Il lungo addio

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C’è questo famoso frammento di Laozi (risale ad un tempo antecedente al V secolo a.C., perché è dal V al III secolo a.C. che cominciarono ad essere  trascritti i suoi insegnamenti, sulla base di testimonianze precedenti):

Agisci senza adoperarti,
Con distacco le mansioni assolvi,
Il palato delizia con ciò che è insapore,
Guarda al piccolo come se fosse grande,
Alla penuria come se fosse abbondanza,
Ripaga il malanimo con magnanima Virtù.
Sulle difficoltà pondera finché son facili da sbrogliare,
Bada a ciò che è grande a partire dalle minute inezie.
Le difficoltà, al mondo, da cose facili hanno principio,
Quel che è grande, al mondo, da minute inezie ha principio.
Il Saggio, dunque, mai persegue grandi imprese,
E riesce così a realizzarne la grandezza.
Promesse facili da pochi saran credute;
Chi tutto fa semplice, solo difficoltà dovrà affrontare.
Poiché il Saggio ogni cosa affronta come se ardua fosse,
Difficoltà alla fine non incontra.

Qualcuno domandò a Confucio: “Cosa pensate dell’adagio: “Si ricambi il rancore con la magnanimità”?”
Il Maestro rispose:
“Come ricambiare allora la magnanimità?  Si ricambi il rancore con la rettitudine e la magnanimità con la magnanimità.”

In questa breve conversazione c’è il segno del lavoro che Confucio stava facendo nei confronti dell’antica cultura cinese, lo stesso tipo di lavoro che Platone faceva, più o meno nello stesso tempo,  con la sapienza greca.
Il frammento di Laozi offre un compendio di conoscenze che derivano dall’esperienza e dalla conoscenza interiore, e che guidano l’uomo nelle sue azioni, suggerendo la via che è più conforme alla sua natura. Si ripaghi dunque il malanimo con magnanima virtù, perché la virtù non può che essere magnanima, altrimenti non è; e se si è virtuosi lo si è sempre, altrimenti non lo si è;  e solo se si è virtuosi si può seguire la Via. Questa conoscenza di sé che è esperienza del mondo, conduce alla costanza dell’agire, e dunque all’armonia, perché “armonia vuol dire seguir quel che è costante”.
La risposta di Confucio introduce il principio che il comportamento, cioè il modo di essere, e quindi la conoscenza, debba adeguarsi alle circostanze, anche prescindendo dalla propria natura. E’ un principio assolutamente ragionevole, di più, Razionale.
In questo modo finisce la sapienza e comincia la filosofia, cioè comincia la modernità,  ovvero lo sdoppiamento e la separazione dell’ ambito dell’agire dall’ambito dell’essere, funzionale ad una più efficiente gestione del personale, ma catastrofico dal punto di vista etico e morale, laddove  distinguendo il giudizio sul comportamento dal giudizio sulla persona che lo pone in essere, istituisce quel concetto  di “responsabilità limitata” in virtù del quale si possono compiere azioni riprovevoli obbedendo a una catena di comando, nel rispetto delle regole e delle leggi, e rimanendo comunque persone per bene.
Il passaggio è sottilissimo e quasi invisibile, lo spazio di una frase, ma il cambiamento è radicale. L’uomo di Laozi, seguendo la Via, misura il suo agire sui suoi limiti, e lascia che il flusso degli eventi lo attraversi rimanendo in un costante, minimale, frugale appagamento di sé;  l’uomo di Confucio utilizza la sua conoscenza per individuare la risposta e il comportamento più adeguati alla domanda e quindi  individua la conoscenza stessa come uno strumento di controllo, cioè come strumento ideologico. Mentre per l’uomo di Laozi il comportamento è una diretta conseguenza dell’essere, cioè della conoscenza di sé che conduce alla Via, per l’uomo di Confucio è possibile, e talvolta opportuno, comportarsi in maniera diversa da ciò che si è.

E mentre la scelta di Laozì è funzionale ad un rapporto laico – cioè rispettoso – col mondo, la scelta di Confucio è funzionale al governo, cioè all’uso del mondo finalizzato al raggiungimento di particolari interessi.
Analogo e pressoché  contemporaneo è il tentativo di Platone di sistematizzare la sapienza arcaica, a partire dalla confutazione dei testi dei filosofi che lui stesso chiamava “i Sapienti” : Parmenide, Eraclito, Empedocle, Protagora, inaugurando per l’occidente l’età della filosofia, cioè dell’ “amore per la sapienza” ( perduta).
Inventando il trattato in forma di dialogo e utilizzando gli strumenti della retorica egli infatti presenta le tesi dei sapienti come in una vera contesa dialettica, laddove però c’è solo un partecipante alla contesa, cioè egli stesso,  che scrive anche le risposte della controparte, la quale in questo modo viene solo apparentemente confutata in maniera politicamente corretta. Un testo esemplare in questo senso è il Teeteto, sia per la portata dell’argomento (“cos’è scienza?”) che per la sua costruzione: alla fine di un serrato e lunghissimo dialogo tra Socrate e Teeteto, che a bella posta viene da Socrate continuamente interrotto e ripreso, e dopo aver confutato tutte le opinioni dei sapienti, risulta che non è facile definire esattamente cos’è scienza, che comunque tale significato non è alla portata di tutti, e che è il caso di affidarsi a chi sa di più.

Il passo in cui viene introdotto il pensiero di Protagora è semplificativo. Socrate chiede a Teeteto, giovane studioso di matematica presentatogli da Teodoro esaltandone le virtù, cosa egli pensa che sia la scienza. E Teeteto risponde:

“Ebbene, Socrate, dal momento che tu esorti con questa insistenza, sarebbe vergognoso non impegnarsi in ogni modo a dire quello che si ha in mente. A me pare dunque, che chi ha scienza di una cosa, abbia la sensazione di ciò di cui ha scienza, e, almeno come mi sembra in questo momento, scienza non è altro che sensazione.

Socrate: –  Sembra che tu abbia dato una non disprezzabile definizione di “scienza”; anzi, è quella che dava anche Protagora. Ma Protagora ha detto le stesse cose in modo un po’ diverso. Dice, infatti, pressappoco: “Di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono”.  L’hai letto probabilmente?

Teeteto: – L’ho letto, e spesso.

Socrate: –  Così, in un certo qual modo, non dice che quale ciascuna cosa appare a me tale è per me, quale appare a te tale e per te – uomo sei tu e uomo sono anch’io?”

Teeteto: – In effetti, dice davvero  così”.

Nella risposta di Socrate c’è tutta la sapienza sofistica di Platone, che riduce  la complessità del pensiero di Protagora ad una mera perorazione di un inattuabile relativismo. Dove infatti Protagora voleva affermare la necessità di un approccio laico al mondo, riconoscendo ad ogni essere uguale diritto di costruire la propria visione del mondo (ognuno con la sua misura) e dunque esigendone il rispetto; dove Protagora riconosceva, nel porre un limite invalicabile (la misura delle cose che non sono), la frammentarietà dell’essere, che in quanto tale non può che essere parte di una molteplicità, e quindi di un Tutto, Socrate riduce tutto ad una questione di differenza di percezioni:

“ Non è forse vero che, mentre soffia lo stesso vento, uno di noi ha freddo e l’altro no?  E uno poco e l’altro tanto?”

Chi può dire quindi com’è il vento?  E come si fa – su queste basi – a governare una città?
Questa breve premessa, pur così riduttiva e schematica,  serve tuttavia a definire l’ipotesi di lavoro: verificare, testi alla mano, l’avvenuta razionalizzazione del pensiero, pressoché contemporaneamente nel mondo orientale e nel mondo occidentale, a fini utilitaristici, a discapito della capacità originaria del pensiero di concepire l’essere nella sua compiutezza, cioè di coglierne l’essenza, inibendogli in questo modo ogni possibilità di seguire la sua propria natura, e di conseguire quindi la felicità (sotto forma di appagamento) che ne deriva.

La vicenda artistica e culturale del mondo non solo occidentale, testimonia la necessità di superare questo modello di conoscenza, cosa non facile visto che regola ogni tipo di rapporto in essere ed è a fondamento del sistema produttivo. Tuttavia mantenerlo nell’uso significa continuare ad esercitare un’azione contro natura. Come scriveva Carlo Michelstaedter  nella sua tesi di laurea, poco più di  un secolo fa, non si può fermare un peso nella sua caduta. O meglio, si può fermarlo, con corde e appigli, ma al prezzo di inibirne e contrastarne la natura, che è di cadere, cioè di andare verso quel centro di gravità da cui è attratto, e dove solamente può cessare di cadere – cioè di esistere;  dove solo può saziare la sua sete: lì dove ha avuto origine. Per questo non si può parlare di fine dell’arte: l’arte finirà solo quando l’uomo risolverà la sua mancanza, posto che ciò sia possibile. Piuttosto si deve tornare a ragionare sul “senso” o sullo “scopo” dell’arte, restituendogli quello originario che è andato perduto e la dignità che da esso le derivava, cercando nella attuale confusione dei messaggi e dei linguaggi quel segno che riesca a lenire una ferita che dura da più di duemila anni.

Per vie diverse e sotto diverse forme, ma sempre questo segno ha a che fare con la bellezza.  E se consideriamo la bellezza per quello che è, cioè non una formula ma l’esito di un percorso, l’effetto di un agire, l’armonia che deriva dal seguire le cose costanti, è sul senso dell’agire che bisogna lavorare, partendo dalla bellezza e cercando di ricostruire il rapporto al contrario. Cioè partendo dalla bellezza, che ne era l’esito, cercare di ricostruire l’uomo.
(camillo lentini)

 

Riferimenti:

Andreani A.  (a cura di),  Laozi, Genesi del “Daodejing”, Einaudi 2004;

Colli G. Nascita della Filosofia, Adelphi, 1975

Giovanni Reale (a cura di), Platone, Tutti gli scritti, Rusconi 1991

Carlo Michelstaedter, La persuasione e la Rettorica, Adelphi, 1995

Il titolo richiama quello del film di Robert Altman del  1973,  basato sull’omonimo romanzo di Raymond Chandler. Il film, considerato uno dei più importanti del regista americano, va bel oltre il romanzo, dipingendo uno straordinario ritratto non solo della decadenza di un epoca,  ma di un intero sistema di valori. Altman cambiò diverse cose rispetto al romanzo, introducendo anche nuovi personaggi, e alla fine non fu ben chiaro, né fu mai chiarito,  a cosa fosse riferito il titolo, quale fosse “il lungo addio”.
E’ lecito dunque anche immaginare che il lungo addio a cui il regista pensava fosse quello dell’uomo a se stesso.

 

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