Disegno e Composizione

Mike1

 

“Nelle pratiche operazionali più correnti non sembra che il linguaggio intervenga e numerose  azioni  vengono svolte in uno stato di coscienza crepuscolare che non è sostanzialmente dissociabile dallo stato in cui si svolgono le operazioni degli animali, ma dal momento in cui le concatenazioni operazionali sono messe in discussione dalla scelta, questa scelta può essere fatta solo se interviene una coscienza lucida strettamente legata al linguaggio.  La libertà di comportamento è realizzabile, in effetti, solo a livello di simboli, non a livello di atti, e la rappresentazione simbolica degli atti è indissociabile dal loro confronto.” (Leroi Gurhan, Le geste et la parole. La Mémoire et les rythmes, 1965)

Il disegno è un procedimento dialettico attraverso cui il pensiero, la mano e la forma dialogano tra loro a partire da una richiesta (desiderio) e fino a raggiungere un equilibrio armonico minimo. Fino a quando il desiderio non si incontra con la forma.
Il desiderio è un demone. Sempre cerca la forma che può placare la sua sete che mai si placa, la sua mancanza incolmabile. Conosce l’armonia per esserne partecipe con la sua essenza divina; ne vive l’assenza perenne per il suo limite umano. La sua sete non dipende dalla difficoltà di raggiugere la forma, di cui conosce la regola, ma dalla necessità di dover sempre rievocarne la presenza, per causa della sua natura finita che può conoscere l’infinita armonia solo frammentandola in una successione temporale di segni.
Questo processo richiede un lavoro: un continuo fare domande e un continuo valutare le risposte.
Con domande e risposte, e quindi col tempo necessario per individuare e riuscire a formulare le domande, e per valutare le conseguenze delle risposte, la realtà prende forma, nuovi piani dell’essere si costituiscono in una successione che non procede cancellando quello che si lascia dietro, ma lo tiene vivo, costituendo uno spazio di relazione in cui tutto può succedere, perché ogni singolo ulteriore segno rimane accanto a quello immediatamente precedente.  Fermando in questo modo il tempo, cioè facendolo diventare una successione finita di cambiamenti di stato tutti presenti nello stesso istante e nello stesso luogo.
Questo  accade nel disegno.
E’ attraverso il tempo del disegno che nasce il senso della domanda, ed è attraverso il tempo e le possibilità del disegno che le risposte si dispiegano con tutte le relative conseguenze. Perché la risposta non è mai univoca ma sempre molteplice, cioè per ogni domanda esistono diverse risposte, e tutte devono essere esplicate, vissute e raccontate, cioè “provate” dal disegno.  E perché la regola non può essere applicata, deve essere ogni volta scoperta.

Il disegno ama la forma  attraverso la ripetizione del tratto. L’anelito verso la forma è amore, eros, desiderio.
In questo modo il tempo diventa superficie e la superficie esprime una domanda di forma. Quando le superfici si inclinano o cambiano direzione vengono colpite in maniera diversa dalla luce. Attraverso la superficie quindi la luce diventa volume. Il fotone non è solo onda e particella nello stesso tempo, è anche ombra, e l’ombra rivela il volume.
Col lavoro della mano che ripete il tratto il tempo diventa un fare.
“Bisogna anzitutto ricordare  – scrive Pareyson (Estetica, 1988) –  che il “fare” è veramente un “formare”  solo quando non si limita ad eseguire qualcosa di già ideato,  o a realizzare un progetto già stabilito o ad applicare una tecnica già predisposta o a seguire regole già fissate, ma nel corso stesso dell’operazione inventa il modus operandi, e definisce la regola dell’opera mentre la fa, e concepisce eseguendo,  e progetta nell’atto stesso che realizza.
(…) Ma un fare che insieme inventi il modo di fare implica che si proceda per tentativi, e il buon esito di un operazione di questo genere  è, propriamente, una riuscita; si che non si può penetrare la natura della forma e del formare se non si coglie l’inseparabile nesso che li congiunge rispettivamente con la riuscita e col tentare.
(…)  Quale che sia l’opera da fare, il modo di farla non lo si sa in anticipo con evidenza,  ma è necessario scoprirlo e trovarlo, e solo dopo che lo si sarà scoperto e trovato si vedrà chiaramente che esso era appunto il modo in cui l’opera andava fatta; e per scoprire e trovare come bisogna fare è necessario procedere tentando, cioè figurando e inventando varie possibilità, che si devono mettere a prova attraverso la previsione del loro esito e selezionare a seconda che siano o no capaci di  resistere alla prova, sì che di tentativo in tentativo, di verifica in verifica, si giunge a inventare la possibilità che ci voleva.
(…) Tentare significa, appunto, figurare una determinata possibilità e metterla a prova cercando di realizzarla o prevedendola realizzata, e se essa non si mostra adeguata al conseguimento d’un buon esito,  figurarne un’altra e mettere a prova anche quella,  e procedere così di prova in prova, di esperimento in esperimento,  finché si arrivi finalmente alla scoperta dell’unica possibilità che in quel punto l’operazione stessa richiedeva per essere condotta a termine ed essere menata a buon porto, e che si rivela allora, una volta scoperta,  come quella che si doveva saper trovare.
(…) e certamente questo destino dell’uomo,  di non poter operare se non procedendo per tentativi, è segno della sua miseria e grandezza a un tempo: l’uomo non trova senza dover cercare, e non può cercare se non tentando, ma nel tentare figura e inventa, si che ciò che trova lo ha, propriamente, inventato.”

Il disegno è il modo che il pensiero usa per tentare, laddove la parola matematica è lo strumento utilizzato per definire, identificare e ridurre, perché qualsiasi operazione di definizione e identificazione è necessariamente una riduzione a codici operazionali di essenze complesse.
Il disegno è modo e la scrittura è utensile.
“Se c’è un punto – scrive Leroi Gourhan nel 1964 (Le geste et la parole. Tecnique et langage) sul quale abbiamo ormai raggiunto l’assoluta certezza, è che il grafismo inizia non nella rappresentazione ingenua della realtà, bensì nell’astratto. (…) Il grafismo non incomincia con una espressione in qualche modo servile e fotografica del reale,  ma lo vediamo organizzarsi in una decina di migliaia di anni, partendo da segni che sembrano aver espresso  prima di tutto dei ritmi e non delle forme . Infatti è solo verso il 30.000 che appaiono le prime forme,  limitate del resto a figure stereotipate in cui solo alcuni particolari convenzionali permettono di identificarvi un animale. Queste considerazioni servono a mettere in rilievo il fatto che l’arte figurativa, alle origini, è direttamente collegata al linguaggio e molto più vicina alla scrittura nel senso più ampio della parola, che non all’opera d’arte. E’ trasposizione simbolica e non calco della realtà. (…) Per il segno, come per la parola,  l’astratto corrisponde ad un adattamento graduale del sistema motorio di espressione a sollecitazioni cerebrali sempre più sfumate. Per modo che  le più antiche figure conosciute non rappresentano scene di caccia, animali morenti o commoventi scene familiari, ma sono artifici grafici senza un nesso descrittivo,  supporti di un contesto orale irrimediabilmente perduto.”
Continua Leroi Gourhan: “ Al livello dell’uomo, il pensiero ragionato è in grado di astrarre, dalla realtà, con un processo di analisi sempre più preciso,  dei simboli che costituiscono, parallelamente al mondo reale, il mondo del linguaggio attraverso il quale si ottiene la presa sulla realtà. Questo pensiero ragionato, che si estrinsecava in modo concreto nel linguaggio vocale e mimico degli Antropiani probabilmente fin dalla loro origine, diventa, durante il Paleolitico superiore,  l’animatore di rappresentazioni attraverso le quali l’uomo si esprimeva al di là del presente materiale. Ai due poli del campo operativo si costituiscono, partendo alle stesse origini,  due linguaggi: quello dell’audizione, collegato  all’evoluzione delle zone coordinatrici dei suoni, e quello della visione, collegato all’evoluzione delle zone coordinatrici dei gesti tradotti in simboli graficamente materializzati. Ciò spiegherebbe il fatto che i più antichi grafismi a noi noti siano la pura espressione di valori ritmici.
Comunque sia, il simbolismo grafico gode, rispetto al linguaggio fonetico, di una certa indipendenza: il suo contenuto esprime nelle tre dimensioni dello spazio quello che il linguaggio fonetico esprime nell’unica dimensione del tempo. La conquista della scrittura consiste appunto nell’aver fatto entrare, grazie all’uso del sistema lineare, l’espressione grafica in una completa subordinazione all’espressione fonetica. Al livello in cui ancora ci collochiamo, il legame che unisce il linguaggio all’espressione grafica è coordinativo e non subordinativo. L’immagine possiede così una libertà dimensionale che mancherà sempre alla scrittura. “

E’ utile tornare a Pareyson e alla sua descrizione dei modi del pensiero, “le due vie della riflessione filosofica: la via all’insù, che trae universali dalla meditazione sull’esperienza concreta, e la via all’ingiù,  che si serve di questi risultati per interpretare l’esperienza e risolverne i problemi.”
I due modi del pensiero, così chiaramente descritti da Pareyson sono compresenti: l’applicazione di universali (concetti) sull’oggetto dell’esperienza e la continua verifica e modificazione degli universali che l’esperienza dell’oggetto provoca, sono il modo del pensiero creativo, e tale pensiero non può esistere se non nella permanenza, nella ripetizione e nella verifica del gesto, nella ripetizione del segno,  nella memoria che il disegno conserva delle prove infinite, nella sua capacità di costituirsi come frammento di pensiero, e di conservare davanti al soggetto tutti i precedenti e i futuri frammenti.
La creazione artistica è un movimento di pensiero attraverso cui  dall’incontro e dall’interpretazione di un’esperienza il soggetto  astrae concetti generali,  mentre utilizza concetti generali precedentemente acquisiti per interpretare l’esperienza. Questo movimento del pensiero dall’oggetto all’universale è   continuo e infinito,  nel senso che è un lavoro che non finisce,  ma che può essere solo interrotto.
Il pensiero attraverso le mani entra in contatto con l’oggetto, e,  nel tempo in cui ne modifica forma e sostanza, cerca riferimenti nella sua personale biblioteca di concetti universali.
“Una mano non è solo attaccata al corpo,  ma esprime e continua un pensiero che va colto e reso…”  fa dire Balzac  a Frenhofer.
Durante questo processo la materia stessa oppone delle resistenze,  impone delle regole, richiede un’elaborazione di concetti che vanno ad aggiungersi a quelli già presenti nella biblioteca, modificandone l’ordine e la sostanza.
Questo movimento, come ogni movimento, è fatto di interruzioni, è fatto cioè, di pause, di spazi. Se tutto scorre indefinitamente non c’è tempo.  Il tempo si instaura nelle interruzioni di flusso che producono spazi, permanenze. La permanenza, cioè l’oggetto scaturito dalla interruzione del flusso, è la presenza e la testimonianza del tempo. Il tempo si solidifica in permanenze attraverso il lavoro delle mani, attraverso la ripetizione del gesto, producendo segni e modificazioni che di quel passaggio di tempo diventano testimonianza. Attraverso la riflessione su questi oggetti e sui nuovi concetti che ne derivano,  il pensiero diventa forma.

In Architettura il pensiero creativo, cioè il pensiero in continuo movimento tra oggetto e concetto,  può esercitarsi solo attraverso  la permanenza del disegno, la sua presenza, cioè la sua adesione all’infinito che consiste nel suo continuo rinnovarsi.
Il disegno automatico impedisce questa possibilità, negando la presenza del gesto, la ripetizione del tratto, e quindi il farsi presenza della forma. Sottraendo il disegno  all’esperienza, attraverso il movimento automatico richiesto dal programma, si impedisce al pensiero non tanto  la possibilità del confronto e della prova, quanto l’esito del confronto stesso,  il concepimento  di qualcosa che prima non esisteva, la risultanza di una messa in confronto. Cioè si impedisce al pensiero di creare, perché il confronto avviene all’esterno, sullo schermo, e non all’interno – nell’anima.
C’è un disegno di Michelangelo che rende in maniera chiara questa differenza. E’ il disegno della finestra della biblioteca laurenziana.  Su questo foglio Michelangelo ha tracciato due schizzi che rappresentano la finestra vista di fronte e una sezione della stessa, in basso a destra. Ma esiste un altro disegno,  che non si vede perché non è rappresentato.  E’ quello che è comparo nella mente di Michelangelo mente con la mano passava dalla sezione alla vista frontale della finestra, e poi tornava alla sezione, e poi di nuovo alla vista di fronte, aggiungendo ogni volta un piccolo tratto, una piccola modifica nell’uno e nell’altro schizzo, in un continuo gioco di rimandi il cui riferimento era  in quel disegno che esisteva solo nella sua mente. Questo disegno invisibile era una resa tridimensionale della finestra stessa, e poteva esistere solo nella mente di Michelangelo, e poteva prendere forma solo attraverso il movimento della mano sul foglio, da uno schizzo all’altro.
Questo è il pensiero creativo, il pensiero che attraverso il lavoro della mano conduce alla regola, che il demone conosce.  Se il lavoro di confronto viene svolto dal programma sulla base di parametri preselezionati, che possono anche includere variabili predefinite all’atto dell’inserimento dei dati,  per essere poi mostrato sullo schermo in un numero a scelta di possibili alternative, la qualità della vita – cioè l’abitare –  viene scambiata con la possibilità di selezionare un’alternativa (dimensione, forma e colore)  tra quelle identificate come le più adatte a soddisfare le esigenze individuate.
A quel punto basterà lavorare preventivamente sulla percezione delle esigenze, e  il pensiero non avrà più motivo di esistere.

Dunque il confronto deve essere interiore,  è questo può succedere solo se si utilizza uno schema di pensiero complesso,  uno schema cioè che prescinda dalla sequenza per costituirsi sulla permanenza dei pensieri: cioè un modo di pensare che non si sviluppi da un pensiero all’altro, un pensiero dopo l’altro, e in cui si procede solo attraverso il superamento del pensiero che precede, ma che si distenda avendo la possibilità di tenere presenti tutti i pensieri in un quadro d’insieme, moltiplicando quindi in maniera esponenziale il numero delle possibili connessioni. L’esito non sarà dunque una soluzione, ma un insieme di possibilità,  non una definizione, ma una molteplicità di definizioni plausibili. Non sarà neanche un esito.
Per poter utilizzare questo schema bisogna interrompere la sequenza, cioè uscire dal flusso del tempo, e questo si può fare solo interiorizzandolo, cioè facendolo proprio per poterlo governare. Ciò si ottiene mettendo in atto una pratica ripetitiva: la ripetizione del gesto, del tratto, come un rosario. Il gesto ripetuto consente di far proprio il ritmo sequenziale esterno del trascorrere del tempo, dandoci in questo modo la possibilità di governarlo dall’interno, e quindi di sospenderlo. Tutti i pensieri rimarranno sospesi nel tempo, cioè presenti. Perché il trascorrere del tempo non è il trascorrere dei secondi, ma il trascorrere dei pensieri.  E’ il pensiero che scandisce il tempo, sostituendosi al pensiero presente per venire immediatamente scalzato dal pensiero successivo. Inibendo il trascorrere dei pensieri si inibisce anche il trascorrere del tempo. Permanendo in presenza pensieri diversi sono possibili più associazioni, più confronti, e dunque più concepimenti di nuovi pensieri. Quindi più soluzioni, o semplicemente più possibilità. Il che non è poco. Anzi, è tutto.

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