deformata, di ciò che prima riuscivamo a vedere nella sua interezza.
Vedi inoltre tutto il discorso sull’arcadia.
La storia dell’arte è la storia del tantativo di superare tale limite recuperando la capacità e le possibilità del pensiero simbolico.
Questo è la poesia di Holderlin o di Leopardi, questo è la letteratura di Proust, questo è la pittura di Cezanne, questo è l’architettura di Michelangelo.

Maggio 2021
(Ripresi. 2017)
e però è cosa certa, che le membra dell’architettura dipendono dalle membra dell’uomo.
Michelangelo

Dunque non ha senso parlare di nuova architettura, o nuova arte, fino a quando conserveremo questo corpo. Così come parlare di fine dell’arte, o fine dell’architettura,  necessarie fino a quando conserveremo questo corpo.
Ma che succederebbe se cambiasse il corpo umano? E come potrebbe cambiare?
Consideriamo per esempio che gran parte dei suoi organi, della sua estensione e la sua forma dipendono essenzialmente dall’apparato digerente, che trasforma il cibo in energia utile a far funzionare l’apparato muscolare, a sua volta necessario a procurarsi il cibo necessario per far funzionare l’apparato muscolare necessario per procurarsi il cibo ecc.

Il sistema di acquisizione dell’anergias è estremamente rozzo (in termini di resa energetica). Si basa sulla elaborazione del cibo ingerito e la sua scomposizione negli elementi primi utili alla rpoduzione di lavoro. Basterà quindi  garantire per altra via l’approvvigionamento di proteine, calorie e vitamine, nelle forme e nelle quantità necessarie ad ogni soggetto, per rendere obsoleta ed inutile tutta la parte del corpo che va dalla gabbia toracica al bacino.

Dal punto di vosta sociale questa modifica comporterà una vera rivoluzione : non ci sarà più necessità di cucine,  con tutto quello che ciò comporta: sia dal punto di vista della produzione di mobili che da quello dello spazio e dela organizzazione dell’allogio. Non ci saranno infatto neanche bagni o servizi igienici.
Anche la socialità subirà profondi cambiamenti, non essendo più legata a necessità fisiologiche. Non si andrà più a cenare insieme, o a prendere un caffè, o a fare l’aperitivo. Bar, ristoranti e caffè spariranno del tutto.
La rivoluzione definitiva avverrà quando sarempo in grado di sintetizzare l’energia che ci serve direttamente dall’aria e dalla luce. Questo significherà la fine della storia come fino ad ora è stata: basata sulla competizione per l’accaparramento ed il possesso delle risorse; e l’inizio di una storia nuova.
Il nostro destino è di diventare esseri superiori, come lo sono i fili d’erba, che non hanno bisogno di spostarsi per nutrirsi, che trasformano in nutrimento il 100 % dell’energia che ricevono sotto forma di luce ed aria, che non hanno bisogno di pensare per vivere, per essere parte del tutto. E dunque non hanno bisogno neanche dell’arte.

25.09.21
Materiali su Cézanne

Il più grande tentativo – riuscito – di rappresetare il presente è stato compiuto da Cézanne, ed è il tentativo durato una vita intera rappresentato dalla sequenza delle Montagne di Sainte Victoire.
Tutte le montagne si possono vedere solo  in successione, ma andrebbero viste tutte contemporaneamente, e questo può essere fatto  solo con un esercizio di composizione interiore:  il presente non è nessuna delle Montagne rappresentate, ma l’insieme di tutte, cioè l’unica che dopo averle viste tutte appare.
C’è voluta una vita intera per ottenere questo risulltato; anni sono dovuti passare in paziente e operosa attesa. E non sappiamo se Cézanne ne fosse consapevole. Cioè se fosse consapevole della immensa grandezza del regalo che ci ha fatto.

6/10/21
Il tema della ricerca , l’argomento, è chiaro: ho indicato una dimensione diversa,  dell’essere, cioè l’essere tridimensionale che vive contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. E cioè non fuori dal tempo, ma dentro il tempo! Fuori dal tempo vive chi vive inconsapevolmente nel presente!
Ora si tratta solo di verificare questa tesi, e soprattuto la sua presunta differenza da Bergson, da Proust, da Deleuze…

Nella seconda parte parlo della ricchezza e contraddittorietà del presente, con la sua insanabile contraddizione di essere luogo dell’assenza e della presenza del Tutto nello stesso tempo.
Questo si riallaccia  al concetto che della realtà vediamo solo il visibile, e non pensiamo all’invisibile.
Cacciari, Cézanne, Merleau Ponty, Ghirri…

Nella terza parte parlo dell’armonia, cioè del fatto che solo segni derivanti da una composizione armonica ci consentono di compiere il salto temporale.  Cioè si smaterializzano.

Si parla infine della bellezza che, richiamando la poesia di Montale e arrivando a Leopardi, è il fantasma che non ci salva.

Ora che la tecnologia ha svelato LA GRANDE TRUFFA DELLA BELLEZZA,  dimostrando che non è arte riprodurre la bellezza, ma soltanto bisogno  (ringrazio Antonella per avermi insegnato a distinguere l’amore dal bisogno), cioè necessità, rimane il significato vero  dell’arte, cioè produrre segni che si smaterializzano ed entrano a far parte della esperienza trascendentale, cioè della memoria trascendentale a-soggettiva.

La bellezza non c’entra nulla con l’arte. Essa ha a che fare col fantasma che ci salva, non con il crogiuolo. Dove con gli atti scancellati si compongono le storie del futuro.  L’arte è il crogiuolo.

Cos’è il verso se non l’istituzione di un tempo diverso!
Il ritmo diverso infatti provoca un diverso scorrere del tempo, diverso dall’ordinario in quanto armonico. Armonico in quanto esteso nel tenere insieme l’inizio e la fine.
E cos’è questo se non il nostro vero tempo,  esteso dal passato al futuro!
Questo è il passaggio fondamentale:
Il ritmo del verso, il ritmo cioè che le singole parole istituiscono nel verso, il ritmo che danno alla frase, per esempio un endecasillabo, e lo stesso succedersi dei versi nel contesto più ampio della terzina, istituisce un tempo armonico, cioè un tempo continuo, che come un filamento tiene insieme il suo inizio e la sua fine. In ogni sua parola, in quanto partecipante al ritmo, il verso richiama il suo inizio e la sua fine: en cai pan.
Nella nostra essenza dunque noi siamo tempo armonico, cioè ritmo, cioè siamo la capacità di tenere insieme l’inizio e la fine.

Cos’altro è la musica se non una ordinata successione di suoni che istituisce un tempo diverso, cioè una armonica successione di  suoni in cuoi l’armonia – cioè il collegamento ordinato secondo certe misure – seve ad unire il primo suono della frase all’ultimo, dunque a tenerli tutti insieme?

E cos’altro è l’architettura se non l’istituzione di un alternarsi di pieni e di vuoti che tiene insieme ogni parte della fabbrica edilizia creando uno spazio armonico? In cui, come nel Duomo di Pavia, o nel recetto della Biblioteca Laurenziana, ogni singola linea è legata a tutte le altre come le note un una melodia?

Per lo stesso motivo la pittura, la scultura e la letteratura, che sono arti figurative, cioè arti che producono figure,  hanno valore e senso in quanto “imitative”, cioè in quanto imitano una situazione in cui esiste armonia. Isolano e riproducono, attraverso la composizione dei colori e delle figure, attraverso la composizione della materia, attraverso la descrizione operata con le parole, una realtà armonica (in un paesaggio, per esempio, o in un volto) che nell’ordinario, confusi nel tempo ordinario e nel disarmonico comporsi delle cose, non rileviamo.

Le arti figurative (pittura, scultura, letteratura) sono arti descrittive: rappresentano, imitano l’armonia e la bellezza.
Le arti primarie (musica, poesia, architettura) producono armonia e bellezza. Le arti figurative descrivono, ci raccontano una esperienza.
Le arti primarie quella esperienza la inducono, ce la fanno vivere.
Ed è solo attraverso queste arti che oggi possiamo “fare esperienza”.

(riprendere esperienza, scienza e verità)

7/10/21
Provare una sensazione è una esperienza in cui attraverso i sensi si viene a conoscenza di un aspetto della realtà esterna, cioè appunto se ne fa esperienza. Raccontare o pensare una sensazione è una attività riepilogativa e riflessiva posta in essere attraverso la memoria per un uso pratico.
L’attività che produce segni capaci di indurre una sensazione (arte), è una attività che ci fa provare un’esperienza, ma in senso inverso, portando fuori, all’esterno, qualcosa che già esisteva dentro di noi.  Questa è l’attività riproduttiva dell’intelletto, capace, dietro una precisa sollecitazione, di farci vedere colori che non esistono, di farci sentire odori che non esistono. Dunque è un uso dei sensi  che va al di là delle capacità fisiche degli stessi. O più precisamente è una replica esatta di una condizione precedentemente vissuta e registrata, che coinvolge i sensi nella creazione di una scena che non esiste, ma di cui si sentono gli odori o si vedono i colori.  Questo significa, alla lettera, creare la realtà.
Ma è veramente così? Proust dice di si; dice infatti che la reminiscenza riporta in presenza un preciso luogo, insieme alla sua luce, ai suoi colori e ai suoi odori.

Questa attività dell’intelletto è diversa dall’attività rappresentativa con la quale si descrive o si racconta una sensazione.
Da qui la differenza tra arti primarie o creative, e arti rappresentative o figurative.

La sera che si stende contro il cielo di Eliot non è la stessa che da pace e fiume alla campagna di Alfonso Gatto, né è il nulla semplice e profondo di Pavese. Questa sera ci porta un’inquietudine, ci porta attraverso strade semivuote in luoghi estranei, in cui non possiamo che chiederci: “Cos’è?”, ma consapevoli di non poter ricevere alcuna risposta. La sera di Gatto, e il nulla di Pavese non ci inducono domande, perché sono già risposta.

10/10/21
Marcovich, sul significato di Logos. Da Eraclito,  p. 8
Nel fr. 1  o logos sembra voler dire in primo luogo affermazione o discorso,  nel significato di insegnamento orale (come al fr. 83, e probabilmente anche al fr. 109: a) perché gli uomoni possono udire il logos da Eraclito (fr. 2, 3); b) perché  l’espressione outos o logos  nella prosa arcaica vale, di solito,  “affermazione, esposizione, prova” (cfr, Melisso, Democrito, ecc.).
Dal momento che gli uomini da soli possono ricavare la conoscenza del logos direttamente dal mondo che li circonda, senza l’aiuto di Eraclito (fr. 23 e 26), deve voler dire, nello stesso tempo, anche verità obiettiva (legge, regola). E’ dai tempi di M. Wundt che si sa bene come il pensiero greco arcaico non avesse ancora bene chiara la distinsione tra aspetti obiettivi e soggettivi della conoscenza (cioè fra Idea-Parola e Cosa) (2).

Fra i detti supersiti di Eraclito non si trova una definizione formale di ciò che egli intendeva per Logos, o Verità; ciò nonstante, sulla base dei frr. Del gruppo VI e della formula ev to autò, xunon contenuta ai frr. 32, 33, 34, 41, 43, 46, 50, si può supporre che Logos significasse:
a) unità o coicidenza di ciascuna coppia di opposti;
b) unità sottostante all’ordinamento del mondo (crf fr 26).

D’altra parte,  logos al fr. 53 vuol dire chiaramente “proporzione”, “misura”, e nella espressione erodotea  ou pleon logos significa “valore”, “calcolo”, “stima”.

10/10/21
Ghirri, prefazione a Kodachome
II.
Dalla necessità e il desiderio di interpretare e tradurre il segno e il senso di questa somma di geroglifici, nasce il mio lavoro.
In questo senso, non solamente la realtà facilmente identificabile o di alto contenuto simbolico, ma anche il pensiero, la memoria, l’immaginazione, il contenuto fantastico o alienato.
La fotografia è per il fine che mi sono proposto straordinariamente importante, grazie a caratteristiche che cercerò qui di evidenziare.
La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata, è per me importante quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile.
Contemporaneaente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato.
Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare, non tende soltanto a evocare l’assenza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato e cioè il reale.

10/10/21
Pavese, cronologia di  Tutti i racconti, p. XC.
1942
… A fine giungo è tra le sue colline, a Santo Stefano Belbo,  e si abbandona a considerazioni sull’infanzia e sul mito:
“Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia,  e mi riguardo con cautela le grandi colline – tutte, quella enorme e ubertosa,  come una grande mammella, quella scoscesa e acuta dove si  facevano i grandi falò, quelle ininterrotte e strapiombanti come se sotto ci fosse il mare – e sotto c’era invece la strada,  la strada che gira intorno alle mie vecchie vigne e scompare, alla svolta, con un salto nel vuoto.

Da questo salto non ero mai passato; si diceva allora che la strada proseguiva sempre a mezza costa, sempre affiancata da colline di così enorme estensione da apparire, viste sopra la spalla,  come un breve orizzonte a fior di terra. Ero sempre arrivato a questo orizzonte, a questi canneti (…), ma presentivo di là dal salto, a grande distanza,  dopo la valle che si espande come un mare, una barriera remota (piccina, tanto è remota) di colline asssolate e fiorite, esotiche. Quello era il mio Paradiso, i miei Mari del Sud, la Prateria,  i coralli, Ophir, L’Elefante bianco ecc.” ( Lettera a  F. Pivano, 25 Giugno. )

23/10/21
Libri su Proust:
H.R. Jauss, Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust, 1986
Le lettere, 2003;
Charles Blondel, La psicografia di Proust, 1932/2
Rubettino 2016

23/10/21
Da Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo, Il Mulino
Cap.1, pag. 19
In linea generale va rilevata in primo luogo la tendenza a sottolineare una stretta interdipendenza tra il solipsismo radicale di P. e il carattere proiettivo attribuito alla conoscenza. Esseri e oggetti sono da considerare come la estrinsecazione ed in certa misura la oggettivazione dei nostri stati e dei nostri sentinenti: tutto è soggettivo nella stessa misura dei più intimi dei nostri stati d’animo. Ogni generalità è sempre soggettiva, è una soggettività che si dissimula (Blondel, La psicologia di P., 1932)
A questo orientamento quello di chi ritiene che la vita umana è fatta di mutamenti “bruschi e completi”: non si può parlare di un io, ma di una molteplicità di io che si succedono l’un con l’altro. Questi io si manifestano nel mutare di quelle maniere differenti di sentire e di pensare di un medesimo individuo che prendono il nome di “personalità”. Il soggetto è un individuo complesso, ma l’indivisduo non può mai essere, volta per volta, altro che uno solo dei vari esseri di cui, per così dire, può indossare le vesti (Bonnet, Le progres spirituel dans l’ouvre de Marcel Proust, 1946/49).
Da una parte dunque il permanere dell’io – del soggetto empiricamente certo della propria identità personale – dall’altra la continua esperienza del mutamento, della dispersione.

La mia posizione è differente.
Per me la permanenza dell’io non è solipsismo radicale. Non è, cioè, il ricondurre la molteplicità del reale alle proprie esternalità (Blondel). Né può essere ricondotta alla pluralità dell’io, di volta in volta, e una coscienza alla volta assumibile dal soggetto.
La permanenza dell’io per me è permanenza del passato. Cioè CONTINUAMENTO AD ESISTERE di ciò che ci è accaduto, e di conseguenza CONTINUAMENTO AD ESISTERE  di noi stessi. E’ questo che comporta il fatto che non si può dare alcun cambiamento in noi, perché ciò che eravamo ancora siamo.
(vedi: 23/10/13,)

23/10/2021
Mi pare di capire che nei suoi racconti di riflessione Pavese parli non di sé, ma di quel sé che non è mai stato, cioè dei personaggi, delle cose e dei luoghi (Su Pavese e i luoghi, e sulla poesia minimale dei luoghi di Pavese bisogna approfondire) di cui, pur non essendo loro, faceva parte. Sono testimonianze di adesione al mondo.
La sua grandezza – e la sua tragedia – consiste in questo riconoscerdi in cose, uomini, riti che non gli sono mai appartenuti veramente, ma di cui si sente parte, probabilmente per averli sentiti e vissuti da ragazzo in seconda persona.

24/10/2021
E’ significativo quello che dichiara Proust nell’intervista a Le Temps del 1913:
“La Recherche non è in alcun modo un’opera di ragionamento… anche i suoi più piccoli elementi mi sono stati forniti dalla mia sensibilità…
Io li ho prima scorti al fondo di me stesso, senza comprenderli, e facendo tanta fatica a convertirli in qualcosa di intelligibile come se fossero stati estranei al mondo dell’intelligenza al pari, come dire, di un motivo musicale”.
Per questo la Recherche non è un’opera d’arte, o meglio non è un’opera di arte esperenziale ma un’opera rappresentativa,  cioè descrittiva.
Questo tentativo infatti è riuscito, e P. ha trasformato qualcosa che somigliava a una musica in un parlato, quello che era frutto di intuizione in un prodotto di ragionamento,  riuscendo così a cogliere, dopo estenuanti analisi, il farsi della memoria involontaria. Ma non suscita in noi alcun evento/effetto simile, come ci succede, per esempio, leggendo una poesia. Non ci fa uscire dal tempo ordinario dell’intelligenza (perché non ha un ritmo- vedi), ma anzi ci costringe all’interno della sua gabbia. Ci fa anche perdere in essa, costruendo una gabbia a forma di labirinto, vagando all’interno del quale abbiamo l’illusione di trovare quella porta che si apra sbattendoci contro,  ma che in realtà non può aprirsi perché non è all’interno del labirito dell’intelligenza che si trova.
(25.12.21)

24.10.21

Se la natura si rappresenta  propriamente (ordinariamente) nella sua dote (nel suo aspetto) più debole, allora quando si rappresenta nella sua dote (nel suo aspetto) più forte il segno (la luce della vita e il fenomeno) è = 0.

Quindi quando si manifestano in tutto il loro significato la vita e il fenomeno, e cioè nel loro apparire (che è il loro significato ultimo),  non si manifesta l’originario, il fondamento di ogni natura.

Da cui deriva che l’originario non è percepibile, in quanto può manifestarsi, e dunque può essere percepito, solo in assenza della vita.

Esso tuttavia è intuibile – questa è la tesi di H. ed è anche la base della mia ricerca (che anche se giungesse ad essere mera raccolta e catalogazione di testi sarebbe per me soddisfazione suprema) – nel momento in cui, attraverso un eccesso di compartecipazione, causato da vari fattori, ma anche dai segni dell’arte, si annulla il soggetto di cui si è titolari, o, secondo la mia tesi, si percepisce il nostro essere in quanto estensione di tempo, e quindi anche in questo caso come annichilimento del soggetto che vive nel presente, e aderendo, per la durata di un tempo incalcolabile a causa della sua brevità e della  sua intensità, alla Totalità, divenendo cioè per un tempo infinitesimale ma infinito uno dei tutti che costituiscono l’Uno.

Da notare, come ulteriore motivo di necessario approfondimento,  la contraddizione in termini che Holderlin volontariamente pone in essere quando parla di ogni totalità. A beneficio dei suoi dotti amici e dei suoi maestri (Fichte, Schelling, Hegel, Schiller, Goethe…) che la sua grandezza, per proprio limite o per semplice timore e tornaconto, o non avevano capito, o appunto facevano finta di non capire. Nell’un caso o nell’altro, e man mano che la reale grandezza della statura di Holderlin viene svelata dalla storia, la loro non può che risultarne pesantemente sminuita.

28/10/2021
Definita seconda terza e quarta parte di Atlante (par. 9) . Ancora preliminari. Poi si entrerà nel merito con Cezanne ecc.
Seconda parte: il divenire. A seguire Holderlin.
Eraclito
Stoici
Holderlin
poesia
Si affaccia all’orizzonte la figura possente di Dante.

31.10.21
Nota 27 di Reitani al Frammento di Hyperione, p. 1301
Testo:
Mio Bellarmin1 Se potessi farti condividere pienamente l’esperienza ineffabile che vissi in quell’istante! (27) Dov’èrano finite le pene della mia vita, la notte e la sua povertà? Dove la sua misera natura mortale?
Un simile attimo di liberazione è certamente quanto di più sublime e felice la Natura inesauribile racchiuda in sé!  Esso compensa gli eoni della nostra vita vegetativa! La mia vita terrena era morta, il tempo era come sospeso, e il mio spirito, liberato e risorto, percepiva la sua affinità e riconosceva la sua origine.
Nota:
In Amore e individualità Herder scrive che il momento più alto dell’unione degli spiriti è quello in cui l’amante vede l’amata, che rimanda a una comune preesistenza: “Il massimo grado dell’estasi io lo vedo (…) nel primo felice trovarsi, nel  dolce attimo, superiore a ogni descrizione, in cui entrambi gli amanti si accorgono che si amano. (…) Se esiste un attimo di celeste delizia e di pura unione di esseri corporei qui sulla terra, è questo. (…)  In esso godiamo, a ristroso,   ciò che a lungo abbiamo cercato e non osammo confessare a noi stessi, in esso godiamo in anticipo tutte le gioie del futuro,  non presagendole, ma possedendole, anzi, se così si può dire, più che possedendole.

Rif.: l’amore che ci fa vivere la nostra vera essenza, portandoci fuori dal tempo.

(30.10.21)

L’atto stesso del pensare si costituisce come pre-giudizio, in quanto nel momento stesso in cui si forma, il pensiero istituisce il soggetto, e dunque una visione distorta del reale.
Com’è possibile infatti, si chiede Holderlin nella cruciale lettera a Hegel del 26 Gennaio 1795, immaginare un Io assoluto, se quest’Io, per definizione, non piò ammettere un oggetto fuori di sé, e quindi non può avere coscienza, giacché una coscienza non può esistere senza una distinzione tra soggetto e oggetto? (Reitani, Holderlin, XXVI)

***

Il linguaggio è l’esito di un processo evolutivo iniziato milioni di anni fa (più o meno all’alba del ternario) e venuto a maturazione, costituendosi come esito, circa 2500 anni fa. Essere l’esito di un processo evolutivo significa essere diretta e immediata espressione di una forma particolare della struttura vivente, cioè del corpo, così come questa, attraverso milioni di anni si è evoluta fino a giungere alla sua forma ottimale in funzione del lavoro di trasformazione della materia necessaria alla sua sopravvivenza. Significa che il linguaggio è come è perché il nostro corpo, che si è evoluto in questa precisa forma (postura eretta, liberazione della mano ecc…) di questo ha bisogno. Dunque non si può cambiare un linguaggio, a meno di non cambiare la forma del corpo. Se perciò l’uomo è il suo linguaggio, l’eventuale “superamento” dell’uomo non può che partire da un superamento del corpo, da un suo radicale cambiamento, il solo in grado di provocare un cambiamento del linguaggio.

Da E. Bloch
Filosofia del rinascimento

(…) La grande esplosione della filosofia del Rinascimento si ha con Giordano Bruno., il grande cantore dell’infinità cosmica, il primo a tentare di dipingere l’immanenza con i colori della maestà e del mistero  che il medioevo aveva riservato al mondo dell’Aldilà.
(… vita di Bruno …) E quando sul rogo, questo luogo così adeguato all’amore cristinano, gli fu avvicinata la croce,  volse il capo dall’altra parte.
(…)
B. scrisse dunque  satire, poemi didattici, dialoghi. Nella sua opera  principale,  Dialoghi de la causa, principio e uno, riprende soprattutto la forma del dialogo platonico. Il dialogo platonico è una forma straordinariamente felice di mutamento riuscito in solido: non è infatti il mero recipiente di un contenuto autonomamente esistente, bensì la forma genuina del procedere dialogico-dialettico del pensiero platonico. Si tratta di un caso eccezionale, che non traova riscontri né prima né dopo,  probabilmente neppure dei dialoghi aristotelici che sono andati perduti.. E neppure presso Bruno, nel quale il dialogo è l’abito di cui si rivestono idee che il portavoce ha già comunque, per altre vie trovato. La forma dialogica ha qui tuttavia una grande vivacità, in quanto vi fanno la propria comparsa quei titpi fortemente caratterizzati che entreranno a far parte del secolare patrimonio della Commedia dell’arte. (verificare l’ipotesi di Bloch sulla particolarità del dialogo platonico)
(…)
Un altro scritto più schiettamente metafisico è  il De maximo et minimo. Abbiamo poi la ricerca sul De triplici minimo, il trilplice minimo costituito da punto, atomo e monade; e ancora Dell’infinito universo e mondi. Ma al centro del suo pensiero ci sono i Dialoghi de la causa ecc.
Come si è già visto alle sue origini la filosofia del Rinascimento riprende l’Hen Kai Pan di Parmenide, che si presenta come affermazione di una radicale “mondanità” negatrice di ogni forma di trascendenza. Nell’Unotutto pulsa la stessa vita che è in noi. La tempesta è in noi come respiro, i fiumi sono le vene,  le rocce le ossa, il cervello è nube, cielo, firmamento. Questa concezione esprime un profondo radicamento nell’Aldiquà: luna, valle e pietra vengono salutati come fratelli carnali Questo senso di profonda affinità emergeva già nel Cantico di San Francesco,  ma i filosofi del Rinascimento non hanno più bisogno di un padre comune per sentirsi legati fraternamente alle creature. Il nesso tra creatore e creatura duviene allora un puro residuo linguistico, etimologico, e la creatura acquista preminenza sul suo stesso creatore. (ma Bloch non spiega perché!)

Il rapporto con la conoscenza.
Bruno si affida alla percezione, al mondo quale si dà dal punto di vista sensibile. Ma con tutto il suo amore per la ricca profusione del nondo, egli è consapevole della ristretta liitatezza della percezione, soprattutto nella nostra forma individuale. La parvenza esterna, benché sia il punto di partenza della conoscenza, non esaurisce neppure il contenuto di ciò che viene immediatamente visto, e tanto meno – quindi – di ciò che non si vede e non si sente, non si gusta e non viene percepito con i sensi.
In questo modo B. evade dal carcere della nostra sensibilità individuale,  rifiutando decisamente che la nostra esperienza umana sia l’unica esistente al mondo. Credere che non esistano più pianeti di quelli da noi conosciuti sarebbe altrettanto folle, afferma un suo celebre passo, quanto pensare che non esistano più uccelli di quanti se ne vedono guardando un pezzetto di cileo da una feritoia.

***

Il senso di appagamento che si prova perdendosi nel silenzio della natura. Forse è la Natura l’altro sé, l’altra parte che sempre si cerca e non si trova, perché – forse – si cerca nel modo sbagliato. Forse infatti l’altro me che sempre cerco, l’altra parte che sola può completarmi e placare la mie sete perenne, e che ho sempre pensato dovesse essere una donna, forse invece non lo è; forse l’altra parte è il mondo, Madre Natura, dal quale –come specie ed in quanto soggetto – mi sono allontanato.
Ed è nella condizione del nomade (senza casa) che tale raporto può manifestarsi, perché l’atto di possedere una casa, anche in mezzo alla natura, istituisce il soggetto. E il soggetto è la fine del rapporto col mondo.

Ci sono persone, e io sono una di queste, che vivono il distacco dalla terra come un trauma, una violenza.

31/10/21
Interpretazione del frammento di Holderlin “Il significato delle tragedie…”

F. Holderlin
Il significato delle tragedie
Il significato delle tragedie lo si comprende nel modo più facile partendo dal paradosso. Tutto  ciò che è originario infatti, essendo ogni facoltà  (aspetto) ripartita giustamente ed equamente, non appare davvero nella sua forza originaria, ma propriamente solo nella sua debolezza, sicché (così che) la luce della vita e il fenomeno fanno propriamente parte della debolezza di ogni totalità.

L’originario dunque non appare nella sua forza originaria, non può apparire nella sua forza originaria, essendo questa il perfetto equilibrio (essendo ogni facoltà  (aspetto) ripartita giustamente ed equamente), giacchè solo nel manifestarsi di una debolezza può esprimersi una forza, solo per opposizione a un negativo può manifestarsi un positivo (vedi altrove), e ciò presuppone il venir meno di un equilibrio che invece nell’originario è sempre presente.

L’originario dunque non appare nella sua forza originaria ma solo nella sua debolezza, cioè nello sfrangiarsi dei suoi aspetti periferici (si potrebbe dire con ardita e interessante metafora: nella sua sprezzatura), che sono la luce della vita e il fenomeno, cioè appunto l’apparire.

La luce della vita e il fenomeno sono debolezze di ogni totalità: ogni vita, dal filo d’erba all’uomo, nel suo apparire come fenomeno è una manifestazione di debolezza della Totalità, che è il principio vitale. Ma è anche il modo in cui la Totalità si manifesta. Cioè la Totalità si manifesta a noi attraverso la sua sprezzatura.

Ora nel tragico, il segno è in se stesso insignificante, inefficace, mentre l’originario si manifesta direttamente.

La contraddizione tragica consiste nel manifestarsi direttamente dell’originario attraverso il percepire come  insignificanti i segni con cui ordinariamente si manifesta, cioè la luce della vita e il fenomeno, quindi: la vita e la realtà.

L’originario può apparire infatti soltanto nella sua debolezza;
in quanto però il segno in se stesso
(attraverso cui l’originario appare, cioè la luce della vita e il fenomeno) è posto = 0 come insignificante, 
allora anche l’originario, il fondamento celato di ogni natura, può rappresentarsi.

Dunque solo nel momento in cui si percepiscono la vita e la realtà come =0, cioè come esistenti privi di significato e dunque esistenti a-soggettivi, dunque per noi inesistenti, il fondamento celato di ogni natura può manifestarsi.

15.11.21
Sul nichilismo arcaico:
da Bloch, FR, p. 34
Salomone, Ecclesiaste; tradotto da Lutero col titolo: Il predicatore Salomone.
Troviamo in questo testo la frase “tutto è vanità” in cui risuona  chiaramente l’influenza dello scetticismo e del materialismo greco.  Nel capitolo III, vesretti 19-21, è detto: “Che la sorte dé mortali è quella delle bestie; è una sorte identica; come muoiono gli uni, così muoiono le altre; hanno un medesimo soffio;  e l’uomo non ha superiorità veruna sulla bestia; ché tutto è vanità; tutti vanno nel medesimo luogo; tutti vengon dalla polvere e tutti tornano alla polvere.  Chi sa se il soffio dei mortali sale in alto e se il soffio della bestia scende in basso sulla terra?”
Continua Bloch:
La reazione degli uomini all’idea della caducità  non assumeva necessariamente un carattere liberatorio, tanto è vero che neppure la religione ebraica arcaica contemplava l’immortalità.  Le scritture più antiche parlano di Scheol, termine che indica qualcosa di molto simile alla nostra incoscienza (l’immanenza? NdC).
La fede nell’immmortalità individuale fece la sua comparsa molto tardi, con il profeta Daniele,  e anche allora esclusivamente all’insegna della resa dei conti e della giustizia: i cattivi dovevano sopravvivere per scontare il loro castigo e i buoni per assaporare il trionfo.
Soltanto in seguito la sopravvivenza, da strumento “giudiziario” divenne il perno di tutta la macchina ideologica della Chiesa di Pietro.

14.11.2021
Il percorso del divenire: Eraclito, Platone, Aritotele, Atoici, umanisti, Bruno, Holderlin. Fin qui.

15.11.21
E. Bloch: Filosofia del Rinascimento
cap.2
Marsilio Ficino 1433/1499.
Marsilio Ficino rinnovò le idee neoplatoniche, soprattutto l’idea del Lumen originario da cui è scaturito il mondo, che ha generato e illuminato il cosmo, operando rispetto a Plotino un inversione di giudizio rispetto alla gerarchia tra rapporti terreni e ultraterreni.
In Ficino l’Aldiquà è ancora illuninato dall’Aldilà,  ma allo stesso modo in cui una lampada di alabastro splende in virtù dell’invisibile luce che sta al suo interno e dalla quale possiamo tuttavia prescindere, perché la luminosità è più bella della luce stessa.
Così, lo splendore emanato dal Lumen originario è più importante del Lumen stesso, è l’alone, è il bello.
Il sacro, superiore, misterioso ed “estraneo” Aldilà si manifesta come il Bello nel mondo terreno.
In Pico della Mirandola lo sguardo si svolge ancor più decisamente all’uomo, il quale conquista la sua precisa autonomia. (…)
L’uomo è posto al centro dell’universo, affinché gli sia più facile – afferma Pico –  guardarsi intorno e vedere cosa c’è nel mondo.
Il mondo è fatto della sua stessa carne e del suo stesso sangue, dimodocché l’uomo non avverte più l’angoscia della “assenza di dimora”, la paaura e l’estraneità.
Il mondo ridiventa pagano, e l’uomo riacquista la dignità  greca della della figura eretta, in luogo del ripiegamento ocntrito, della linea curva e spezzata delle figure gotiche genuflesse. Nella sua “Oratio de dignitate hominis” Pico dice: ““Gli animalii traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro,  e gli spiriti superiori sono fin dal principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili forme di vita”.
Il fatto che solo l’uomo non sia compiuto, che la sua esistenza sia in divenire, in questo consiste la sua dignità.
L’uomo ha e non ha,  nel suo avere c’è un non avere, perciò deve aspirare all’avere, ma nel suo non avere c’è un avere, perciò può aspirare alla luce.
In polemica cin Platone: ciò che è percepibile dai sensi vale più dell’Aldilà delle idee, la creatura più del creatore: essa traslumina il Creatore nel concetto.
Le forze celesti salgono e scendono,  il mondo è pieno di forze che fluiscono dall’alto verso il basso e dal basso verso  l’alto.
Con Francesco Patrizzi ci troviamo non soltanto di fronte alla rivificazione dell’universo, né solo di fronte alla perdita di peso del Creatore rispetto alla creatura, bensì anche all’attribuzione al principio supremo di un nome che non era più risuonato dall’epoca di Parmenide: il nome di Hen Kai Pan.
Il nome significa non solo la panteistica organicità universale del mondo,  ma anche il fatto che non esiste nient’altro che l’uno e il tutto, l’unotutto che Patrizzi chiama Unomnia.
L’Unomnia è l’unico Lumen originario che riempie  l’infinito spazio cosmico. Non c’è materia morta, bensì in tuttospira il soffio vitale panteistico, il soffio di divina immanenza della vita. In questo contesto non interrotto da alcuna trascendenza non c’è posto per i miracoli e non esistono alri infiniti al di fuori del soffio del Pneuma.
Rivalutazione di Aristotele.
Pomponazzi rinnovò lo studio di Aritotele. Con la sua opera principale, De immortalitate animae, Pomponazzi nega la sopravvivenza individuale, e così anche il destino paradisiaco e infernale dell’anima umana.  Vibrando in questo modo un durissimo colpo ala potere ecclesiastico, che era il potere di rimettere i peccati. La chiesa fondava il suo potere sul terrore della trascendenza, che torturò gli uomini fino al XVIII secolo. Secondo l’originale aristotelico tuttavia l’anima è l’entelechia (il compiersi) del corpo, e il trapassare del corpo ne liquida la sussistenza. In Aristotele lo spirito dell’umanità sopravvive, ma non a livello personale, ma solo come nostra parte migliore.
Ricordi e destini personali svaniscono con la morte, noi non contiamo per il nostro fugace passaggio nella vita, né veniamo quindo premiati per i nostri meriti personali.
Importanza di Ficino: con lui per la prima volta “la luminosità è più bella della luce stessa”; cioè il creato è più bello del creatore, ovvero il “creatore si manifesta attraverso il bello nel mondo terreno”.
Dunque il creato non è tutto bello; ed è  nella bellezza che il creatore si manifesta, perché la bellezza è “la luminosità che deriva dalla luce originaria”. (Ma com’è possibile che dal creatore derivino parti del creato non belle? Solo ammettendo che il creato si sviluppi autonomamente, relegando il ruolo del creatore al solo ruolo di  Lumen originario.)
E’ questa comunque la rivoluzione che sta alla base della “scoperta” dell’armonia universale. Ed è una rivoluzione perché fino ad allora il bello e la natura erano considerati luogo del diavolo (il bello che suscita il desiderio dunque causa il peccato).
“L’uomo prende consapevolezza dell’Aldiquà, diviene conscio delle forze meravigliose che governano il mondo” (Bloch).

Con Pico poi il mondo diventa stessa carne e stesso sangue dell’uomo, lasciando così intravedere la possibilità anche per l’uomo di partecipare alla bellezza, di ricongiungersi con Dio.  Pico per primo teorizza il divenire in senso neoplatonico: tu solo uomo hai uno sviluppo, ti puoi elevare.
“Gli animalii traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro,  e gli spiriti superiori sono fin dal principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili forme di vita”.
Verso cosa si eleva l’uomo? Verso Dio? Non più. Verso l’Unomnia, l’Uno e Tutto di Patrizzi, che per primo riporta in auge il concetto di ev kai pan.
Infine Pomponazzi, smontando l’interpretazione scolastica di Aristotele, delinea il concetto di divenire come è giunto fino a noi.
“L’anima è l’entelechia (Aristotelico: la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo) del corpo, e il trapassare del corpo ne liquida la sussistenza. Certo, in Aristotele lo spirito generale dell’umanità sopravvive, ma non a livello personale,  bensì come nostra parte migliore. Ricordi e destino personasle svaniscono con la morte, noi non contiamo per  il nostro fugace passaggio nella vita, né veniamo quindi premiati per i nostri meriti peresonali.
Egli negava non solo l’immortalità personale,  ma anche quella della parte attiva e generale dell’anima di cui Avicenna e Averroe avevano sottolineato la centralità, sviluppando la dottrina aristotelica.
 Per i due pensatori arabi l’umanità è un albero, su cui si avvicendano senza posa le foglie e, come le foglie tornano in autunno nell’albero, così al momento della morte gli uomini rientrano nell’umanità generale. Pomponazzi respinge come mistica questa concezione e vede la morte come un ritorno non tanto all’umanità generale, quanto nella materia generale.
Anche per Avicenna e Averroè tuttavia nell’immagine dell’albero imperituro era implicita l’idea del tutto omnicomprensivo, dell’eterna materia. Per essi la meteria non era semplice cera per l’impronta delle forme, bensì la forma stessa faceva parte della materia, vista come fondamento originario di tutte le cose. Così concepita la materia diventa essa stessa dator formarum, matrice delle forma e capace quindi di trarre dal suo grembo, senza l’ausilio di una forma trascendente, tutti i fenomeni del mondo, destinati poi a far ritorno alla materia.

21.11.21
Ogni immagine, che sia prodotta dagli uomini con segni, colori, ma anche parole, o che sia solo pensiero, o ancora che sia prodotta dagli dei (riflessi, ombre, sogni) è sempre un chiamare in presenza qualcosa che è assente. Così sono i ricordi e le raffigurazioni pittoriche, o le immagini che ci mandano gli dei, nelle quali ciò è ancora più evidente perché tali figure (eidolon) non sono solo simili a ciò di cui sono l’immagine, ma ne richiamano anche l’essenza, con la voce, con le parole, con i gesti; sono, in qualche modo, una loro presenza, anche se nel momento in cui Achille cerca di abbracciare Patroclo, quello stesso Patroclo che pure gli sta parlando – non ci riesce, essendo egli contemporaneamente presente ma assente, in quanto morto.
Ogni immagine è sempre copia, riproduzione di qualcosa che esiste, differenza. Essa istituisce sempre una distanza.  Per riprodurre l’ampiezza del reale infatti abbiamo necessità di effettuare una sintesi a posteriori delle immagini parziali, cioè dei frammenti dello spazio che ci sta davanti, che riceviamo in continuazione attraverso l’apertura dell’occhio. Per questo il vedere è sempre una elaborazione mentale, ed essendo la mente il risultato di una formazione culturale, il vedere è sempre una operazione culturale e dunque, nell’atto stesso, interpretativa.
A differenza degli altri sensi, che sono im-mediati, nel senso che non richiedono una mediazione, un processo di elaborazione, ma vengono percepiti per via diretta (odore, suono, tatto),  la visione è una attività di sintesi che presuppone la necessità di una analisi preventiva. Il sostrato culturale che costituisce la mente, cioè che è la mente elaborativa,  interviene in entrambe le fasi, selezionando (su una base culturale) le immagini che faranno parte della sintesi, e sintetizzandole, appunto, secondo uno schema precostituito in modo da ottenere un risultato aspettato, cioè che si inserisce nell’ambito delle esperienze catalogate e quindi gestibili. Quando diciamo che vediamo solo ciò che vogliamo vedere, o sentiamo – per analogia – solo quello che vogliamo sentire, diciamo esattamente questo.
Non si può distinguere l’occhio, lo strumento ottico, dal cervello, lo strumento interpretativo. Dunque il senso vero non è “la vista”, ma “la visione”, cioè la capacità di ricostruire in tempo reale sinteticamente e artificialmente ciò che ci sta davanti.
Per questo l’atto del vedere, che in virtù della prevalenza che ha acquisito tra le attività dell’essere, anche per causa delle protesi tecnologiche, è ormai l’atto stesso del vivere, cioè dell’essere in vita, si costituisce, nel momento stesso in cui si pone in essere, come alienazione, distacco, duplicazione, presa di distanza dal reale, cioè da quello che veramente esiste.
E, coincidendo quindi  la visione con l’essenza stessa dell’essere, ne discende che la vita è, nel suo costituirsi come principium individuationis, qualcosa che viene a mancare. Segno/immagine, essa stessa, di un’assenza.

23.11.21
M. Ficino – Treccani
Nella sua massima opera, la Teologia Platonica, egli tentò di svolgere il suo concetto fondamentale dell’identità perfetta della filosofia con la religione. Il problema dell’infinito e del finito fu per lui, come per il Cusano,  il problema principale della religione e quindi della filosofia. Egli notava che l’uomo non differisce dagli animali se non per la religione. Ma la religione è lo stesso infinito che è in noi. Questo concetto importa la divinizzazione dell’uomo, ma nel senso che non è Dio che deifica l’uomo, bensì è l’uomo che si deifica. Di qui la rappresentazione dell’anima razionale come l’unità di finito e di infinito, di eterno e di temporale. “Le cose che sono sopra l’anima razionale sono solamente eterne; quelle che sono sotto lei sono solamente temporali; e l’anima razionale è parte eterna, parte temporale. Quest’anima imita Iddio con l’unità, gli Angeli con l’intelletto, la specie propria con la ragione,  gli animali bruti col senso, le piante col nutrimento,  le cose che mancano di vita con l’essere.  E’ adunque l’anima dell’uomo in un certo modo tutte le cose”.
Da cui deriva quell’altro concetto ardito che Dio non per altro fine diventò uomo, se non perché l’uomo “qualche volta, in qualche modo, diventasse  Dio”. Per F. la conoscenza di noi stessi importa la conoscenza del divino che è in noi. Per questa autocoscienza noi non solo intendiamo noi stessi, ma anche  le altre cose e Dio stesso.
Ma se l’uomo è il compendio di tutto l’universo, è naturale che egli cerchi di diventare tutto, e di comprendere ed esperimentare in sé tutte le vite, e se si sforza di diventare Dio egli è progresso infinito.

F. parla di tre guide della nostra vita: la ragione, l’esperienza e l’autorità, ma in coclusione l’unica guida, a cui si riducono le altre due, è l’esperienza. Ma l’amore si celebra in grado eminente nella scienza divina che è la filosofia,perché solo il filosofo possiede una mente divina.
La creatività umana per F. consiste nel fatto che  la mente dell’uomo, quando attinge qualche vero, non vede, ma fa il vero,  come Dio stesso, e allora la mente che possiede l’idea diviene la stessa verità di quella cosa che per una siffatta idea è stata creata.
In Dio sono le forme sostanziali,  che costituiscono gli esemplari e  le cause di tutte le cose, ma Dio,  intendendo e volendo se stesso, sa e crea tutte le cose.

25.11.21
Il presente sono i miei pensieri. E lo sono (presente) anche quelli pensati in passato e annotati. Leggendoli ridiventano presente. Questa è la prova semplice del fatto che il tempo non esiste, o meglio, che non esiste differenza tra passato e presente, e per conseguenza neanche tra presente e futuro. Essendo i miei pensieri di ieri, riletti e ripensati oggi, presente a tutti gli effetti, e presente di domani, cioè futuro.

26.11.21
Holderlin 1
La giovinezza di H
., 1795
contemporaneo alla “Stesura metrica” che in esso rifluisce.

p. 223
Nei primi anni dell’età adulta (2)  quando l’uomo si è affrancato del felice istinto ed è iniziato il dominio dello spirito, egli non è in genere molto incline a tributare sacrifici alle grazie.
(…) Prendevo tutto con uno scetticismo assoluto che isteriliva in me  ogni germe di amore.
(…) Ovunque davo battaglia all’irrazionale, più per senso di superiorità che per  infondere alle forze disordinate che muovono il petto dell’uomo quella bella unità  di cui esse sono capaci.
(…) Avevo perso quasi del tutto la capacità di cogliere le lievi melodie della vita, le piccole gioie infantili e domestiche.
Un tempo Omero aveva conquistato il mio giovane cuore; ora rinnegavo anche lui e i suoi dei. (6: come già nelle redazioni precedenti, la lettura intensiva di Omero caratterizza una fase della vita del narratore, contraddistinta dal sentirsi parte della natura.)

p. 224
Dopo un po’ mi chiese cosa pensassi degli uomini incontrati durante le mie peregrinazioni. “Più bestiali che divini” replicai brusco e severo com’ero. “Oh, se solo fossero umani!” rispose lui con serietà e affetto.  Lo pregai di spiegarsi.
“ E’ vero” iniziò allora “la misura con cui lo spirito dell’uomo giudica le cose è sconfinata, e così deve essere! Dobbiamo custodire puro e sacro l’ideale di tutto il visibile, e il nostro impulso di plasmare secondo il divino che è in noi ciò che è informe (il divino che è in noi – Ficino, Bruno), a sottomettere allo spirito che domina in noi la Natura che gli si oppone, quest’impulso mai deve appagarsi a metà del cammino; eppure, quanto più faticosa è la lotta, tanto più bisogna temere che il combattente ferito getti via indignato le armi divine,  si consegni prigioniero al destino, rinneghi la ragione e si trasformi in un animale, o ancora, esacerbato dal contrasto, devasti quel che occorrerebbe proteggere, distrugga ciò che è pacifico insieme a ciò che è ostile, combatta la Natura per puro desiderio di lotta e non per volontà di pace, rinneghi la sua umanità, annienti ogni bisogno innocente che lo univa ad altri spiriti. Ah! Che il mondo intorno a lui diventi un deserto  ed egli cada in rovina nella solitudine pià cupa.”
(Profezia di se stesso! Questo è esattamente quello che gli accadrà nel breve volgere di dieci anni. Infondo la sua follia, come quella di Nietzsche non è stata altro che un “consegnarsi progioniero ad destino”).

(Vedi Il facitore de le forme)

Fui colpito; anch’egli sembrava turbato.
“Non possiamo negarlo” riprese con tono nuovamente sereno, “nella stessa lotta con la Natura contiamo sulla sua docilità. E perché non dovremmo? Il nostro spirito non incontra forse uno spirito benevolo e fraterno in tutto ciò che esiste? E quello che si rivolge contro di noi in armi, non è un buon maestro, celato dietro lo scudo? (…) La bellezza ha un senso nascosto. Sappi decifrare per te il suo sorriso! Giacché così si manifesta al nostro spirito quello spirito eterno che mai lo abbandona. In ciò che è più piccolo si rivela il massimo. Il perfetto archetipo dell’armonia lo incontriamo nei sereni moti del cuore, si manifesta qui, in presenza di questo fanciullo. – Non hai mai sentito sussurrare le melodie del destino? – Le sue dissonanze

(11: come le “melodie”, anche le “dissonanze del destino (l’incontro della soggettività con la natura e con la storia) rivelano un senso compiuto dell’esistenza. Sulla metafora musicale,  che avrà un ruolo di primo piano nell’edizione a stampa del romanzo, cfr. la not 5 alla sua Prefazione)

significano lo stesso.
(nota 5 alla Prefazione, pag. 1315:
A partire dal 400 i trattati di armonia musicale prescrivono regole precise per le dissonanze, che devono essere “preparate”  e poi “risolte” all’interno della composizione. Se infatti la dissonanza è un rapporto non armonico tra due suoni – a prescindere dai criteri, storicamente variabili,  che definiscono quando due suoni possono dirsi o meno consonanti –  la musica ne può fare uso, purché tale dissonanza sia  soltanto momentanea. Nel Settecento la dissonanza, come era per esempio considerato ancora un accordo di settima,  è così usata come un effetto particolarmente indicato a vivacizzare la composizione. Quando dunque H.  parla di “risoluzione delle dissonanze (Auflosung der Dissonanzen) si serve, sia pure metaforicamente, di una precisa nozione di teoria musicale. Nel suo grande compendio di estetica Sulzer dedica per esempio alla Auflosung una intera voce, considerando “la risoluzione delle dissonanze” nella musica un caso specifico di un problema  estetico generale,  che è quello della struttura stessa delle opere d’arte: “la risoluzione ha fondamentalmente il compito di ristabilire la libertà e l’ordine dopo una precedente complicazione”.  Il piacere estetico scaturisce infatti per Sulzer quando l’attenzione del fruitore è tenuta viva da un conflitto, necessario per superare quegli impedimenti che si frappongono al raggiungimento di un ordine. Non l’armonia in sé,  ma l’armonia che “risolve” una disarmonia suscita godimento.)


(…) Lo so, è il bisogno che ci spinge ad attribuire alla Natura perennemente mutevole un’affinità con ciò che in noi è immortale. (…) E sul limite del finito che si fonda la fede; (non sulla ragione) per questo essa è comune a tutto quanto sa di aver fine.
(…)
Quando il nostro spirito si smarrì nel suo libero volo divino e dall’etere discese in terra, quando l’abbondanza si unì col bisogno, vi fu l’amore. Questo accadde nel giorno in cui nacque Afrodite. In quel giorno, quando ebbe origine per noi la bellezza del mondo, iniziò anche la povertà della vita. Se fossimo stati un tempo privi di qualsiasi mancanza e liberi da ogni limite, certo non sarebbe stata vana le perdita del bastare a se stessi, privilegio dei puri spiriti. Noi abbiamo barattato il sentimento della vita, la lucida coscienza, con la serenità imperturbabile degli dei.
(nota: la nascita dell’amore, ovvero del desiderio, spinge l’uomo a ricercare qualcosa fuori di sé, ma lo porta anche a confrontarsi con i propri limiti. In quanto sacrificio dell’essere sufficienti a se stessi, condizione equiparabile alla “serenità imperturbabile” degli dei, il desiderio è dunque doloroso.)
Cerca di immaginare lo spirito puro, se ci riesci! Dal momento che non si interessa della materia, per lui non esiste alcun mondo, né sorge e tramonta alcun sole;  egli è tutto, e perciò non è niente per sé. Non sente la mancanza di nulla perché non può desiderare; non soffre perché non vive.  (…) Dunque, noi percepiamo le barriere del nostro essere, e la nostra forza soffocata si rivolta smaniosa contro le sue catene, lo spirito brama di tornare nella limpidezza dell’etere. Pure vi è in noi qualcosa che ci fa sopportare volentieri le catene; se infatti lo spirito non fosse ostacolato da nessun limite non avremmo percezione né di noi né degli altri. Ma non percepire se stessi è la morte.  La miseria del finito è indissolubilmente congiunta in noi  con l’abbondanza del divino.
(verificare la traduzione della parola “abbondanza”, che non pare appropriata. Meglio, per esempio, “ricchezza”).
Non potremo mai negare il nostro impulso a espanderci, a liberarci, sarebbe bestiale. Ma neppure possiamo sottrarci sdegnosamente all’impulso di ricevere, di accettare dei limiti. Non sarebbe umano, uccideremmo noi stessi. Il conflitto tra impulsi, che nessuno può evitare, si concilia in Amore, figlio di Abbondanza e Bisogno. L’Amore tende continuamente al sommo, all’eccelso, volge il suo sguardo in alto, la sua meta è la perfezione poiché sua madre, l’Abbondanza, è di stirpe divina. Eppure raccoglie anche le bacche dai rovi,  e le spighe dal campo di stoppie della vita,  e se in una giornata afosa una creatura benevola gli offre da bere non rifiuta la brocca di coccio, poiché suo padre è il Bisogno. (…)
Se la verità che hai dentro di te ti viene incontro sotto forma di bellezza accoglila con riconoscenza, poiché hai bisogno dell’aiuto della natura.

(Qui H. dichiara la sua visione del divenire, che è quella originaria di Eraclito, dell’unità dei contrasti in una entità che da questa unità (come processo) è costituita.)

(nota: riferimento a Gli artisti, di Shiller; Nei versi di S. però l’incontro con la bellezza precede, gettandone le basi, la conoscenza del vero. “Ciò che qui percepimmo come bellezza/ ci verrà incontro un giorno come verità).
(…) Nel suo dolore abbandona ciò che ama, si affeziona a una cosa o a un’altra della vita,  il più delle volte senza neppure scegliere, sempre pieno di speranza e ogni volta deluso;  spesso torna anche nel suo mondo di idee, o ritrova con amaro pentimento quella ricchezza con cui una volta glorificava il mondo, s’insuperbisce, e allora prova solo odio e disprezzo;  spesso il dolore della prima delusione lo annienta, allora l’uomo va errando senza casa, stanco e senza speranze, sembra tranquillo soltanto perché non vive più.
(…) Questa è la grandezza dell’uomo, che nulla gli basta in eterno.  Essa si palesa nell’insufficenza della tua forza. (…) Per noi è impossibile avere coscienza di ciò che è senza imperfezione, così  come è impossibile crearlo.
(…) Tu porti in te il seme dell’infinito! Preservalo nella miseria della vita!
… La Natura non vuole neanche che  dinanzi alle sue tempeste ci si rifugi nel regno dei pensieri,  lieti di smemorarci della realtà nel silenzioso regno del possibile.
(…) Appagata si mantiene sempre la Natura al sicuro nei suoi limiti: la pianta rimane fedele alla madre terra,  l’uccello costruisce la sua casa tra i rami oscuri e si nutre delle bacche che vi trova; appagata è la Natura,  e la semplicità della sua vita non si disperde mai, poiché essa non muove pretese  al di sopra della sua povertà. Appagato nella sua eterna pienezza è lo spirito, privo di ogni difetto, e nella perfezione non vi è alcun mutamento. L’uomo invece non è mai appagato. Poiché egli brama la ricchezza della divinità, mentre deve nutrirsi della  povertà della Natura. Non maledire se l’animo mai pago passa frettolosamente da una cosa all’altra nel mondo sensibile! Esso spera di trovare l’infinito: il torrente vaga attraverso i rovi in cerca del padre Oceano. Non maledire neppure se lo spirito dell’uomo, dimentico di se stesso, si smarrisce oltre i suoi confini nel labirinto dell’inconoscibile,  e si solleva temerario oltre il finito. Ha sete  di realizzarsi. I torrenti indomiti non strariperebbero dalle loro sponde se non li gonfiassero le acque del cielo.”

In questo passo Holderlin riprende quali letteralmente un passo di Pico della Mirandola, già citato da Bloch (vedi):
“Gli animali traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro,  e gli spiriti superiori sono fin dal principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili forme di vita”. A conferma di quanto scrive Bloch stesso sull’influenza degli umanisti sulla filosofia del tardo settecento in Germania.
Evidente inoltre il riferimento al “folle volo” dell’Ulisse dantesco.

p. 232
Tu vedi cosa ti sta dinnanzi. Ma non ti lasciar confondere! Guarda il lume del cielo! Ha forse bisogno d’un fuoco esterno per brillare e riscaldare? Ha bisogno di ringraziamento per fare del bene?  Se la terra è rannuvolata di foschia e non accoglie i suoi limpidi raggi, è forse più debole la sua luminosità? Sii così anche tu.  Pensa e agisci come devi, senza guardarti intorno

; e quando nel tuo retto cammino senti alle spalle il biasimo meschino della gente meschina, allora immagina davvero quel povero persiano che fece frustare l’Oceano disubbidiente! Diventare come quegli uomini magnifici che vivevano un tempo è il tuo pensiero più caro. Preservalo! Non ti scoraggiare. Non ti accontentare mai a metà strada! Non ti soffermare sulle miserie! Conserva la calma e aspetta finchè giungerà il tuo tempo!  Vivi in comunione con i tuoi eroi! Difficilmente ne troverai presto di simili tra i vivi. Abbi cura di te giovane anima! Tu appartieni a un altro mondo. Non occuparti troppo di quello in cui vivi, fino a quando non giungerà il tuo tempo e potrai agire. Nutri il tuo cuore con la storia dei giorni migliori, non cercare nulla tra quelli del presente! Quel poco che essi possono darti non è, almeno ora, niente per te.


27.11.21
G. De Ruggiero
Platone, p. 291
3. Avviamento alla dialettica.
(rif. al divenire, come movimento del pensiero)

Per P. la dialettica è l’aspetto formale dell’attività del filosofare, cioè il procedimento euristico delle dottrine filosofiche.
( Treccani:
procedimento euristico: 
nei diversi settori della matematica, locuzione che indica genericamente la ricerca della soluzione di un problema o la scoperta di una proprietà attraverso tentativi, che non sono tuttavia del tutto ingenui o casuali, ma sono mirati e si avvalgono delle conoscenze pregresse del ricercatore in materia ( euristica).
eurìstico agg. [der. del gr. εὑρίσκω «trovare, scoprire»] (pl. m. –ci). – Nel linguaggio scient., detto di ipotesi che viene assunta precipuamente come idea direttrice nella ricerca dei fatti, e del metodo stesso di ricerca così condotta: mezzo e., in senso lato, mezzo di ricerca. In partic., in matematica, procedimento e., qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.).

Quando P. dice nel Sofista che pensiero e discorso sono la stessa cosa, con la sola differenza che il dialogo interiore dell’anima con se stessa, senza voce, si chiama pensiero, mentre ciò che dal pensiero si comunica nella voce si chiama discorso, egli definisce, senza nominarla, la dialettica come l’attività discorsiva della mente.
Se l’uomo avessa la capacità di intuire immediatamente e nella sua purezza il vero,  senza il grave lavoro di discernerlo a poco a poco dalla massa delle falsità e delle apparenze, non vi sarebbe alcuna attività dialettica, ma un’apprensione  diretta del pensiero, una conquista di preziosi risultati senza l’onere delle ricerche.
(collegamento con il ragionamento sulla differenza tra vista/visione e gli altri sensi: la ricerca continua potrebbe solo essere lavoro di unione dei frammenti percepiti dalla vista).
Ma l’organismo  dello spirito umano è tale, che pensiero è tutt’uno con discorso,  cioè graduale apprendimento del vero, lavoro assiduo d’indagine e di cernita.
(necessario per la limititatezza dello strumento ottico)
Il pensiero ha sempre presente il suo nemico: il falso, l’apparente, l’irreale; epperò gl’incombe il compito di discutere e vagliare continuamente la sua opera, (…) Di qui il carattere ritmico della sua attività, che è un andare e riandare, un progredire e un riflettersi, un affermare e un negare, come momento di una più fondata affermazione.
Questo vale a spiegarci la struttura dialogica delle opere di Platone, nelle quali l’intimo colloquio dell’anima con se stessa, cioè il pensiero, si estrinseca – e si dà forma –  del dialogo, nell’evidenza dei discorsi.

Se l’attività discorsiva della mente ha il suo valore in ciò, che il pensiero non ha il possesso immediato della verità, ma deve faticosamente ricercarla, se ne deduce che filosofo non è il beato possessore della sapienza: nessuno filosofa tra gli dei, cioè tra coloro a cui si palesa la verità nella sua immediatezza.
(dunque gli dei, per restare al discorso di sopra, sono solo entità che vedeno come sentono, come odorano, come toccano; cioè la loro vista è omnicomprendente, tal che non richiede l’elaborazione di immagini frammentarie, come avviene per l’uomo. Essi vedono tutto insieme e completamente, e dunque sanno che tutto quello che vedono è il tutto, dunque è vero, perché se fosse falso non sarebbe il tutto, ma solo una parte.)
Così come per ragioni opposte nessuno filosofa tra gli ignoranti.
Il filosofo quindi è un essere intermedio tra sapiente e ignorante, a cui l’ignoranza dà la spinta alla ricerca, e la sapienza la meta, l’indirizzo al suo movinento. Questa medietas è la causa della sua attività: essa è la sua irrequietazza,  quella divina irrequietezza che lo fa scontento del sapere che possiede e sempre bisognoso di nuovo sapere e della più perfetta (possibile) adeguazione del proprio essere all’ideale della sapienza, che è la meta mai raggiunta dei suoi sforzi.
(collegamento con i limiti di Holderlin)
…  Ora, qual è il carattere di quella identità, che vince il contrasto delle opinioni, componendole in un tutto? Essa è relazione, riferimento dei contrari uno all’altro, unificazione mentale della loro pluralità. Quindi è essenzialmente concetto.

29.11.21 Relazione.
L’obiettivo dunque è definire la nostra vera forma, diversa da quella apparente che abbiamo costruito, e simile a quei giganti che Proust aveva vista nelle ultima pagine della sua vita. Esseri smisurati, con i piedi nel passato e la testa nel futuro.
Noi possiamo essere consapevoli della nostra vera forma, cioè di quella forma che ci consente di essere presenti sia nel presente che nel passato, solo attraverso la memoria involontaria (Proust, Bergson, Pavese…) o anche per mezzo dell’arte (io). Più specificamente attraverso la musica e i suoi derivati (poesia, architettura). Perché la musica è un tempo  di natura differente. Il tempo ordinario istituisce una successione, un andare sempre avanti superando ciò che si è appena raggiunto. La musica (la poesia, l’architettura) istituisce, E’, un tempo circolare, un tempo che torna da dove era partito, cioè un tempo in cui ciò che si muove torna da dove si era mosso, e in questo modo tiene insieme tutto, tutto lega, leghein.
Il divenire  dunque non è l’andare oltre i propri limiti, il farsi dio, l’elevarsi, ma è, nel suo significato originario, come Eraclito l’aveva intuito e Holderlin l’aveva codificato, la “tensione retrograda”,  l’essere spinto indietro mentre si va avanti, l’essere dentro e fuori, soggetto e oggetto, uno e tutto; cioè il compiere due movimenti opposti nel medesimo tempo, essere e vivere due stati diversi dell’essere nel medesmo tempo.
Più precisamente, il divenire inteso come tempo circolare è l’espediente che utilizziamo per sopperire alla nostra incapacità di concepire la compresenza di stati, movimenti opposti, che è la vera forma in cui esiste il reale, e dunque esistiamo anche noi.
Dunque la nostra vera essenza non esiste sul piano materiale, nella dimensione della materia e della necessità, che è il mondo rappresentato; ma esiste solo nella dimensione parallella che instauriamo nel momento stesso in cui, concependo noi stessi, instauriamo una distanza tra noi e l’oggetto dando vità alla rappresentazione della realtà e creando allo stesso tempo un interno nel quale ci rifugiamo. Cioè il mondo in cui vive colui che rappresenta, colui che compie l’azione di rappresentare, cioè di esistere.

1.12.21
Il Tutto è necessariamente vero, perché se contenesse qualcosa di falso non potrebbe essere tutto, mancando sempre il vero.
E se non fosse vero significa che dovrebbe esistere qualcosa oltre al tutto che sia vero, il che è impossibile.
Che il tutto sia vero significa che  vero è solo il tutto. Cioè che non può esistere una verità parziale, ma solo la verità per sé di una parte, che è non-verità per il tutto.
Significa cioè che una parte non può conoscere il vero, ma solo chi può percepire e comprendere il tutto può conoscere il vero.
Ma il vero non è qualcosa di misterioso, o qualcosa che salva.
E’ solo la somma di ogni non-verità parziale. La somma delle necessità di tutto ciò che esiste, perche la verità non-verità di ogni cosa non è che la sua necessità.
Se consideriamo l’essere come un Tutto, cioe per quella molteplicità di aspetti quale in effetti è,  risulta per analogia che la verità di ogni singolo aspetto dell’ essere (cioè la percezione della realtà che ha quel singolo aspetto) è una non-verità, corrispondente alla necessità di quel singolo aspetto. Esiste cioè la realtà dell’aspetto triste, la realtà dell’aspetto felice, di quello che ha fretta, di quello contemplativo, di quello che ha mal di stomaco, e sono tutte verità parziali, cioè verità di una parte, dunque non-verità, nel senso che sono tutte verità una diversa dall’altra, il che è una cosa che non si può dire, essendo la verità necessariamente  una. E dunque  questa verità, cioè la percezione della realtà come essa è veramente, non può che essere la somma  delle non-verità di ogni singolo aspetto che siamo. Il che significa che la verità, cioè la realtà, non è per noi accessibile, non essendo in grado noi, per l’ordinario, di avere coscienza unitaria della molteplicità dei nostri stessi aspetti. L’unica verità cui possiamo aspirare è una non-verità parziale, diversa per ogni nostro singolo aspetto.
Questo è anche il motivo per cui siamo portati a cercare – e spesso ahimè, a trovare – la verità fuori di noi.

3.12.21
E dunque ci voleva il vecchio prof. De Ruggiero per farmi capire Eraclito e Parmenide. La catastrofe italiana del dopoguerra è ben rappresentata dal successo editoriale e scolastico dell’Abbagnano. Uno dei pochi libri – tanti, in verità – di cui si può con certezza affermare che dopo averlo letto se ne sa meno di quanto se ne sapesse prima.

Rispetto a Eraclito: con una semplicità quasi disarmante De Ruggiero spiega il punto fondamentale del suo pensiero, che è l’originale intuizione del divenire, travisata da Platone in poi e tale rimasta: il divenire è l’unità dei contrari, che ineriscono un unico essere – non la loro identità – che non significa nulla!
E’ ovvio che l’idea del divenire fondata sulla identità dei contrari è una idea balorda: chi può accettare e condividere il fatto che la notte e il giorno siano la stessa cosa! Nessuno sano di mente.
Ma Eraclito non diceva questo. La sua originale intuizione è stata travisata con lo scopo preciso di renderla irrazionale, folle, insensata. Allo scopo di instaurare quella visione teleologica della vita necessaria al mantenimento dei privilegi di classe.
L’idea di Eraclito era  cosa completamente diversa:  la notte e il giorno sono (da contrari, cioè differenti) uniti in un essere solo e unico; fanno parte di un unico essere  (che è il giorno). Come il vecchio e il giovane, come il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente. Sono aspetti di un unico essere.
Così anche la forma della vita cambia, diventando essa quell’essere in cui il passato e il presente coesistono. Questa è la declinazione corretta del divenire, e in questa declinazione la permanenza del passato appare del tutto “naturale”.
De Ruggiero:
“Unità dei contrari, non identità di essi, e, tanto meno, dei contratìddittori: tale è il senso e il limite della dialettica eraclitea. Nota: la confusione è stata fatta da Hegel, che prendendo alla lettera alcune parole di Eraclito, ha identificato la dialettica eraclitea con la propria”.
Scrive Colli nella presentazione della sua edizione di Eraclito:
“Tutto il pensiero che viene dopo (i presocratici) dipende in qualche modo dal pensiero di quei sapienti. Sarebbe però un errore voler recuperare la sapienza greca attraverso quel che ne ha detto la filosofia posteriore: riguardo a tali parole arcaiche, molte opinioni  ancor oggi autorevoli – ma del tutto fuorvianti – derivano dalle falsificazioni aristoteliche di quel pensiero, magari riprese ed elaborate dalla storiografia hegeliana”.

Tale falsificazione ha consentito l’affermazione dell’idea del divenire come successione degli stati dell’ente, e l’instaurazione di un tempo lineare al posto del tempo circolare che scaturiva dall’idea originaria. E il conseguente potere di gestione del futuro, cioè del destino delle anime (Bloch).
Questa è la pietra falsa su cui è stata fondata la Chiesa, cioè l’Occidente.

4.12.21

Holderlin
Lettera al fratello, 17/4/1795
(…)
Vedo che avrei da dire molte cose ancora, ma mi interrompo, perché vorrei comunicarTi inoltre, per quanto sia possibile in poche parole, una delle peculiarità principali della filosofia fichtiana.
“C’è nell’uomo un tendere verso l’infinito, una attività che gli rende impossibile ogni confine come confine perenne,  impossibile ogni stasi,  e cerca invece di farsi sempre più ampia, libera e indipendente: questa attività, per suo impulso infinita, è limitata;  l’attività illimitata, per suo impulso infinita, è necessaria nella natura di un essere che abbia coscienza (di un Io, come Fichte si esprime),  ma anche la limitazione di questa attività è necessaria in un essere che abbia coscienza,  perché se l’attività non fosse limitata, se non fosse imperfetta, quell’attività sarebbe tutto,  e fuori di lei non sarebbe nulla, se dunque la nostra attività non incontrasse resistenza dall’esterno,  fuori di noi non sarebbe nulla, non sapremmo di nulla, non avremmo coscienza; se nulla ci fosse contro, non ci sarebbe per noi oggetto;  ma così come alla coscienza sono necessarie la limitazione, la resistenza e il dolore causato dalla resistenza, altrettanto necessario è il tendere verso l’infinito, un’attività, per impulso sconfinata,  nell’essere che abbia coscienza, perché se non tendessimo a essere infiniti liberi da ogni limite,  non sentiremmo neppure che quaklcosa si oppone a quel tendere, dunque di nuovo non sentiremmo nulla di diverso da noi, non sapremmo nulla, non avremmo coscienza”.  – Ho cercato di essere più chiaro possibile, nella brevità con cui ho dovuto esprimermi.
(nota: non si tratta di una citazione letterale, ma di  un riassunto della terza parte della Dottrina della scienza che era stata pubblicata solo agli  inizi di Aprile di quell’anno).

4.12.21
12.12.21 integrazioni.

Materiali sul divenire
ERACLITO


De Ruggiero
pag. 112

Eraclito è il creatore della dialettica greca, come esemplificazione  di una legge di contrasto e di armonia che domina tutta la realtà.
Da questo puto di vista si spiega il suo disprezzo pere tutto il sapere precedente che, a suo giudizio, vagava sulla suerficie delle cose senza penetrarne l’intimo sifnificato.
“La polimatia, cioè l’avere conoscenza di molte cose,  non insegna a ragionare. Altrimenti l’avrebbe insegnato a Esiodo, a Pitagora, a Senofonte e a Ecateo”.
La sua dialettica ricerca l’accordo nei contrasti, l’unità nel vario, la permanenza nel mutamento. Il tratto specifico della sua filosofia è proprio nella determinazione che il divenire si svolge tra i contrari e si alimenta nella loro lotta incessante.

La guerra (ma si può dire: l’azione di contrasto) è madre, regina e principio di tutte le cose. Una continua vicissitudine di vita e di morte forma il ritmo della realtà: il fuoco vive della morte della terra, l’aria della morte del fuoco, l’acqua della morte dell’aria, la terra della morte dell’acqua.

(Assunto fondamentale: assumiamo che i sapienti parlassero per metafore. Cosa plausibilssima e anzi evidente in tantissimi casi. Fuori dalla metafora quindi il passo precedente può essere letto in questo modo:
“Una continua vicissitudine di forze tra loro contrastanti  forma il ritmo della realtà”. Ma questa vicissitudine di forze contrastanti è tale – cioè istituisce un ritmo – solo ai nostri occhi,  solo cioè agli occhi di chi può cogliere, a causa dei propri limiti, la complessità e pluralità di relazioni che compongono il reale attraverso la griglia interpretativa causa-effetto. Cioè agli occhi dichinon può cogliere la sua reale essenza, la sua sostanziale unità nella permanenza.
L’unità della permanenza è esattamente ciò che esiste, e che possdiamo solo vedere  come pluralità nel divenire.)

Questa azione contrastante ha la sua radice nella opposizione qualitativa che è negli esseri: fuoco e acqua,  tenebre e luce, giorno e notte, inverno e estate, abbondanza e penuria, sveglio e dormiente, giovane e vecchio, umido e secco, sano e malato, unisono e dissono, essere e non essere; queste e infinite altre coppie di opposti presenta la realtà, nella sua spontanea polarizzazione.

Ma la contrarietà non basterebbe per sé sola a determinare il conflitto, se i contrari, in forza della loro natura, tendessero a distaccarsi l’uno dall’altro e a vivere isolati; bisogna dunque aggiungere alla contrarietà l’unità e la comunanza di natura, che avvicini i contrari e li spinga l’uno contro l’altro. (Fr 76). E questo in realtà si osserva nel mondo. Giorno e notte sono una e medesima cosa cioè uno stesso essere che ora è chiaro, ora è oscuro.

Uno e identico è il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente,  il giovane e il vecchio, in quanto che nel suo muoversi l’uno divien l’altro, e l’altro a sua volta l’uno. Bisogna però notare che, nei citati frammenti,  le espressioni verbali sorpassano la portata del pensiero che vi è racchiuso. Eraclito sembra affermare l’identità dei contrari, ma, di fatto, egli ne afferma solo l’unità. Giorno e notte, giovane e vecchio, non sono per lui la stessa cosa, ma cose opposte; e non si convertono uno nell’altro, bensì ineriscono nello stesso essere, creando per questo il contrasto (essendo cose opposte).
L’unità è nell’ente da cui si diramano e di cui ognuno vorrebbe essere espressione unica e totale; per esempio, nella vita, che è gioventù e vecchiezza, e diviene teatro del contrasto tra le due forze che tentano di sopraffarsi a Vicenza.
Unità dei contrari, non identità di essi, e tantomeno dei contraddittori (nota: la confusione è stata fatta da Hegel, che prendendo alla lettera alcune parole di Eraclito, ha identificato la dialettica eraclitea con la propria).

Tutto ciò che nel mondo avviene, si fa per tensioni opposte, come nella lira e nell’arco; v’è dunque un’intima concordia nell’apparente discordia, un’armonia segreta che vince la disarminia dei contrasti.  (fr 8). 
In ultima istanza, c’è una razionalità intima delle cose, che si dissimula alla vista ma si attua nel profondo, perché “la natura ama celarsi”.

(Tale armonia è appunto l’unità dell’essere, che si rivela nell’unità dei contrasti, vivo-morto, giorno-notte. Ma Eraclito non può che risolvere questa unità attraverso uno spostamento temporale, inventando appunto il divenire.  Dice infatti che giorno e notte sono una e medesima cosa, cioè uno stesso essere che ora è chiaro e ora è scuro; Ma questo essere quando è chiaro non può essere scuro, e quando è scuro non può essere chiaro. L’unità dunque non è instrinsera ma esteriore. E’ cioè un essere unitario ma formato da due parti distinte. Altra cosa è l’essere che, essendo unità intrinseca, è chiaro e scuro, giorno e notte nello stesso tempo. Solo questo è uno, e questa è la forma della realtà vera, che, come è evidente non possiamo concepire sulla base degli strumenti interpretativi che abbiamo fin qui utilizzato.)


Noi ci lasciamo colpire dalla parvenze esterne,  secondo le quali la lotta è sempre distruzione e dissipazione di forze, e immaginiamo come uno stato felice il dominio incontrastato del solo termine positivo: una giustizia senza ingiustizia, una verità senza errore ecc. Ma se questo stato potesse realizzarsi esse sarebbero soggetto a inerzia e a dissipazione; ciò che le alimenta è l’antitesi, che continuamente rinasce, dell’ingiustizia, dell’errore ecc.  E’ proprio qui la razionalità che si cela nella più riposta natura degli esseri, e che Eraclito eleva a dignità di Dio e di Logo.
(vedi Holderlin, Giovinezza di Hyperion, lettera 89 sulla filosofia di Fichte ecc.)
E’ una realtà sola infatti, uno stesso Dio, che accoglie in sé i contrari ed esprime la loro identica natura e insieme la ragione della lotta.

(Qui si rivela il limite del ragionamento. Dire che se non ci fossa una controparte negativa non potrebbe esistere la parte positiva, che si costituisce come soggetto in opposizione a un oggetto; dire cioè che un soggetto può darsi solo in opposizione ad un oggetto significa operare una scissione dell’essere necessaria ma arbitraria. Necessaria per l’impossibilità di affermare il principio di costraddizione che costraddistingue l’essenza del reale, cioè che A=B, perché A e B sono intrinsecamente uniti; ma arbitraria appunto perché non vera, cioè non esistente nella realtà, ma solo nella realtà interpretata.)

La genialità di Eraclito si rivela in questa intuizione profonda dell’uno nei più, dell’essere nel divenire, e nel presentimento del significato razionale e mentale di questa unità e realtà. La legge non ha la stabilità inerte e sterile di una natura materiale;  essa è un rapporto tra le cose, è un ordine, una proporzione, una armonia; quindi ha una realtà d’ordine  ideale e mentale.
(Collegamento con l’Umanesimo e il Rinascimento)
La sua stabilità è quella di un pensiero eterno che domina il mondo; in virtù di essa, un raggio dell’intelligenza brilla nella natura, e la vita delle creature ha un significato divino.

(Quello che De Ruggiero non coglie è quindi il carattere fittizzio di questa unità, che è appunto unione di parti distinte, ma non unione intrinseca, in un unico essere, cioà in un unica sostanza, di stati differenti.)

6.12.21 Relazione
segue la relazione del 29 11.
Il divenire – cioè il mutamento di stato di un ente – è lo schema interpretativo che utilizziamo per interfacciarci con la realtà. Realtà – questa è la tesi – che è costituita dalla compresenza di diversi stati dell’ente, che solo per nostra difficoltà  si manifestano in successione, cioè in divenire.
La realtà è in permanenza pluralità di aspetti dell’essere che noi possiamo cogliere solo instaurando tra gli stessi aspetti una successione.
Semplificando: non possiamo vedere una persona triste e felice nel medesimo istante. Dunque la vedremo cambiare, e da triste che era la vedremo diventare felice. Ma in realtà quella persona è sempre triste e felice nello stesso tempo, nel senso che è quell’essere che è triste e felice. (vedi appendice del 10.12.21)
Noi non possiamo concepire la possibilità di compiere due movimenti opposti nello stesso tempo. Eraclito è stato il primo a intuire che in realtà è proprio questo che avviene.
Perché l’essere è sempre la relazionedi forze contrastanti, di stati diuversi. Se non ci fossero stati diversi e forze contrastanti non esisterebbe l’essere, che la loro unione, la loro relazione. Questo è il divenire di Eraclito e di Holderlin.
In sostanza ci sono due modi diversi di intendere il divenire: il primo, quello di Eraclito, quello originario, istituisce un tempo circolare, cioè un movimento in avanti e in-dietro, un movimento di allontanamento da uno stato e un successivo movimento di ritorno allo stato da cui ci si è allontanati. Questo tempo circolare è un tempo che riavvolgendosi su se stesso tiene insieme – in presenza – tutti gli aspetti che ha attraversato; il secondo, quello derivato dal primo ma modificato nell’essenza del significato, da Platone prima, ma soprattutto da Aristotele e definitivamente da Hegel, istituisce un tempo lineare, un movimento continuo in avanti che dimentica quello che si lascia dietro (le macerie dell’Angelo della Storia), funzionale ad una concezione teleologica della vita, al raggiungimento di un fine – la salvezza dell’anima o il mantenimento dei livelli occupazionali. Ma questo tempo lineare, che non è naturale, instaura una realtà artificiale, costringendo la vita stessa in un mondo che non le appartiene.

In questo senso “il divenire”, così come la tradizione del pensiero occidentale l’ha codificato, è il primo strumento ideologico della storia.

9.12.21
Eraclito, Gompers, Pensatori, p. 100
La grande originalità di E. non consiste nella sua dottrina circa la materia originaria, e nemmeno nella sua dottrina circa la natura in generale, ma piuttosto nell’avere egli per primo tessuto fra la vita della natura e quella dello spirito una trama di rapporti che dopo non è stata più spezzata.

La forma materiale che a lui sembra ottimamente corrispondere alla essenza stessa del processo della vita universale … è quella stessa che mai presenta l’aspetto della quiete, o anche di un movimento lento, e che appare il principio del calore vitale negli esseri organici superiori, e per conseguenza il principio stesso della animazione: il fuoco. Esso è l’elemento che a tutto dà vita e tutto distrugge:
“Questo ordine sommo di tutte le cose (cioè il mondo) non l’ha creato nessuno degli Dei, come nessuno degli uomini, ma senpre fù, è e sarà un eternamente vivente fuoco, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne”.

Per lui esso (il fuoco) è anche il principio della intelligenza universale, la norma, che si rende cosciente, di ogni esistenza; esso è tale che “non vuole essere chiamato Zeus” giacchè non è nessun essere individuo e che tuttavia “vuole essere chiamato così” perché è il supremo principio del mondo.
Costruzione e distruzione, distruzione e construzione: questa è la legge che si estende a ogni sfera della vita e della natura. Anche il cosmo, sorto dal fuoco primordiale, deve ad esso fare ritorno (!). Ciò con non altro fine di quello che il processo di differenziazione abbia nuovamente inizio, per pervenire ad un medesimo risultato finale.
La vastità di questa veduta accosta Eraclito ai maggiori scienziati dei nostri tempi.

Alla materia E. non attribuisce solo il mutamento continuo della forma e delle proprietà; egli la considera altresì in perpetuo movimento nello spazio. Tutto ciò che vive è in una vicenda di continua scomposizione e di rinnavamento.  Da ciò scaturisce la dottrina del fluire delle cose. Quando il nostro occhio percepisce qualche cosa di permanente, ciò non è che mera apparenza; ogni cosa, in realtà, è in continua trasformazione.

Le impressioni olfattive, e anche quelle visive sono prodotte da particelle materiali che incessantemente si distaccano dagli oggetti.
Quella di E. è una concezione della  natura che concorda mirabilmente con le teorie della fisica moderna, al punto che un antico ragguaglio intorno alla dottrina eraclitea concorda parola per parola con  una moderna sintetica enunciazione di queste teorie:
Aristotele: “Ci sono alcuni che che ritengono non esservi già  alcune cose che si muovo ed altre no, ma che tutte si muovono di continuo, sebbene questo movimento si sottragga alla nostra percezione”.
Lewes, Growe, Spencer: “La scienza odierna tiene per certo  che le particelle materiali siano in continuo movimento… sebbene questo movimento si sottragga alla nostra percezione”.

Col riconoscimento dell’esistenza di movimenti invisibili veniva abbattuto un muro che impediva di penetrare i segreti della natura, anche in virtù di una seconda visione: l’assunzione della esistenza di corpuscoli non solo invisibili, ma altresì indistruttibili e immutabili, di cui si costituisce ogni sostanza e che permangono sempre i medesimi in qual si voglia mutamento di forma delle masse corporee: cioè la grande conquista degli atomisti.

10.12.21
Appendice alla Relazione del 6.12.21
Si riprende dalla  nota.

– Ma in realtà egli è triste e felice nello stesso tempo. Nel senso che è quell’essere che è triste e felice.

Quindi non nel senso che è triste ora e felice dopo, ma che è triste e felice insieme. Questo è possibile perché un essere è, si pensa, ha consapevolezza di sé, sempre in maniera parziale; mai nella complessità di ciò che è veramente.
Io posso percepirmi non solo in un momento preciso della mia evoluzione, del mio perenne mutamento, ma solo in un aspetto preciso e limitato della complessità degli aspetti che sono. Posso vedere, e rendere manifesto, solo uno dei molti aspetti che sono. Ma gli altri esistono comunque, ed esistono contemporaneamente a quello che ho evidenziato astraendolo, il quale con il peso della presenza finisce per rappresentare erroneamente la totalità di ciò che sono.
Per questo, proprio mentre sono triste, proprio in questo preciso momento, io sono comunque quello che è anche felice, che è anche distratto, che è anche interessato a una cosa particolare, che è entusiata, che è annoiato, che è spaventato, che è fiducioso, che non si fida, che ha speranza, che s’illude, che si deprime, che prova imbarazzo, che si piace, che prova rabbia, che è comprensivo, che si preoccupa, che è sereno. Non potendo pensarmi in tutte queste e chissà quante altre cose insieme, per un limite strutturale del mio sistema di elaborazione dei dati, ho avuto necessità di inventare il divenire, il cambiamento,  giustificando la pluralità dei miei aspetti con il loro apparire in successione. Ma questo è solo uno schema di lettura, una griglia interpretativa, che serve appunto a gestire la complessità dell’essere con uno strumento funzionalmente limitato.

Dunque non posso cogliermi nella mia complessità e interezza perché la mia mente è uno strumento limitato nelle possibilità.
E’ possibile che  non sia sempre stato così.
La mia mente, nella attuale fase evolutiva, è uno strumento limitato perché e destinata prevalentemente alla codificazione dei dati proverienti dall’apparato ottico. Il quale è esso per primo limitato, in quanto capace di cogliere solo quello che ha davanti. Deve muoversi (girare la testa) per cogliere quello che sta accanto a ciò che gli sta davanti, e questo implica uno spazio temporale che istituisce una frammentazione della visione e una successione nella percezione del reale, che già come successione di segnali arriva al cervello, che dunque come successione di vedute lo codifica. La nostra mente elabora una immagine complessa per successione di immagini frammentate.  E’ già insito in questo processo la necessità del divenire.

Probabilmente in un tempo passato in cui i sensi erano tutti allo stesso modo valenti la nostra mente aveva la capacità di elaborare  segnali multidirezionali restituendo una percezione (non più solo visione) del reale più compessa.


E cosa sarebbe per esempio se fossi dotato di un apparato ottico formato da una moltitudine di occhi che mi consentisse di vedere (cioè di percepire il dato im-mediato, cioè senza mediazione) non ciò che mi sta davanti ma ciò che sta intorno a me in una sfera percettiva; cioè di vedere nello stesso istante ciò che mi sta davanti, dietro, in alto, in basso, a destra, a sinistra e in ogni singolo punto del guscio sferico di percezione al centro del quale sono situato.
Se quindi la mia mente fosse in grado di cogliere nell’istante  la totalità di ciò che la circonda in ogni direzione. In fondo è solo un problema di quantità, non di qualità. Dunque potrebbe essere possibile, e anzi forse presto lo sarà.

Una mente in grado di cogliere la molteplicità e la complessità del reale con uno sguardo, che non sarebbe più lo sguardo al quale siamo abituati ma sarebbe piuttosto una espansione inflattiva dell’essere, pargonabile cioè alla fase inflattiva che segue il big bang , avrebbe probabilmente anche la capacità di cogliersi nella sua interezza. Sarebbe quindi sempre tutto ciò che è, senza aver bisogno di far finta di cambiare.

In mancanza di ciò, come avremmo potuto cogliere l’unità dell’essere senza il divenire? L’unità dell’essere (nella molteplicità dei suoi aspetti) che conduce Parmenide alla contraddizione della negazione della molteplicità,  degradata e posta nella dimensone delle opinioni, viene interpretata da Eraclito nel nenso del divenire, e in questo modo risolta.
Cioè Eraclito risolve, attraverso il divenire, quindi attraverso il perenne cambiamento delle cose,  l’impossibilità per il nostro limitato intelletto di comprendere l’essere nella sua unità sempre presente.
Il divenire quindi è, per noi, l’unica forma possibile in cui possiamo cogliere l’unità dell’essere. E il lavoro di Cézanne sulla Montagna, che è il lavoro di una vita intera, cioè è quella vita nella sua essenza,  è il tentativo di ricondurre la molteplicità all’unità, o di rappresentare la molteplicità dell’unità. Scriveva A. Vollard: “Nel mio ritratto ci sono, sopra la mano, due piccoli punti dove la tela non è coperta. Lo feci notare a Cézanne:  “Se la mia seduta pomeridiana al Louvre è buona”, mi rispose, “forse domani troverò il tono giusto per tappare quei bianchi. Cerchi di capire, Vollard,  se io ci mettessi qualcosa a caso, sarei costretto a riprendere da capo tutto il quadro partendo da questo punto”.

12.12.21
Materiali su Cézanne 1
Doran, Cezanne, p. 9
A. Vollard:
“Nel mio ritratto ci sono, sopra la mano, due piccoli punti dove la tela non è coperta. Lo feci notare a Cézanne:  “Se la mia seduta pomeridiana al Louvre è buona”, mi rispose, “forse domani troverò il tono giusto per tappare quei bianchi. Cerchi di capire, Vollard,  se io ci mettessi qualcosa a caso, sarei costretto a riprendere da capo tutto il quadro partendo da questo punto”.

26.12.21
Materiali su Cézanne 2
Doran, Cezanne
Borely (1902)
– Mostrarle dei tentativi? Ahimé, benché già vecchio, sono ancora agli inizi. Tuttavia comincio a capire, se così si può dire, io comincio a capire.

– Ho cercato per tanto tempo: si, cerco ancora; sono a questo punto, alla mia età! Non si stupisca dei miei discorsi sconnessi, ho qualche vuoto.

– Com’è difficile dipingere bene! Come volgersi con semplicità verso la natura? Guardi, da quest’albero a noi c’è uno spazio, un’atmosfera, d’accordo; ma poi c’è questo tronco, palpabile, resistente, un corpo… Vedere come chi è appena nato!

– Ora la nostra vista è un po’ stanca, ingannata dal ricordo di mille immagini. E poi i musei, i quadri dei musei! E le esposizioni! … Non vediamo più la natura, rivediamo i quadri. Riuscire a vedere l’opera di Dio! Questo io perseguo.

Lettera a Bernard
– Io procedo molto lentamente. La natura mi si presenta terribilmente complessa e i progressi da compiere sono incessanti.
L’arte si rivolge a un numero eccessivamente esiguo di individui.

L. Lauguier (1901-2)
Aforismi di Cézanne
XII. Per l’artista, vedere è immaginare, e immaginare è comporre.
XIII. Perché l’artista non registra le proprie emozioni come l’uccello modula il suo canto: egli compone. (in risposta a ciò che dice Monet: “Io dipingo come l’uccello canta”.
XV. L’arte è una religione. Il suo scopo è l’elevazione del pensiero.
XVI. Chi non ama l’assoluto (la perfezione) si accontenta di una tranquilla mediocrità.
XXIV. La ricerca del nuovo e dell’originale è un bisogno artificiale che mal dissimula la banalità e l’assenza di temperamento.
(frammenti eraclitei?)
XXV. La linea e il modellato non esistono affatto.  Il disegno è un rapporto di contrasti o più semplicemente il rapporto tra due tonalità, il bianco e il nero. XXX. Contrasti e rapporti di toni, ecco il segreto del disegno e del modellato.
XXXI. La natura è in profondità. Fra il pittore e il suo modello si interpone un piano: l’atmosfera. I corpi visti nello spazio sono tutti convessi.
XXXII. L’atmosfera forma lo sfondo immutabile sul cui schermo si vengono a comporre tutti i contrasti di colore, tutte le variazioni di luce.
XXXIII. Si può dunque affermare che dipingere è contrastare.
XXXIV. Non esistono né una pittura chiara né una pittura scura, ma semplicemente rapporti di tonalità. Quando queste sono messe in modo giusto, l’armonia si stabilisce dal sola.
XXXVI. L’artista non distingue direttamente tutti i rapporti: li sente.
XLI. …Dipingere non è copiare servilmente l’oggettività: è cogliere un’armonia tra molti rapporti, e trasporli in una propria gamma sviluppandoli secondo una logica nuova e originale. (traduzione dubbia)
Da Bernard (1904-1906) pag. 66
“Avevamo appeso alla parete  una piccola natura morta di cézanne che avevo acquistato a Parigi da almeno 15 anni. Gliela mostra. “E’ proprio brutta”, disse. “E sua – risposi – e io la trovo decisamente bella”.  “Dunque questo ammirano adesso a Parigi? – replicò – Ebbene, il resto deve essere molto mediocre!” A Cézanne non piaceva che gli si parlasse di lui. (…) Non c’era affettazione nel suo modo di fare, solo la certezza che quanto aveva fatto fino ad allora non era che l’inizio di ciò che egli avrebbe prodotto, se fosse vissuto ancora a lungo. “Faccio qualche progresso ogni giorno – mi diceva – questo è l’essenziale”.
(…) Parecchie volte rimasi interdetto per ciò che mi mostrava affermando che stava progredendo, perché lo trovavo inferiore a ciò che avevo visto in precedenza. Si sarebbe visto con chiarezza quando fosse arrivato alla conclusione del lavoro, ma raramente ci arrivava. Siccome aveva un modo di lavorare molto lento, spesso accadeva che il suo quadro restasse interrotto nel bel mezzo;  ho visto molti paesaggi che non erano abbozzi, non erano studi,  ma solo gamme di colori iniziate e che il tempo aveva interrotto.  C’era una quantità di motif, di cui non era neppure coperta integralmente la tela.

29.12.21
Il verso
Cominciati oggi gli studi di metrica, necessari per avvalorare e contestualizzare una delle idee di base che costituiscono la mia ricerca: e cioè che il verso istituisce una dimensione temporale differente da quella istituita dal parlare ordinario, che è  la dimensione del tempo in cui tutto torna. Nel senso che attraverso l’esposizione del ritmo del verso il tempo torna dove era partito, tenendo così insieme tutto quello che nel suo farsi è avvenuto.
Questo tempo ciclico è l’Eterno Ritorno, che non è il ritorno del passato, ma il ritorno dei pensieri e dei sentimenti – cioè di tutto il sentito – del passato, e non è neanche ritorno, perché i pensieri e il sentito del passato non sono mai andati via;
ed è anche l’eternità come l’intendeva Spinoza, cioè la pienezza della vita;
ed è, infine, quello che voleva dire Holderlin, quando diceva che poeticamente abita l’uomo.  E cioè che l’uomo abita solo in un tempo ciclico, cioè abita solo un tempo in cui tutto (sottoforma di pensieri e sentimenti) torna.
Tempo ciclico che è, e può essere solo il tempo del verso, cioè il tempo istituito istituito dal verso, e in questo senso l’abitare può essere solo poetico: cioè abitare poeticamente significa darsi le condizioni per  permanere nel tempo ciclico, che è il tempo reale dell’essere.
Questo oltre al tempo del verso è anche il tempo della musica, anzi lo è prioritariamente, nel senso che dalla musica tutto discende, sia il verso, che è appunto un pensare sotto forma di musica, che l’architettura, cioè un organismo edilizio conformato secondo misure e proporzioni armoniche ricavate dalla musica, nel quale ogni elemento entra in risonanza con gli altri, costringendo appunto il tempo a tornare sempre da dove era partito, e rappresentando in questo modo plasticamente l’unita del Tuttto. Questo è il Duomo di Pavia; questo sono le Cappelle Medicee. Ma questo è anche, fatte le debite proporzioni, la Robie House, o questo era, per altra via e con altri mezzi, Casa Miller. Naturalmente  non ogni casa può essere una architettura. Ma ognuno di noi,  dal momento in cui inconsapevolmente si costituisce come soggetto,  comincia a costruire la propria casa interiore, che è l’unico vero luogo in cui il soggetto vive, indipendentemente dal luogo fisico in cui materialmente si trova. Abitare poeticamente dunque significa acquisire questa consapevolezza, cioè significa cominciare ad abitare nella propria casa interiore.
Tuttavia delle condizioni materiali devono darsi, e quando queste si perdono tutto diventa più difficile. Ogni casa infatti, pur non essendo una architetttura, dovrebbe, per la sua conformazione (spazi fisici dedicati all’inutile, cioè metriquadri non redditizi, oggi inconcepibili), e per la sua permeabilità (permanenza delle storie nelle incrostazioni dell’intonaco e nei graffi del pavimento, oggi inconcepibili),  consentire quella stratificazione dei giorni trascorsi che, essendo appunto visibile nel presente sottoforma di trasformazione (ingiallimento, invecchiamento)  della materia, conferisce al presente stesso una diversa consistenza, trasformandolo in quella dimensione del reale che non è statico e vuoto permanere ma parvenza di altro, che è o che è stato e che appunto attraverso quella parvenza permane. Trasformando cioè il presente nella permanenza di ciò che solo apparentemente è passato.
Bisogna cioè che la casa possa invecchiare, e questo non è più possibile, non solo perche non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (tutto sia lucido e pulito: questa è l’etica del modernismo);
bisogna che la casa contenga spazi all’apparenza inutili, ma che si riveleranno preziosi per contenere (e nascondere) “scatole dei bottoni”, e questo non è più possibile e non solo perché non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (nessun centimetro deve essere sprecato!);
ma semplicemente perché nel moderno modello sociale conformato sulle esigenze del moderno modello produttivo non esiste più la casa, ma esistono solo alloggi, come già nel 1945 Adorno aveva già detto, e vengono i brividi a pensare a quanto oltre, rispetto ad allora, siamo andati; cioè non esiste più la famiglia, quell’organismo sociale che può nascere solo per conseguenza (e in virtù) della possibilità per un nucleo di persone di permanere stabilmente in un luogo.
L’abitare poetico, e quindi la possibilità di esperire il tempo reale dell’essere non è più possibile appunto perché non è più possibile l’abitare, che etimologicamente significa avere un abito, cioè un abitudine, cioè una abitazione, che è la condizione in cui si ha un’abitudine: un darsi le condizioni per cui si manifesti una abitudine: un avere frequestazione di sé: dunque un “avere se stessi”. Cioè non si può essere pienamente, dunque essere nella sua pienezza (l’eternità di Spinoza), se non si ha se stessi. La lingua esprime con immediatezza quello che pareva impossibile da definire e invece è del tutto evidente. Perché se non si ha se stessi , non si è di se stessi, ma di qualcun altro. Dunque schiavi.

Macioce, La metrica italiana:
“Il verso è l’unità elementare della poesia; il suo ritmo, in origine, era legato a quello della musica, a cui la poesia si accompagnava, ma poi ha acquistato la sua autonomia. Il suo nome (dal latino vèrtere = voltare) deriva dall’uso di scriverlo andando a capo e indica anche un ritorno ciclico del ritmo.”

29.12.21

Da Zeller, Eraclito.
Volendo definire l’essenza di una cosa si deve distinguere “fra ciò che appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartega solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata relazione.” Zeller sta parlando di come eraclito non si ponga neanche il problema di spiegarsi come sia possibile che in uno stesso oggetto convivano stati opposti. Egli spiega questa posizione adducendo il fatto che al tempo di Eraclito ancora la logica non era sviluppata. Ma allora Parmenide?
In realtà Eraclito non tenta di spiegarsi il problema perché per lui è un fatto normale che in uno stesso oggetto convivano tensioni opposte. Come lo è per noi oggi, o meglio come dovrebbe essere per noi oggi. E quindi, ciò che appartiene a una cosa in sé, e ciò che appartiene a una cosa in relazione ad un’altra sono sempre appartenenze della cosa, che le mostra in relazione al contesto, e che quindi appare diversa in relazione al contesto in cui si trova, con cui siinterfaccia, mostrando ciò che il contesto richiede. Lo stesso vale per ciò che le appartiene contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, essendo la successione delle competenze solo una successione di risposte, e quindi una successione di mostramenti di diversi aspetti di sé. E vale anche, per gli stessi motivi fra ciò che le spetta in senso assoluto e ciò le tocchi in una determinata relazione.

La portata delle affermazioni e delle proposizioni di Eraclito è rivoluzionaria ancora oggi. Dire che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini distinguono tra giusto e sbagliato è di una radicalità a tutt’oggi non accettabile. Significa infatti dire che ogni cosa è giusta al suo posto.
Mi chiedo: Nietzsche, che arrivò a dire le stesse cose dopo una serie di interminabili battaglie, conosceva Eraclito? Avrebbe dovuto, vista la data delle prime traduzioni tedesche. E come è possibile che non ne faccia cenno?

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