ANNOTAZIONI VOL. XI – 2022
3.1.22
Cézanne:
L’espressione di
quel che esiste è un compito infinito.
6.1.22
De Ruggiero
II. I Sofisti.
(…) La rapida ascensione democratica nel 5° secolo ha per
effetto la radicale rielaborazione e trasformazione delle basi stesse della
vita, e particolarmente della vita pubblica. Ormai il costume e l’autorità non
valgono più a dare un fondamento stabile alla costituzione e alla funzione dei
pubblici poteri, ma sorgono principii e criteri nuovi, in conformità dei nuovi
ordinamenti. Se, con l’avvento della democrazia, spetta al popolo, riunito
nelle assemblee, di decretar le leggi, è certo che queste non possono più
trarre il loro prestigio dalla tradizione e dal costume, e quindi in ultima
istanza dalla divinità, del cui volere sono depositarie; ma dall’arbitrio
stesso degli uomini, contemperato dalle necessità della coesistenza civile.
Così l’individuo che, nell’antico regime, era schiavo di un potere
trascendente, ora comincia a sentire la propria autonomia e libertà, la propria
efficienza umana e immanente nelle cose; e quindi instaura quel senso
umanistico della vita, che prima era paralizzato da una trascendenza
invincibile. Questa infatti vigeva non soltanto nel principio informatore
dell’antica civiltà; essa non era una formula filosofica astratta (come
l’interpretazione moderna del termine potrebbe far supporre); ma era
incorporata nella sostanza stessa delle leggi e delle norme, di cui eclissava
ogni significato umano. Essa infatti si manifestava nella legge, come
supremazia, della parola o della formula,
anteposta allo spirito, o anzi divenuta per sé sola spirito; mutare il
rito, mutare la formula non era concesso agli uomini, perché né rito né formula
erano sorti per opera loro, ma soltanto per opera divina, e sarebbe stata
empietà abominevole disfare quel che gli dei avevano fatto. Ma acquistando una coscienza nuova della
legge – e l’acquistano solo quando essi fanno la legge – gli uomini spezzano la rigida trascendenza
della parola; questa non è più la parola detta e fissata per sempre, ma
l’espressione mutevole e contingente del proprio pensiero, il mezzo per far
prevalere la propria opinione nei comizi, la vera forza dell’individuo di
fronte alle masse.
(Dunque è da duemilacinquecento anni che la parola non significa più nulla! Prima era la parola di dio, segno trascendente della sua esistenza. Ora è parola di chi grida più forte, o di chi è più abile a parlare. Quindi Nietzsche non ha ucciso nessuno. Dio era morto da tempo).
La parola esce dal tempio e invade la
piazza; da privilegio dei sacerdoti diviene conquista delle scuole oratorie, e
da formale in senso aristocratico diviene formale, direi quasi, in senso
democratico, come forma per se stessa coltivata per rivestire e abellire
qualsiasi contenuto, e anzi come mezzo quasi estrinseco perpotenziare ogni
contenuto di pensiero. I nuovi maestri della parola sono i sofisti.
(…)
Così, negato al diritto il fondamento naturale della autorità e della
tradizione, che ne sono la vera forza, resta, come sua unica fonte, la convenzione degli uomini; come unico fine,
l’utilità dei più forti.
Convenzionale è il diritto, non solo come diritto privato ma anche come diritto
pubblico e punitivo; il meccanismo della votazione e promulgazione delle leggi
annulla, con la sua spiegazione apparente, ogni ragione ideale del diritto e
delle leggi, che è insita nell’idea stessa e non già nelle sue esteriori
manifestazioni. Quindi, in ultima istanza, l’equità e la giustizia travolte
anch’esse nel vortice dell’apparenza, assumono il carattere di un arbitrio
convenuto dalle maggioranze: “ciò che a ciascuna città pare giusto e bello, tale
è per essa”.
7.1.22
Fine dell’Atlante. Marco Aurelio.
Tutto può toglierci la
morte tranne quello che non abbiamo mai avuto; quello che non siamo. Ed è questa la nostra ricchezza e la nostra
salvezza! Perché se siamo ciò che non
abbiamo, o se abbiamo ciò che non siamo, la morte non può toglierci nulla.
Febbraio
06.2.22
Dunque il divenire potrebbe essere per Eraclito l’essere che è tutto ma che mostra
sempre aspetti diversi di se?
Zeller: Ma l’errore fondamentale della maniera dominante di rappresentarsi le
cose consiste, secondo E. in ciò: che essa attribuisce alle cose una stabilità
dell’essere e quindi un valore che ad esse non compete, invece di veder in esse
solo le fuggevoli apparenze di un’essenza che tutte le genera e le riprende in
sé, e si mantiene come l’unica
permanente nel cambiamento incessante. (il
cambiamento delle cose è solo dunque fuggevole apparenza, cioe un mostrare
sempre aspetti diversi dell’unica essenza che tutto comprende, cioè è il fatto
di poter vedere noi, per nostri limiti, solo un aspetto e soltanto uno per
volta della totalità dell’essere.)
In verità non c’è nulla di permanente al di fuori di essa nel mondo ma tutto è coinvolto in un mutamento ininterrotto17 (dunque solo l’essenza è permanente, ma viene percepita da noi nella forma della mutevolezza degli aspetti) come una corrente nella quale sempre nuove onde scacciano le anteriori18; e che con ciò E. non abbia affermato solo la transitorietà di tutti gli esseri particolari, ma dichiarato che ogni persistenza durevole di una cosa è un’illusione, ci è espresso, oltre che da tutti gli altri nostri testimoni, a partir da Platone e Aristotele, anche da Eraclito stesso nel (50) modo più inequivoco19.
(questa è la radicale inversione del pensiero di Eraclito, che invece considerando il cambiamento come divenire degli aspetti fuggevoli affermava la permanenza dell’essere che tutto in se contiene! Esattamente come Pamenide)
Niente resta ciò che è, tutto trapassa nel suo contrario, tutto proviene da
tutto, tutto è tutto. Il giorno è ora più breve, ora più lungo, e così anche la
notte; il caldo e l’umidità si scambiano; il sole è ora più vicino ora più
lontano. Il visibile trapassa nell’invisibile e l’invisibile nella visibilità;
l’uno entra nel posto dell’altro, l’uno perisce per opera dell’altro; il grande
si nutre del piccolo, il piccolo del grande. Anche riguardo all’uomo, la natura
al tempo stesso gli prende certe parti ed altre glie ne dà; lo fa più grande in
quanto glie le dà e più piccolo in quanto (53) glie ne prende; e le due cose
avvengono insieme20.
(54) Giorno e notte sono la stessa cosa21, ossia un unico essere che ora è
luminoso, ora è oscuro22; salutare e funesto23, sopra e
sotto24, principio e
fine25, mortale (61)
e immortale26
sono la stessa cosa. (qui Eraclito dice chiaramente che esiste un
essere unico che contiene tutti gli opposti)
Malattia e salute, fame e sazietà, fatica e riposo coincidono; la divinità è
giorno e notte, estate e inverno, guerra e pace, abbondanza e scarsità; tutto è
uno, tutto diventa tutto27.
Dall’essere vivente proviene il morto, e dal morto il vivente, dal giovane il
vecchio e dal vecchio il giovane, dal desto il dormiente e dal dormiente il
desto; la corrente della generazione e del trapasso non si arresta mai;
l’argilla di cui son fatte tutte le cose viene modellata in sempre nuove forme28. Su questo incessante movimento si
fonda tutta la vita e il sentimento della vita29; solo in esso consiste essenzialmente
l’esistenza delle cose.
Ma questo movimento è solo apparente,
rispetto all’essenza che tutto contiene.
Mentre dunque Parmenide nega il divenire per tener fermo il concetto dell’essere nella sua purezza, Eraclito viceversa nega l’essere per non derogare alla legge del divenire. Mentre quegli dichiara la rappresentazione del cangiamento e del movimento una illusione dei sensi, questi dichiara tale la rappresentazione dell’essere permanente; mentre quegli trova fondamentalmente errata la comune maniera di pensare in quanto ammette il nascere e il perire, questi giunge a una conclusione altrettanto sfavorevole fondandosi sulle ragioni opposte.
L’inversione interpretativa quindi con Zeller è compiuta.
Sul
presente.
Zeller: se tutto si
cambia ed esiste solo in questo cangiamento, allora tutto è un che di mezzo tra
due opposti, e quale che sia il punto che si possa prendere nel flusso del
divenire, sempre si ha solo un punto di passaggio e di confine, nel quale si
toccano proprietà e stati opposti.
Questo è il presente. Posto cioè che il
cangiamento sia solo percezione forzata delle diversità degli aspetti uno per
volta, tale cangiamento (apparente) continuo prococa comunque un flusso del
divenire che si manifesta nel presente, (il cambiamento degli aspetti), cioè il
presente è un che di mezzo tra due
opposti, il modo nel quale si toccano proprietà e stati opposti, che sono tali
secondo l’interpretazione corrente, ma che in realtà sono aspetti diversi dello
stesso essere.
Tutta la vita della natura è un
avvicendarsi ininterrotto di stati e fenomeni opposti, ed ogni cosa singola è,
o meglio diviene ciò che è, soltanto attraverso un inesauribile insorgere di
opposizioni, fra le quali essa medesima sta nel mezzo.
L’inesauribile mostrarsi delle opposizioni
non è che il nostro modo di percepire l’essere attraverso apparenti
inesauribili opposizioni che in realtà sono la nostra possibilità di percepire
un ente che è tutto in sé, che contiene tutte le opposizioni ma che noi
possiamo cogliere per via logica solo come successione delle stesse e dunque
come soggetto ad un perenne mutamento.
06.02.22
Il divenire è il sogno dell’assenza,
di ciò che non possiammo essere.
E’ il nostro sogno dell’universo.
Sempre andando avanti nella ricerca aumenta la confusione, perché quello che
avevo scritto alla luce dei nuovi progressi deve essere riscritto. E piani
sempre differenti e nuovi si creano, cioè luoghi di relazione tra idee, che
prima non esistevano e che a loro volta danno vita, cioè nei quali si formano, idee diverse.
Questa è l’impossibilità di riuscire a
tenere insieme tutto, l’annuncio della tragedia.
Dunque è la morte la tragedia? Il
perdere tutto? No, la tragedia è la vita, perché Tutto l’abbiamo già perso, e
nella sua assenza e nel suo ricordo dobbiamo vivere.
La tragedia è consapevolezza: Cézanne: “La
vita è spaventosa”.
Allora cos’è propriamente tragico? Il fatto di poter sentire un senso di appartenenza alla natura, ad ogni cosa sulla terra, cioè alla Terra, e di poterlo sentire solo nel monento in cui da essa ci si distacca, diventando Soggetto.
Cioè percepire un senso di appartenenza
solo nel momento in cui si crea una distanza tra il Sé che si sente di essere e
il Tutto a cui si vorrebbe appartenere. Solo nel momento in cui non se ne fa
più parte. Senso che fino a quando si faceva parte del Tutto, ma inconsapevolmente,
non si avvertiva.
Il fatto tragico dunque consiste nel desiderare di essere ciò che si era ma non
si è più, né si può tornare ad essere.
E solo attraverso l’arte, per il tempo breve del godimento estetico, o nel
breve tempo della memoria involontaria, si può provare di nuovo questo senso di
appartenenza. Passando poi tutta la vita ad evocarlo.
Questo discorso, cioè questa sequenza di
pensieri, si sovrappone e si confonde al discorso sul passato. Ma solo
apparentemente.
Pensare infatti il passato come continua presenza di ciò che è accaduto, significa considerare noi stessi
come totalità vivente (nel senso di ancora in presenza) di tutto ciò che abbiamo fatto e provato. E
quindi come permanente potenzialità di tutto.
Riusciamo ad avere questa consapevolezza per il tempo breve della memoria
involontaria, o nel ricordo puro stimolato dai segni dell’arte. Gli stessi
segni che sono capaci di farci provare ancora quel senso di appartenenza al
Tutto (che sentiamo in quanto l’abbiamo perduto). In quel preciso momento colleghiamo noi
stessi al Tutto, e lo facciamo istituendo un piano temporale idoneo, il piano
temporale nel quale noi siamo noi stessi nel nostro Tutto e nel Tutto di cui
facciamo parte! Due enti qualsiasi infatti possono entrare in relazione solo se
condividono lo stesso piano dimensionale. Che però è un piano temporale –ecco
la differenza che mette in difficoltà la mente logica – essendo il tempo lo
spazio della relazione (cioè una relazione non avviene in un luogo, ma in un
tempo). La nostra essenza cioè condivide
lo stesso piano temporale del Tutto, e solo quando riusciamo a portarci (grazie
ai segni) dentro quel piano riusciamo ad avere cognizione della nostra essenza
e insieme dell’essenza del Tutto. Perché la nostra essenza e l’essenza del
Tutto sono la stessa cosa: dissolvimento nella relazione di tutto con tutto.
Dissolvimento assoluto nella conoscenza assoluta.
Essere Tutto e quindi Tutto sapere perché Tutto si accoglie, e da Tutto ci si
lascia attraversare, non avendo più alcun Sé che dal Tutto ci divide.
Dunque avere consapevolezza della nostra
essenza (l’interezza della nostra vita nella sua reale dimensione temporale in
cui il passato è sempre presente e ogni futuro è sempre possibile), significa avere consapevolezza di essere parte
del Tutto che in ogni momento accade, cioè si manifesta, tutto intero nel
momento particolare, un universo in un attimo.
Sempre Cézanne: “C’è un minuto del mondo che passa. Bisogna dipingerlo nella
sua realtà.”
Significa cioè avere consapevolezza, in quanto se ne è parte, del fluire della
vita. Noi, in quanto fluire del nostro tempo passato nel nostro tempo futuro,
siamo fluire, cioè movimento di relazione, del Tutto nel Tutto. Cioè del venire
in essere della vita. Che propriamente un venire non è, perche non proviene da
un luogo altro, ma è semplicemente il farsi; il farsi continuo della vita.
I due discorsi, quello sul passato e quello sul Tutto, dunque non possono confondersi, semplicemente perché non sono due. Ma sono uno e lo stesso.
7.2.22
L’armonia
L’armonia per Zeller Moldolfo Eraclito è unione degli opposti che dall’Uno
derivano e nell’Uno confluiscono.
Per me invece Armonia è il modo di rapportarsi (composizione) di forme (enti)
che mattendoli in relazione li cambia facendoli diventare segni -> simboli
di qualcos’altro. Cioè le cose messe in relazione con Armonia cambiano la loro
stessa natura diventando qualcosa che va oltre ciò che erano prima.
Armonia (Treccani)
E’ una delle due inseparabili manifestazioni della tonalità, cioè dell’ordine
dei rapporti fra suoni di varia altezza. Quando i suoni si combinano
simultaneamente ha luogo l’armonia; invece quando si combinano in successione
ha luogo la melodia. Perciò l’armonia è
la scienza delle combinazioni musicali simultanee. C’è chi vi scorge i suoni
combinati in ordine di spazio, ovvero di combinazione verticale, mentre nella
melodia is suoni si presentano in ordine di tempo, o di combinazione orizzontale. In pratica,
spesso armonia vale accordo, ossia
singola combinazione di suoni contemporanei.
( che producono un suono diverso da quello che i signoli suoni, singolarmente
suonati, producono. Per qesto i singoli suoni si trasformano diventando,
insieme agli altri, cioè nella relazione con altri, cosa diversa.)
Composizione (musica) Treccani
Se, genericamente, comporre significa, come si trova scritto in tutti i
lessici, mettere insieme, comporre musica vorrà dunque dire mettere insieme
suoni differenti. Non però, un suono sopra l’altro, ma uno di seguito
all’altro; ché, infatti, un accordo da sé (un accordo, che è appunto la
risultante e l’effetto di più suoni posti uno sull’altro) non dice ancora
nulla, e non acquista valore, significato,
espressione, se non in rapporto
all’accordo che lo precede e, quando non sia stato un accordo
conclusivo, a quello che lo segue.
Comporre musica è dunque mettere insieme suoni differenti, siano essi multpli,
cioè accordi, o singoli; armonia, cioè, o melodia.
Allo stesso modo, in un verso il modo degli accenti produce una armonia che fa suonare le parole insieme facendole diventare qualcos’altro, cioè poesia. Mentre il parlare discorsivo è paragonabile alla melodia, cioè a una sequenza di suoni disposti uno dopo l’altro, in successione. L’armonia è l’accordo, il suono è il canto. Il canto è il tempo ordinario, l’accordo è il tempo che tiene insieme cose diverse.
8.2.22
Perdere la vita non significa smettere di vivere, ma vivere lasciando che la vita si
perda. Quanta essenza vitale dissipata in esseri che di umano non hanno più
nulla, neanche la sostanza!
15.2.22
Ognuno dovrebbe avere un posto in cui stare, il proprio posto. Ma se dedichi la tua vita a costruire o a
mantenere il posto in cui stare, il tuo stare sarà servito solo a quello.
Il mio stare è sempre stato uno stare in cerca di qualcos’altro che il dato mediato
(da qualcuno o da qualcosa): cioè il dato im-mediato, che però non si può dire così, perché se è
im-mediato non può essere dato (da qualcuno o qualcosa che – appunto – operi
una mediazione), ma può solo darsi, senza interposizione di nulla, e cioè non
solo dell’aria, per esempio, ma neanche
della più piccola frazione di spazio o di tempo. Quindi l’oggetto della
ricerca, dello stare nella ricerca, è ciò che si dà senza mediazione. Ma ciò
che può darsi senza mediazione è solo ciò che si ha.
Inoltre niente può darsi che non venga compreso. Cioè la cosa (l’ente) si può
dare (un ente può darsi) solo nella misura in cui la nostra sensibilità è in
grado di coglierla. Un ente può dare di sé solo ciò che la nostra sensibilità è
in grado di cogliere. Quindi lo stare in cerca non è di qualcosa che è fuori di
noi, ma di quello che noi possiamo cogliere di ogni cosa. Di quello che di ogni
cosa possiamo sapere; e lo possiamo sapere perché già lo siamo.
La ricerca quindi è ricerca del limite della nostra potenzialità. Cioè: del
limite della nostra anima.
Ma il limite dell’anima, per quante strade tu possa percorrere, non lo puoi
trovare, tanto profondo esso è, dice Eraclito.
Mentre Lao Tzu dice che per conoscerlo non devi guardare fuori dalla
finestra, o uscire fuori dalla porta. Perché tanto più lontano vai tanto meno
puoi sapere. Entrambi dicono la stessa cosa.
Dicono cioè che il limite dell’anima non si può trovare, semplicemente perché
non esiste. Il limite è lì dove sei
arrivato, ma è un limite che domani supererai, per portarlo oltre. Non c’è un
limite fisico dunque alla potenzialità, cioè alla capacità di conoscenza
dell’essere delle cose, ma solo una necessità; cioè la necessità, ad un certo
momento, di dover interrompere il lavoro. Non concluderlo, quindi, perchè non
c’è alcun traguardo da raggiungere, ma interromperlo, per sopraggiunta
necessità. Si tratta quindi di compiere un lavoro che non può avere un esito,
il che rappresenta una aporia, una contraddizione in termini, la contraddizione
fondamentale, perché ongi lavoro è finalizzato al raggiungimento di uno scopo. Ma
è una contraddizione solo apparente, è la falsa contraddizione dell’Occidente,
quella contraddizione, cioè su cui l’Occidente fonda il suo dominio. Perché invero anche questo lavoro, apparentemente
inconcludente, cioè che non può raggiungere una conclusione, invece ha uno
scopo preciso: che non è appunto quello di concluderlo, cioè di raggiungere
l’obbiettivo che ci si era prefissati, di raggiungere un traguardo; ma il suo
esatto contrario: cioè quello di portare tale traguardo sempre più avanti.
Spingere il confine tra ciò che ci è noto e ciò che rimane oscuro, sempre più
in là.
Se stare, cioè esistere, dunque significa non stare in cerca del limite della
tua anima, ma portarlo sempre più in là nella direzione della cognizione, della
apprensione, del fare proprio, di essa, non puoi avere una casa, perché hai
bisogno di muoverti.
Hai bisogno cioè di seguire ogni più piccola traccia, aprire ogni porta che si
svela, che si manifesta, che appare;
percorrere ogni direzione che anche soltanto si mostri in nuce, cioè nel
suo farsi. Anzi, è proprio percorrendola che la direzione si forma, e quindi
coglierne il getto vitale e farlo crescere. Solo in questo modo, cioè esperendo
ogni più piccola possibilità di esperienza, facendo vivere e crescere ogni più
piccola forma del tempo, dandole spazio, puoi portare più in là il limite della
tua anima, cioè puoi portarti più avanti – ma non nel senso di oltre, oltre il
punto cui già eri giunto; bensì nel senso di “qualcos’altro” rispetto a quello
che già eri. E quindi, essendo tutto ciò che puoi conoscere già parte di te,
conoscere qualcos’altro di quello che sei.
Per questo non puoi avere una casa, che sarebbe una casa che ogni giorno dovrebbe
essere ampliata, ristrutturata, cambiata nella forma e nei colori, per
adeguarsi a quello che ogni giorno diventi, che è qualcos’altro rispetto a
quello che il giorno precedente eri.
Un ricovero per le tue cose, un luogo di silenzio, di luce e di ombra. Solo questo ti serve. Una condizione, cioè,
nella quale fare crescere la casa che sei; quella casa dalla quale la tua
anima, che sempre spingi avanti, può muovere.
16.02.22
23.02.22
Liniti del bergsonismo 1
Bergson, Il pensiero e
il movente.
Introduzione p.6:
Fummo in effetti molto colpiti dalla
constatazione che il tempo reale sfugga alle scienze matematiche. Poiché la sua essenza consiste
nel passare, nessuna delle sue parti è ancora lì quando un’altra si presenta.
La sovrapposizione di una parte sull’altra in vista della misura è dunque
impossibile, inimmaginabile, inconcepibile.
Non c’è dubbio che un elemento convenzionale rientri in ogni misura, ed è raro
che due grandezze considerate uguali, siano direttamente sovrapponibili fra
loro. Occorre, inoltre, che la sovrapposizione sia possibile per uno dei loro
aspetti o dei loro effetti, il quale conservi qualche cosa d’esse: questo
effetto, questo aspetto, sono allora ciò che si misura. Ma, nel caso del tempo,
l’idea della sovrapposizione implicherebbe un’assurdità, perché ogni effetto della durata che fosse
sovrapponibile a se stesso, e per conseguenza misurabile, avrebbe per essenza
di non durare.
(Qui il discorso perde un po’ in efficacia. Ho pensato, per esplicarlo meglio, a questo esempio: non posso misurare l’effetto dello spostamento di una mano in un secondo. Cioè non posso misurare lo spazio esistente (la distanza) tra la posizione iniziale della mano e la sua posizione finale, dopo un secondo; perché quando la mano è nella posizione finale non è più nella posizione iniziale, dunque non ho alcun riferimento spaziale che posso utilizzare per prendere la misura. Fissare un segno, nella posizione iniziale della mano, per confrontarlo e quindi misurarlo con la posizione finale della mano significa operare una alterazione nella dimensione dell’esperienza, una discontinuità nel flusso temporale (interrompendolo nei due momenti) che nella realtà non esiste, proprio perché la mano non può essere dove era prima, essendo dove è ora. Misurare gli effetti di ciò che nella durata esiste, cioè di ciò che esiste nel mondo reale, ci conduce su un piano inesistente, virtuale, cioè mentale, esistente solo nella nostra mente. E tuttavia è per noi inevitabile, essendo noi votati, creati per l’operatività.
Non bisogna dimenticare la differenza tra il mutamento dell’essere come lo intende Bergson, e il mutamento dell’aspetto dell’essere, come loo intendo io)
Noi sapevamo bene che la durata si
misura mediante la traiettoria di un mobile e che il tempo matematico è una
linea; ma non avevamao ancora considerato che questa operazione è in contrasto
radicale con tutte le altre operazioni di misura, perchèù essa non si realizza
su di un aspetto o un effetto rappresentativo di ciò che si vuole misurare, ma
su qualche cosa che l’esclude. La linea che si misura è immobile, il tempo è
mobilità. La linea è qualcosa di fatto, il tempo è ciò che si fa, ed anche ciò
che fa che tutto si faccia.
Giammai la misura del tempo attinge la durata in quanto durata: viene contato
soltanto un certo numero di estremità d’intervalli, o di momenti, cioè tutto sommato degli arresti virtuali del
tempo.
…
Il ruolo della scienza (ma forse si dovrebbe intendere scienza come attività
del conoscere, come intelligenza) è di
prevedere. Del mondo materiale essa estrae e considera ciò che è suscettibile
di ripetersi e di essere caklcolato, dunque ciò che non dura. Non fa altro,
così, che seguire la direzione del senso comune, il quale è un inizio di
scienza: correntemente, quando parliamo del tempo, noi pensiamo alla misura
della durata, piuttosto che alla durata stessa. Ma questa durata, che la
scienza elimina, che è difficile concepire ed esprimere, la si sente e la si
vive.
(perché è difficile concepirla ed esprimerla? Perché è diventato difficile concepirla ed esprimerla?)
Cos’è
la durata per una coscienza che vuole viverla senza misurarla? E come se ne può
avere cognizione? Bisogna che la coscienza prenda se stessa come oggetto. E
questo è quello che comunemente si definisce “vita interiore”.
Ben presto individuammo
l’insufficienza della concezione associazionistica dello spirito. Questa
concezione, comune allora alla maggiorparte dei filosofi e degli psicologi, era
l’effetto di una ricomposizione artificiale della vita cosciente.
…
Che la scienza positiva si fosse disinteressata della durata, niente di più
naturale, pensavamo: la sua funzione, forse, è precisamente di struttutarci un
mondo in cui possiamo, in vista dell’azione, ignorare gli effetti del tempo (qui è sbagliato: sarebbe stato più
corretto dire: ignorare la natura del tempo.)
Ma la filosofia di Spencer, dottrina dell’evoluzione, fatta per seguire il
reale nella sua mobilità, nella sua maturazione interiore, come aveva potuto
ignorare il mutamento stesso?
(Limiti della filosofia
dell’ottocento, e non solo di quella di Spencer)
Passando in rassegna i sistemi
constatavamo che i filosofi non se ne erano affatto occupati. Nel corso
della storia della filosofia tempo e spazio sono considerati allo stesso rango
e trattati come cose dello stesso genere. Si studia lo spazio, se ne determina
la natura e la funzione, poi si estendono al tempo le conclusioni ottenute. La
teoria dello spazio e quella del tempo si rimandano così reciprocamente. Per
passare dall’una all’atra è bastato cambiare una parola: si è sostituito
giustapposizione con succesione.
(questo passaggio è
fondamentale: non viene colta da B. la
possibilità, l’intuzione alla quale pure si era avvicinato: basta estendere in
concetto di giustapposizione al tempo, e non allo spazio, per concepire la
natura reale del tempo, e quindi del passato. Cioè la concezione che è alla
base della mia ricerca. Il tempo non passa, ma ogni avanzare del tempo si
affianca a quello già presente, in una giustapposizione che non ammette
direzioni, ma solo estensione. Tutto l’equivoco nasce dall’assimilare gli stati
della coscienza al tempo, pensare cioè che gli stati della coscienza si
succedano come le giornate, o la varie fasi della giornata; pensare cioè che la
coscienza segua il percorso del sole. Ma come il sole sta sempre fermo, allo
stesso modo la coscienza non passa, non evolve nel senso del mutamento.
Semplicemente, come la terra, gira su se stessa.
I nostri cambiamenti, quello che noi percepiamo come nostro cambiamento, é come
il movimento apparente del sole e delle stelle: siamo noi che mostriamo
(portiamo fuori) aspetti sempre diversi di noi ma che fanno tutti parte di noi,
aspetti diversi della molteplicità di aspetti che siamo e che conteniamo. Siamo
noi che, girando su noi stessi, cioè portando fuori ciò che la condizione
esterna richiama, ci mostriamo agli altri sempre diversi, sembriamo cambiare.)
Dalla durata reale ci si è distolti sistematicamente. Esaminando le dottrine ci sembrò che il linguaggio vi avesse giocato un grande ruolo. La durata si esprime sempre come estensione. I termini che designano il tempo sono mutuati dalla lingua dello spazio. Quando evochiamo il tempo, è lo spazio che risponde all’appello. La metafisica ha voluto conformarsi alle abitudini del linguaggio, le quali a loro volta si regolano su quelle del senso comune.
(questo passaggio è superficiale e approssimativo: è vero che il linguaggio costringe il pensiero entro ambiti che gli impediscono di cogliere la reale essenza del tempo, ma non al livello segnico, rispetto cioè alla capacità delle singole parole di richiamare, dare vita, definire, l’oggetto che nominano , ma al livello della capacità di percezione. La parola estensione è adatta a definire la durata, come la parola permanenza è adatta a definire la natura del tempo. E’ la percezione fondata sulla selezione e sull’associazione di fenomeni simili e unidirezionali, mutuata dal linguaggio, che impedisce di percepire la reale essenza del tempo. )
Ci apparve che una delle funzioni
dell’intelletto era proprio quella di nascondere la durata, sia nel movimento
che nel mutamento.
Rispetto al movimento l’intelligenza non prende in considerazione che una serie di posizioni: prima rintraccia un
punto, poi un altro, poi un altro ancora. Si obbietta all’intelletto che tra
questi punti succede pur sempre qualcosa? Subito esso inserisce nuove
posizioni, e così di seguito indefinitamente.
…
Se noi insistiamo, fa sì che la mobilità, sospinta in intervalli sempre più
ristretti man mano che aumenta il numero delle posizioni considerate, arretri,
si allontani, sparisca nell’infinitamente piccolo. La nostra azione non si
esercita vantaggiosamente che su punti fissi: è dunque la fissità che la nostra
intelligenza cerca; essa si domanda dove il mobile è, per dove passa.
…
Da qui a non vedere nel movimento che una serie di posizioni, non vi è che un
passo; la durata del movimento si decomporrà allora in “momenti” corrispondenti
a ciascuna delle posizioni. Ma i momenti del tempo, e le posizioni del mobile,
non sono che istantanee prese dal nostro intelletto sulla continuità del
movimento e della durata. Con queste
vedute giust’apposte si ottiene un succedaneo pratico del tempo e del movimento
che si piega alle esigenze del linguaggio, in attesa di prestarsi a quelle del
calcolo; ma non si ha che una ricomposizione artificiale. Il tempo e il
movimento sono altra cosa.
Diremo altrettanto del mutamento.
L’intelletto lo decompone in stati successivi e distinti considerati
invariabili.
…
Come non vedere tuttavia che l’essenza della durata è di scorrere, e che
affiancare immobilità a immobilità non porterà mai a nulla che duri? Ciò che è
reale non sono gli stati, semplici istantanee prese da noi, ancora una volta,
nel corso del mutamento; è al contrario il flusso, è la continuità della
transizione, è il mutamento stesso. Questo muta,mento è indivisibile, e anche
sostanziale. Se la nostra intelligenza si ostina a considerarlo inconsistente,
è perché esaa lo ha sostituito con una serie di stati giustapposti; ma questa
molteplicità è artificiale, e artificiale è anche l’unità che vi viene ristabilita.
Non vi è qui se non unaspinta inisterrotta di mutamento – di un mutamento
sempre aderente a se stesso in una durata che si prolubnga senza fine.
…
La metafisica data dal giorno in cui Zenone ‘Elea segnalò le contraddizioni
inerenti al movimento e al mutamento, così come se li rappresenta la nostra
intelligenza. Lo sforzo principale dei filosofi antichi e moderni mirò a
superare e ad aggirare queste difficoltà sollevate dalla rappresentaqzione
intellettuale del movimento e del cambiamento attraverso uno lavoro
intellettuale sempre più sottile. E’
così che la metafisica fu condotta a cercare la realtà delle cose al di sopra (al di fuori) del tempo, al di
là di ciò che si muove e muta, al di fuori, quindi di ciò che i nostri sensi e
la nostra coscienza percepiscono.
(una metafisica vera quindi deve cercare la realtà delle cose al di qua di ciò che i nostri sensi e la nostra coscienza percepiscono, cioè cercando dentro di noi (e non fuori) la vera essenza delle cose.)
Da allora in poi essa non poteva più
essere che una sistemazione più o meno artificiale dei concetti, una
costruzione ipotetica. Pretendeva oltrepassare l’esperienza; non faceva in
realtà che sostituire all’esperienza mobile e piena, suscettibile di un
approfondimento crescente, e perciò gravida di rivelazioni, un estratto
pietrificato, disseccato, svuotato, un sistema di idee generali astratte,
tratte dalla stessa esperienza o piuttposto dai suoi strati superficiali.
Tanto varrebbe dissertare sull’involucro da cui si libererà la farfalla e
pretendere che la farfalla che vola, che muta, che vive, trovi la sua ragion
d’essere e il suo compimento nella immutabilità della membrana. Distacchiamo, al contrario, l’involucro.
Risvegliamo la crisalide. Restituiamo al movimento la sua mobilità, al
mutamento la sua fluidità, al tempo la sua durata. Può darsi, così, che i grandi problemi
irrisolti restino sulla membrana. Essi
non riguardavano né il movimento né il mutamento né il tempo, ma solamente
l’involucro concettuale che noi prendevamo, sbagliando, per questi ultimi. La
metafisica diventerà allora l’esperienza stessa. La durata si rivelerà per
quello che è, reazione continua, zampillio ininterrotto di novità.
Marzo
02.03.22
Bergson riprende Eraclito e ne riafferma l’importanza, la verità,
sull’imbroglio razionalista dell’occidente. La differenza sostanziale consiste
nel fatto che B. ritiene che l’Essere muta continuamente. Io invece ritengo che
l’Essere mostri continuamente aspetti diversi di sé.
L’armonia è l’Essere che si pensa nella sua pienezza.
In Eraclito l’armonia non è un fatto estetico, non è una regola attraverso la
quale si compongono stati diversi dell’Essere nell’Unità.
Per Eraclito la ricomposizione di tutte
le cose è una conseguenza del flusso cosmico, è una legge di natura per la
quale ogni cosa si scompone nei suoi elementi e in questo modo torna a far
parte del Tutto.
05.03.22
Sulla natura dell’Essere
Eraclito – Zeller
8. Il principio di contraddizione.
(p. 123)Per queste affermazioni, Aristotele ed i suoi commentatori accusano
Eraclito di negare il principio di contradizione 63;
autori moderni invece lo lodano d’aver riconosciuto per primo l’unità
dei contrari e l’identità di essere e non essere, e d’averne fatto il
fondamento del suo sistema 64. Se non che non è esattamente giusta né l’una cosa né
l’altra – né che vi si vegga un difetto, né che vi si vegga un pregio.
Il principio di contraddizione sarebbe oppugnato da Eraclito solo nel caso che
egli affermasse che le determinazioni
opposte possano convenire allo stesso soggetto non solo al tempo stesso, ma
anche sotto lo stesso rapporto.
Ma egli non afferma questo: osserva bensì che un unico e stesso essere assume le forme più opposte e
che in ogni cosa sono congiunte le più opposte condizioni e proprietà, fra le
quali essa si libra come alcun che in divenire;
ma non dice che esse qualità opposte gli convengano sotto un unico e
stesso rapporto, e non lo dice senza dubbio perché non s’è ancora affatto
chiesto come si comporti a tale riguardo questa determinazione che , a nostra
scienza, fu presa in esame solo da Platone ed Aristotele 65.
Ma d’altra parte egli ha parlato altrettanto poco dell’unità degli opposti,
dell’unità di essere e non essere in questa forma universale, ed essa non
discende neppure così direttamente dalle sue sentenze; poiché c’è la sua differenza fra il dire
che un solo e stesso essere sia luminoso e oscuro, giorno e notte, ed un solo e
medesimo processo siano il nascere e il perire, etc., e il dire invece che fra
giorno e notte, essere e non essere come tali non ci sia alcuna differenza; in
altre parole, affermare la coesistenza degli opposti nello stesso soggetto,
oppure la loro identità. Solo la prima affermazione risulta dagli esempi
che Eraclito per conto suo adduce, ed egli non aveva neppure alcun motivo per
andare più oltre, perché non si occupava di logica speculativa ma di fisica 66.
Solo non si dovrà perciò attenuare la sua proposizione 67 supponendo
che egli debba aver detto soltanto “la stessa cosa mostra o contemporaneamente,
se è posta in relazione con parecchie altre in una volta, o successivamente, se
è posta di fronte sempre a una cosa sola, ma variabile, proprietà assai
diverse”. Non lo si dovrà quindi neppur erigere a fondatore della dottrina
della “relatività delle qualità” 68. Eraclito dice bensì (vedi sotto) che
per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini ritengono giusta una cosa e
ingiusta un’altra; ma egli non vuole con ciò dichiarare che la differenza fra
giusto e ingiusto abbia un valore puramente relativo, bensì vuole opporre la
sapienza divina alla ristretta visione umana, che non s’accorge che tutto nel
mondo è buono al suo posto 69. Egli osserva anche che ciò che è salutare per l’uno è
fatale per l’altro (vedi sopra); ma ciò che ne conclude non è la proposizione
che l’azione salutare o rovinosa di una cosa indichi un’unica e sola relazione
di essa con le altre cose, ma l’opposto, cioè che la cosa sia in sé stessa entrambe
le cose, salutare e distruttiva al tempo stesso 70.
Anzi, è proprio caratteristico del nostro filosofo e della mancanza di tecnica
logica, di cui egli non è il solo esempio al suo tempo 71, il fatto che
egli rimanga fermo al pensiero generale che ogni cosa abbia in sé proprietà
opposte e non si proponga invece ancora il problema sotto quali condizioni e in
qual senso sia possibile questa coesistenza degli opposti, e quindi neanche
arrivi a rispondervi con la distinzione fra ciò che appartenga a una cosa in sé
stessa e ciò che le appartenga solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le
appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che
le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata
relazione.
(discutibile interpretazione d Zeller: “non si dovrà perciò attenuare la sua proposizione 67 supponendo che egli debba aver detto soltanto “la stessa cosa mostra, o contemporaneamente, se è posta in relazione con parecchie altre in una volta, o successivamente, se è posta di fronte sempre a una cosa sola, ma variabile, proprietà assai diverse”
“Non lo si dovrà quindi neppur erigere a
fondatore della dottrina della “relatività delle qualità””
Forse invece si! Le motivazioni addotte da Zeller per non
erigerlo a fondatore della dottrina della relatività delle qualità non sono
così pregnanti: “Eraclito dice bensì che per il Dio tutto è giusto, e che
solo gli uomini ritengono giusta una cosa e ingiusta un’altra; ma egli non
vuole con ciò dichiarare che la differenza fra giusto e ingiusto abbia un
valore puramente relativo, bensì vuole opporre la sapienza divina alla
ristretta visione umana, che non s’accorge che tutto nel mondo è buono al suo
posto”, ma questo non sembra essere pertinente al discorso della relatività delle
qualità. Poi si contraddice:
“Egli osserva anche che ciò che è
salutare per l’uno è fatale per l’altro (vedi sopra); ma ciò che ne conclude
non è la proposizione che l’azione salutare o rovinosa di una cosa indichi
un’unica e sola relazione di essa con le altre cose, ma l’opposto, cioè che la
cosa sia in sé stessa entrambe le cose, salutare e distruttiva al tempo stesso 70.”. Quindi la cosa ha qualità diverse, ovvero
mostra di avere qualità diverse perché diversi enti colgono di essa diversi
aspetti.
Zeller ritiene che Eraclito rimanga
fermo al pensiero generale che ogni cosa abbia in sé proprietà opposte e non si
proponga invece ancora il problema sotto quali condizioni e in qual senso sia
possibile questa coesistenza degli opposti, e
questo perché egli non si occupa di logica ma di fisica. Zeller, cioè ritiene
Eraclito un fisico, interpretazione smentita dalle ricerche posteriori (vedi la
nota 65 di M.).
Forse Eraclito non si pone il problema perché non lo ritiene un problema. Come
egli stesso dice di seguito Eraclito infatti non fa differenza fra ciò che
appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartenga solo in relazione ad
un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa
successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi
solo in una determinata relazione. Perché
quello che appartiene a una cosa in sé
stessa è ciò (è la stessa cosa di ciò) che le appartiene solo (cioè di volta in volta, e perciò ogni volta
in maniera apparentemente diversa) in
relazione ad un’altra; e ciò che le appartiene contemporaneamente è la stessa
cosa di ciò che successivamente (in successione) mostra; e ciò che le tocca in
una determinata relazione non è che ciò che del suo assoluto l’altra parte
riesce a cogliere.
Sembrerebbe che anche per Eraclito l’essere sia Uno e immutabile, come per Parmenide. E allo stesso modo: per Parmenide i cambiamenti che si manifestano attraverso il divenire sono “interpretazione”, sono ciò quello che della cosa ognuno vede; per Eraclito sono diversi aspetti dello stesso ente che si mostrano in momenti differenti.
Sia
in Parmenide che in Eraclito l’unità dell’Essere che si manifesta attraverso il
divenire, e quindi il confluire del tutto nell’uno che sempre è, rimane un
fatto fisico, una regola generale della Natura.
Questo si vede particolarmente in
Eraclito, per il quale l’armonia non è un fatto estetico, non è una regola
attraverso la quale stati diversi di un ente si
possono comporre in una unità, ma
piuttosto una necessità di natura, in virtù della quale ogni cosa fluendo, cioè
compienmdo il suo percorso, si scompone nei suoi elementi (il fuoco che diventa
acqua che diventa terra, che torna ad essere acqua e diventa di nuovo fuoco) e
in questo farsi torna a far parte del tutto.)
9. L’armonia. 2
(127) Ma per quanto sia necessario che tutto si dissolva in opposti,
altrettanto necessario è che gli opposti tornino a riunirsi nell’unità, poiché
ciò che più è opposto nasce dall’uno e medesimo, è un essere unico che nel
corso delle sue mutazioni procrea gli opposti e torna a distruggerli, che in
tutte le cose genera se stesso e nel gioco delle azioni contrastanti conserva
il tutto come uno 72. In quanto si separa da (133) sé, si unifica con se stesso
73; dalla lotta (opposizione!) nasce
l’esistenza, dalla opposizione la connessione, dalla disuguaglianza l’accordo;
dal tutto viene l’Uno 74; tutto si sottomette alla divinità per l’accordo della
totalità; anche il disuguale si unifica qui
a produrre l’uguaglianza; anche ciò che appare un male agli uomini è per
essi un bene 75; e da tutto risulta quella occulta armonia del cosmo, alla
quale non può essere paragonata la bellezza del visibile 76. Questa è la legge
divina, alla quale tutto è sottoposto 77, la Dike di cui nulla al (140) mondo
può infrangere il decreto 78, il destino o la necessità (145) da cui tutto è
dominato 79.
Nota 72.
Approfondimento del frammento 67 D
Dio e le opposizioni in D 67.
Le molte discussioni già svolte e tuttora in corso su questo framnento sono
giustificate dall’importanza che gli va riconosciuta nell’espressione del
pensiero Eracliteo. Esso determina infatti il rapporto tra l’Uno (Dio) e la molteplicità (serie degli opposti),
indicando in Dio la fonte da cui si dispiegano tutte le opposizioni e al tempo
stesso il centro in cui tutte rifluiscono a unità e si identificano mutuamente:
anticipazione del rapporto di complicatio ed explicatio che fra Dio e la realtà
unversale affermeranno nel rinascimento
Niccolò da Cusa e Giordano Bruno. (M.)
Resta il fatto che l’armonia così intesa non ha nulla a che fare con la regola armonica. E’ solo una metafora per indicare la necessità che tutto si ricongiunga nell’uno.
Sul Logos eracliteo vedi la nota di Mondolfo pp. 152-161.
06.03.22
Zorzi, Proemio
Ora, poiché è
assai esiguo il numero degli illuminati in grado di cogliere quella luce
fulgida, ritengo che quanti desiderano ricevere l’illuminazione debbano essere
guidati attraverso i sentieri che predispongono alla percezione della luce
suprema. Questi sentieri conducono, senza dubbio, attraverso le realtà visibili
alle realtà invisibili di Dio, per mezzo di un legame armonico di affinità, che
esse intrattengono reciprocamente, in consonanza perfetta.
…
Se, tuttavia, vogliamo essere sollevati, in qualche modo, da queste realtà
visibili fino ai penetrali del cielo e a ciò che supera il mondo, percorreremo (abbandonata
la peregrinazione dell’errore) un’unica via: il cammino dei numeri,
mediante
i quali queste realtà inferiori si mostrano a chi le contempla nella loro
connessione con i mondi superiori, in virtù della loro dolcissima proporzione
armonica e della reciproca corrispondenza.
…
Dobbiamo
perciò procedere lungo i sentieri dei numeri e secondo l’ordine armonico, se
vogliamo ascendere in modo corretto e adeguato, passando per queste realtà
inferiori, fino a quelle superiori e all’Essere supremo.
Tutte le cose, infatti, si corrispondono con accordi reciproci ma diversi, in
relazione a diversi numeri. Ciò è stato materia del canto di Orfeo e, dopo di
lui, lo ha insegnato Pitagora ed è oggetto della dottrina degli stoici quando
asseriscono che il mondo e stato fatto ricorrendo alla scienza dell’equilibrio.
Platone lo presuppone, Porfirio lo afferma con molti argomenti, Giamblico lo
chiarisce, Calcidio, Proclo e il suo maestro Siriano e, per parte loro, tutti i
membri della famiglia pitagorica e accademica lo interpretano e lo confermano,
ritenendo che in natura non vi sia, tanto fra le realtà create quanto fra
quelle future, nulla di più originario ne di piu appropriato dell’armonia per mezzo
della quale tutte le parti di questo congegno risultano disposte in simmetrico
equilibrio.
…
Cosi, quale potenza e quale piacere si deve credere intimamente connesso
all’accordo tra le realta naturali e quelle divine? Perciò la verità, che è
l’adeguata
corrispondenza
delle cose, è dotata di
considerevole efficacia, anche se squadernata tra le realtà inferiori, essa
dona a chi la coglie un diletto accompagnato da una straordinaria gioia.
9.3.22
L’esperienza dell’Essere, cioè la vita, in entrambe le sue direzioni
concrescenti: quella dell’Essere che la esperisce e quella che esperisce
l’Essere: ciò di cui l’Essere fa esperienza e la contemporanea esperienza che
si fa dell’Essere, cioè che l’Essere fa di se stesso;
L’esperienza dell’essere è superiore all’esperienza divina, perché l’Essere, in quanto esperienza, finisce; ma solo in quanto esperienza può avere esperienza di sé. La vita è bella perché finisce. Altrimenti sarebbe solo vita.
10.3.22
Il duplice
aspetto tragico dell’essere: non poter
concepire la complessità dei propri aspetti nello stesso tempo, dunque non
potersi cogliere nella propria essenza, ma solo in maniera parziale, attraverso
apparenti cambiamenti di stato;
non poter vivere, analogamente, la complessità degli aspetti del reale, che
corrispondono alla complessità degli aspetti dell’essere, nel senso che si
chiamano l’uno con l’altro, uno produce/induce l’altro reciprocamente;
ma dover esperire ogni aspetto singolarmente, doverne esperire cioè uno per
volta, e poterne esperire uno soltanto, dovendo quindi operare delle scelte laddove non ci sarebbe
bisogno di scegliere;
dover scegliere e quindi dover assumere un abito tra gli infiniti che siamo,
rinunciando a frequentare gli altri.
12.3.22
Limiti del bergsonismo 3
Pensiero e movente, Olschki, p. 12:
“… Essi non
sembrano farsi alcuna idea di un’azione che sia interamente nuova e che non
preesista in alcun modo alla sua realizzazione, neanche sottoforma del puro
possibile.”
Essi sono i filosofi, anche quelli
che ammettono il libero arbitrio, ma confinato tra possibilità date. Mentre per
Bergson la realtà dell’Essere, cioè ciò
che ogni Essere è veramente, è continua creazione di azioni interamente nuove proprio perché è una realtà che deriva,
viene prodotta, dal continuo mutamento,
dalla continua evoluzione dell’essere, concepito come un flusso continuo di
essenza che dal passato plasma il futuro attraverso l’interazione col presente,
e le cui fasi continuamente si
compenetrano in una crescita
interiore.
E tuttavia la faccenda è più complicata; perché mentre
Bergson considerava il passato come parte del flusso di qualcosa che comunque
era già compiuto e definito, il passato in realtà è sì compiuto, ma non
definito, nel senso di concluso; esso permane, sempre in fieri, cioè sempre nel
formarsi dell’azione. Qualsiasi cosa fatta nel passato cioè rimane nel suo
farsi, proprio come se ancora la
stessimo facendo. Questa permanenza comporta una continua rielaborazione e
riedizione dello stesso gesto, sempre
tuttavia mutato dal mutare delle condizioni di contorno, che ne causano una
sempre diversa interpretazione. In questo senso si può dire a ragion veduta che
il passato cambia.
Quello che ho fatto in un qualsiasi momento del passato, che già non avevo
capito bene cosa fosse nel momento in cui l’ho fatto, col passare del tempo, e
col mutare delle condizioni, e quindi col cambiare del pensiero nelle cose
pensate e nel modo di pensarle, cambia
per conseguenza esso stesso nella sua propria natura, e cioè anche nel
suo aspetto materiale, diventando cosa diversa da ciò che era quando è stata
compiuta.
Il fatto che il passato cambi esso stesso produce una moltiplicazione di piani
di relazione tra le cose, le azioni, i sentimenti, i pensieri, per cui succede
che il futuro non è più prodotto, esito, delle infinite possibilità di
combinazione di cose accadute nel passato, quanto piuttosto di cose accadute
nel passato che cambiano continuamente,
instaurando in questo modo diversi piani dimensionali corrispondenti ad
ogni cambiamento, in cui le stesse combinazioni producono effetti diversi. Una
immanenza di piani dimensionali alternativi, che esistono tutti
contemporaneamente e che mutano e continuano a moltiplicarsi senza sosta, al
variare di ogni singolo aspetto.
Questo può produrre non soltanto azioni interamente nuove, ma nuove anche oltre ogni nostra possibile previsione, perché non derivanti dalla relazione tra aspetti noti e definiti, ma tra aspetti che mutano in maniera evidentemente per noi non registrabile al livello quantitativo. Ma solo al livello della differenza qualitativa, dello scarto di tono rispetto a ciò che è noto, di cui abbiamo fatto o pensato esperienza. Ponendoci così nella condizione di rilevare la presenza di cose che prima non esistevano; creando quindi le condizioni perché accadano (cioè possiamo cogliere) cose intrinsecamente nuove. Non nuove combinazioni di cose già date, ma cose nuove nella propria natura.
E
tuttavia e anche vero che l’Essere in realtà non cambia, non muta mai.
Che i continui cambiamenti di cui facciamo esperienza sono in realtà aspetti
diversi dello stesso Essere, cioè aspetti diversi che l’essere mostra di sé in
relazione al mutare delle condizioni esterne.
Che il divenire non è che lo strumento di pensiero che abbiamo messo a punto
per gestire l’unità e la completezza dell’Essere, che non possiamo cogliere, perché non
possiamo concepire il fatto che stati differenti di tensione coesistano, cioè
esistano nello stesso Essere nello stesso tempo, cosa che in realtà accade: si
pensi al fotone. Abbiamo necessità quindi di istaurare una successione
fittizia.
Sembra
esistere quindi una contraddizione tra l’essere che continuamente muta, dando
vita a forme radicalmente nuove di sé, e l’Essere, lo stesso Essere, che però
non cambia mai, essendo tali apparenti cambiamenti solo il nostro modo di
rappresentarcene la complessità e la pienezza, l’interezza.
Tale contraddizione può essere risolta ammettendo che ogni forma nuova, pur
risultante dalla combinazione di relazioni nuove che si instaurano tra cose
nuove, tuttavia deriva sempre da un originario sostrato rappresentato da ciò
che l’Essere è, è stato, potrebbe essere,
potrebbe essere stato, avrebbe potuto essere, avrebbe potuto essere stato. Cioè comunque da
aspetti dello stesso Essere, che quindi, anche cambiando, rimane sempre uguale
a se stesso.
Ma la contraddizione in realtà è solo apparente, e deriva dal fatto che la questione è malposta. E’ sbagliato infatti dire che l’Essere è immutabile, perché esso, come abbiamo visto, muta in continuazione, pur non cambiando la sua natura, e questo perché è nella sua natura di mutare, essendo la sua natura di instaurare un tempo esteso, nel quale dunque il mutamento è inevitabile; ma è un mutare che non cambia la sua natura, perché in qualsivoglia modo potrà mutare, non potrà che rimanere comunque all’interno delle sue potenzialità, cioè nell’ambito delle sue necessità. Rimarrà sempre comunque L’Essere che è. Bisogna quindi dire che lo stesso Essere muta in continuazione negli aspetti secondari, secondari in quando nati dalle relazioni di aspetti primi; i quali invece non possono mutare, essendo gli aspetti che ne costituiscono l’essenza.
Ma
è vero anche che tali cambiamenti degli aspetti secondari sono cosa differente
rispetto ai cambiamenti apparenti di stato. Tali cambiamenti apparenti sono,
come prima detto, interfacce differenti dello stesso soggetto, che dunque, in
questo senso, cioè a questo livello di relazione, non muta, ma mostra solo
parti differenti, visioni parziali di quell’unità che è. I cambiamenti degli
aspetti secondari sono invece cambiamenti a tutti gli effetti, prodotti dalle
continue, nel senso di permanenti, relazioni in essere tra diversi aspetti
dell’Essere, e dalle conbinazioni da queste prodotte. E’ su questo piano che il
divenire comunemente inteso esiste, e dispiega le conseguenze del suo esistere.
Ed è su questo piano che il divenire è reale. Ma diversamente da come viene
comunemente inteso, quello che il divenire dell’Essere produce non è cambiamento,
bensì crescita. Il termine infatti è stato usato in maniera impropria. Per
Eraclito il divenire è l’esito (che produce un
cambiamento) dello scontro tra forze, enti , stati opposti. Ma l’Essere
non diviene in quanto esito di uno scontro tra opposti. L’Essere diviene nel
senso di una crescita, cioè aggiunge
quello che è diventato oggi a quello che era ieri. Non produce in questo
modo qualcosa di nuovo, ma accresce,
aumenta, quello che già era, facendolo diventare qualcosa di diverso da ciò che
era, ma in quanto tale, cioè in quanto diverso da ciò che era, sempre esistente
anche com’era, che altrimenti non potrebbe essere diverso.
Pensare la complessità dell’Essere dunque significa cominciare a distinguere
tra l’aspetto primario che ne costituisce l’Essenza, che è ciò che l’Essere
sempre è stato e sempre è; colui che corrisponde al suo nome; aspetti secondari
che nascono dalle diverse combinazioni che derivano dalle relazioni tra
l’aspetto primario e tutto ciò che esiste e ci circonda così come noi lo
percepiamo e lo circoscriviamo, e quindi in buona sostanza dalla relazione e
dalle conseguenze che questa produce, dell’aspetto primario con ogni nostra
azione, percezione, interpretazione, con ogni nostro pensiero, dunque con ogni
singolo secondo della nostra esistenza; aspetti secondari che quindi mutano in
continuazione, costituendo il flusso perenne dell’esistenza; e che quindi
possiamo definire ciò che dell’essere muta, nel senso – come dicevamo prima –
che si accresce; e infine i mutamenti
apparenti, che appunto non sono veri mutamenti, ma
semplicemente interfacce diverse che l’Essere mostra, o meglio prodotte dall’incontro tra determinati aspetti dell’Essere e determinate condizioni esterne.
Tutti questi aspetti coesistono, cioè sono sempre presenti. Per questo si può dire che l’Essere sempre diviene, ma mai muta.
L’essere dunque è colui che risponde quando si chiama
il suo nome, cioè quando viene nominato; ed è quindi colui che nomina. E’ ciò
che si comunica nella sua lingua, cioè ciò che di sé comunica. L’essere
comunica nella lingua ciò che di sé può essere comunicato.
Ma il suo aspetto primario non
corrisponde a ciò che viene comunicato; perché l’Essere nella sua assoluta
interezza è qualcosa di più di quello
che si può comunicare, non solo di quello che è comunicabile, ma soprattutto di
quello che si vuole comunicare.
L’Essere nel suo aspetto primario è ciò che non vuole essere comunicato, che
non vuole essere nominato e non vuole nominare, perché in questa distanza egli
è: egli è questa distanza.
L’Essere
nel suo aspetto primario è dunque la distanza che egli con la sua presenza pone
rispetto all’altro da sé, a ciò che egli non è.
L’Essere cioè si manifesta nella distanza che pone tra sé e tutto ciò che è
altro da sé, che da sè è fuori.
Perché non vuole comunicare? Perché per
comunicare deve portrare fuori una parte di sé, e portandola fuori la perde.
Questo è il senso dell’indovinello che i
ragazzi posero a Omero e che Omero non seppe risolvere: quello che prendiamo lo
perdiamo; quello che non prendiamo lo portiamo con noi.
Per questo egli comunica solo ciò che è secondario, cioè ciò che deriva
dall’esperienza, dunque qualcosa che nasce dopo aver portato fuori qualcosa.
Questo
voleva dire Platone quando, nella settima lettera, diceva che con la scrittura si trasmette solo ciò che
non è importante: quando si vedono cose
scritte di qualcuno, si deve concludere che queste non erano per l’autore la
cosa più seria; e che queste cose più serie riposano nella sua parte più bella.
Il che va inteso in senso più generale: l’Essere non comunica ciò che per lui è
veramente importante. L’Essere dunque è ciò che non si comunica.
10.3.22
Bergson arriva a concepire il cambiamento del passato solo per giustificare il
carattere di continua novità del futuro. Per inserirsi nella corrente di
pensiero del suo tempo, un movimento che ha sconvolto la cultura
dell’occidente.
Io sono arrivato a concepire il cambiamento del passato percorrendo la strada
che esplora la sua infinita ricchezza, e orrervando il suo continuo e infinito
riproporsi in forme sempre diverse. Quindi il suo permanere.
La mia attenzione non è rivolta a descrivere il futuro, né tanto meno il modo in cui il futuro si manifesta (cioè il presente che si evolve). Quanto piuttosto a descrivere e indagare il passato, in quanto unica fonte di conoscenza, o meglio, in quanto fonte dell’unica conoscenza possibile, quella precognitiva.
La differenza è evidente: ci sono quelli che si mettono in posa davanti al monumento, e quelli che fotografano il monumento.
13.3.22
In effetti la contraddizione potrebbe essere la
manifestazione del nostro limite; la reificazione del nostro limite, come un
recinto che non possiamo saltare, oltre il quale non possiamo andare, a meno
che qualcuno non apra il cancello.
21.3.22
La qualità della
vita è identificabile con lo scorrere lento del tempo, che è quanto di meglio
possiamo fare, ciò che di più si avvicina al fermarlo.
E il tempo scorre lento quando entra in scena il passato. Il tempo scorre lento
quando è
coniugato al passato, quando va avanti tornando indietro. Questo è
quello che si intende per poesia: il verso, per mezzo del suo ritmo ci conduce
alla sua fine, cioè a tornare indietro, e dunque di nuovo all’inizio. Per
questo, e questa è la cosa più difficile da capire, se non se ne fa esperienza
diretta, la poesia non è una forma
d’arte, ma un modo di vivere. Il modo di vivere secondo natura, fuori dal consueto inganno.
27.3.22
WB, sulla
trasformazione dell’esperienza ecc.
Baudelaire,
101
Engels, citazione da La situazione delle
classi lavoratrici…:
“Una città come Londra, dove si può camminare per ore intere senza arrivare neppure all’inizio di una fine, ha qualcosa di sconcertante. Questa concentrazione colossale, questa accumulazione di due milioni e mezzo di uomini in un solo punto, ha centuplicato la forza di questi due milioni e mezzo di uomini… Ma tutto ciò che … questo è costato, si scopre solo in seguito. Dopo aver vagabondato qualche giorno sul lastrico delle vie principali… si comincia a vedere che questi londinesi hanno dovuto sacrificare la miglior parte della loro umanità per compiere i miracoli di civiltà di cui la loro città formicola; che cento forze latenti in loro sono rimaste inattive e sono state soffocate… Già il brulichio delle strade ha qualcosa di spiacevole e fastidioso, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Queste centinaia di migliaia di persone, di tutte le classi e di tutti i ceti, che s’incrociano nella ressa, non sono forse tutti uomini, con le stesse qualità e capacità e con lo stesso interesse a diventare felici?… Eppure si sorpassano in fretta, come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare tra loro; eppure la sola intesa che li unisce è quella, tacita, che ciascuno si tenga sul lato del marciapiede alla propria destra, perché le due correnti della folla che procedono in direzioni opposte non s’intralcino a vicenda; eppure non viene in mente a nessuno di degnare gli altri sia pur solo di uno sguardo. L’indifferenza brutale, la chiusura insensibile di ciascuno nei propri interessi privati, appare tanto più ripugnante e offensova quanto più alto è il numero degli individui addensati in breve spazio”.
9.4.22
Limiti del bergsonismo. 4
Bergson, Il pensiero e il movente
Introduzione e nota bio bibliografica di Gabriele Perrotti
Nota biografica
Pag.
XXXIV
1889, Saggio sui dati immediati…
Dopo aver affrontato nel Saggio il problema della libertà orienta le sue
ricerche alla determinazione del rapporto corpo e psiche. Convinto che tra scienza e filosofia debba
stabilirsi un legame di mutua cooperazione, studia per sette anni una vasta
letteratura sulle patologie psichiche, in particolare le afasie, le dislessie e
le amnesie.
(…) L’esito di questo lungo lavoro di ricerca è rappresentato da Materia e
Memoria, del 1896. Nel 1903 pubblica l’Introduzione alla metafisica, una breve
opera in cui espone i capisaldi della sua dottrina filosofica. Nel 1907
pubblica L’Evolution creatrice. In essa il concetto di durata, che nelle opere
percedenti era stato applicato soprattutto alla vita interiore dell’io, diventa
il principio cosmico da cui è dominata la vita dell’intero universo.
Nel 1932 pubblica l’ultima grande opera, Le due fonti ecc. In essa l’idea dello
slancio vitale, che era stata al centro della sua considerazione dellavita
nell’universo, diventa, nella dimensione dell’eticità, l’amore universale per
il genere umano, libero da ogni condizionamento di carattere storico o
antropologico.
Nel 1934 pubblica la raccolta Le pensee e le mouvant, che però contiene
interventi e saggi risalenti al periodo 1903/1923.
Nell’ampia introduzione alla raccolta, divisa in due parti, scritta nel 1922 e
soltanto rivista e integrata nel 1934,
Bergson ripensa la sua intera storia intellettuale, tira le somme del suo
intenso lavoro di scienziato e di filosofo e fornisce preziose chiavi di
lettura di quel concetto di intuizione che è alla base della sua filosofia.
Introduzione
di Gabriele Perrotti, 2000
Pag. VII
In Materia e memoria egli lega la possibilità di una metafisica non rassegnata all’interdetto
kantiano di un sapere assoluto, alla
ricerca di una esperienza alla sua
sorgente, anteriore a quella svolta ,
in cui l’uomo ha piegato l’immediato all’utile, cioè la conoscenza
alle esigenze pratiche dell’azione (MeM, laterza, 155).
Questo movimento a ritroso del pensiero, alla ricerca di un terreno originario della conoscenza è comune
a gran parte della filosofia del ventesimo secolo. Si rileggano le pagine della
Crisi in cui Husserl afferma che i fenomeni, cui era sempre stato negato ogni
valore per la conoscenza, ridiventano
nella sua filosofia, la chiave di volta del sistema conoscitivo. “La tanto disprezzata doxa, scrive Husserl, tutt’a un tratto acquista la dignità di un
fondamento della scienza, e pretende
quindi all’episteme”. Il compito esclusivo che
Husserl assegna alla sua ricerca è di cogliere quel “fiume eracliteo” in
cui originariamente ci è data la vita di coscienza, e che sembra apparentemente
inafferrabile (La crisi… p. 183).
Whitehead, alla domanda come sia possibile
cogliere nella conoscenza quel “processo creativo che chiamiamo vita”,
risponde: “possiamo solo fare appello alla nostra visione diretta, che
Descartes chiamava Inspectio. (I modi del pensiero, Il saggiatore, 1972, p.
120) Ogni iudicium, cioè ogni forma di mediazione concettuale, presuppone
l’immediatezza di una inspectio, come materia della sua decisione.
Il vero punto di svolta di queste filosofie è l’assunzione del tempo, del
mutamento come dati assoluti e immediati da cui partire per la comprensione di
ogni realtà.
Come è possibile conoscere rigorosamente questa realtà in movimento, sia essa
dell’io o dell’intero universo?
Bergson è consapevole (Materia e Memoria) che la pretesa della filosofia di
risalire alla fonte originaria dell’esperienza, oltre la svolta in cui
l’intelligenza ha piegato la conoscenza assoluta ed immediata del reale alle
esigenza dei bisogni pratici dell’uomo, comporta enormi difficoltà.
Se si rinuncia alla potenza del concetto (perché in esso ciò che è stato
definitivamente perduto è il movente,
la vita che in atto si svolge), e si
pretende di rimanere fedeli a ciò che si dà nell’hic et nunc del fenomeno, la costruzione di un sapere oggettivo, e
perciò comunicabile, diventa
estremamente difficile. L’impresa può
riuscire se viene trovato un nuovo modo di concepire la conoscenza filosofica.
Bergson non parla di epoché, né di
riduzione fenomenologica, ma che la filosofia sia una sospensione della vita rivolta all’agire, un
astenersi dall’azione, è chiaro.
Cosa si guadagna con questa sospensione? Non la possibilità di cogliere
“essenze eidetiche”, come in Husserl,
piuttosto un’aderenza, altrimenti impossibile, al movimento stesso della
realtà.
… Egli vede, come Husserl, che i dati della intuizione immediata, sono cosa
diversa da quelli dell’analisi scientifica, che in quest’ultima si viene a
perdere qualcosa, e qualcosa di essenziale.
Lo
strumento che Bergson indica per questo nuovo modo di filosofare è
l’intuizione. Intuizione e analisi fenomenologica (Husserl):
entrambe sospettate di fornire soltanto una conoscenza soggettiva, non
verificabile, non rigorosa, dunque non scientifica.
Ma cos’è l’intuizione? (cioè cos’è questa forma di conoscenza immediata?): di
essa Bergson non dà una definizione chiara. Ripercorrendo l’evoluzione del suo
pensiero si cercherà di renderne l’idea.
(Il
centro focale della ricerca bersoniana dunque, secondo Perrotti, è il tentativo
di descrivere l’intuizione, cioè il modo in cui essa in quanto strumento ci
consente la conoscenza immediata della realtà. Descriverla per poterla
esperire.)
Il
saggio “il Possibile e il reale” si apre con la proposizione di un tema: “la
crerazione continua di imprevedibile novità che sembra verificarsi
nell’universo”. Quale fondamento può
avere questa idea che nulla si ripete realmente nell’universo, che ogni attimo
di esistenza introduce nel mondo una novità radicale e perciò imprevedibile?
(E che è contraria a quello che in fondo dice Eraclito? Perché per Eraclito il
divenire non introduce alcuna novità, ma il riproporsi delle stesse cose.)
Bergson con un esempio cerca di mostrare che nessuna previsione di un fatto, per quanto precisa, può essere assimilata al fatto stesso nel momento in cui è vissuto; la durata di questo vissuto infatti aggiunge sempre qualcosa di nuovo, nel suo insieme, ai singoli elementi di cui era composta quella previsione, i quali elementi, giust’apposti gli uni agli altri nell’immaginazione, venivano, per così dire, proiettati in uno spazio ideale.
(ma è anche vero che le inevitabili novità che la durata produce non alterano l’essenza del fatto in sé, che dunque permane!)
Bergson
fa discendere dal mancato riconoscimento di questa “novità radicale” l’origine
di tutti i problemi metafisici “mal posti”.
Prendiamo la critica dell’idea del nulla.
Essa rappresenta “il motore invisibile del pensiero filosofico”. Da questa idea
nascono problemi del tipo: perché esisto? Perché esiste l’universo, invece che
il nulla? Quand’anche, in questa risalita, si giunga ad un principio
trascendente da cui tutto discenda, la domanda non cessa comunque di porsi, ed in sede teologica nasce il problema del
perché quel Principio ha voluto che il mondo esistesse.
Questo è il problema angosciante della filosofia; da esso è derivata quella concezione dell’essere immobile ed eterno, erroneamente identificato alla vera realtà, da cui è stata espunta completamente la durata.
Solo
un essere così concepito infatti non ha bisogno di essere giustificato nella
sua esistenza; non proveniendo dal nulla, si pone semplicemente da sé.
Diversamente da ogni altra realtà che dura, la quale, passando per il nulla,
non soltanto deve essere giustificata nella sua esistenza, ma deve anche essere ricondotta ad una sua
presunta essenza, a quella vera
realtà che la costituisce e la sostiene come suo fondamento.
Da ogni cosa esistente, cioè che dura,
occorre dunque espungere il tempo per poterla ridurre agli schemi rigidi
e pietrificati della logica concettuale.
Bergson fa discendere dall’idea del nulla l’intera impostazione che il problema dell’essere ha avuto nella filosofia occidentale. Criticando questa idea egli mette in discussione d’idea stessa dell’Essere come la metafisica occidentale l’ha formata e definita.
Per Bergson l’idea del nulla è una illusione. Essa nasce dal trascurare uno dei due momenti di cui si compone il processo di una sostituzione. In realtà, ad una cosa che sparisce nel passato o viene abolita se ne sostituisce un’altra nel presente, ma siccome il nostro interesse rimane concentrato su quella che è andata via, diciamo che non vi è nulla.
(questo passaggio è del tutto approssimativo e per nulla rigoroso! La cosa che sparisce nel passato viene sostituita da un’altra, ma quella cosa che è sparita sparisce nel nulla!!!)
A causa di un determinato orientamento psicologico vediamo l’abolizione, ma non la sostituzione, la cosa passata, non quella presente.
La stessa cosa accade, a livello conoscitivo, quando diciamo che vi è disordine. In realtà il disordine è soltanto un ordine al quale non siamo interessati. Non vi è alcun ordine che sopravviene ad un precedente disordine, come non vi è alcun pieno (l’Essere) che va a occupare un originario vuoto (il Nulla).
(anche questa affermazione è approssimativa e infondata: l’ordine non è solo una visione soggettiva della realtà. Se dispongo un gruppo di bastoncini su un piano affiancati per il lato lungo li ho disposti in maniera ordinata. Se li getto sul piano essi si disporranno in maniera casuale e dunque disordinata. Ma quando li dispongo in maniera ordinata non sono ordinati per me, secondo la mia visione della realtà; sono bensì disposti nella maniera più naturale possibile, come naturalmente allineate sono le fibre di un muscolo o le strutture di un cristallo. La differenza che esiste tra la giustapposizione dei bastoncini e la loro disposizione casuale, è un fatto oggettivo, che definiamo con il nome di “ordine”.)
(Infine che non ci sia nessun pieno che va ad occupare lo spazio lasciato da un originario vuoto significa che l’Essere permane! Senza spazio di novità possibile!)
Spiegazione
di Perrotti:
L’idea illusoria del nulla nasce da un sostare dello spirito, da un suo
rimanere fermo sulla cosa passata, nel suo rifiuto di aderire al presente e al
contenuto di novità di cui esso si fa portatore. “L’idea di abolizione, scrive Bergson, non è
una idea pura; essa rimane coinvolta in un sentimento di rimpianto del
passato, rimpianto sul quale ha qualche
ragione per attardarsi.
… Il pensiero, che resta sul terreno della fabbricazione, tende ad
attardarsi sulla realtà, e rimane legato
a ciò che è stato, o che poteva essere, invece di essere concentrato su ciò che
c’è”.
Un errore della conoscenza dunque puòderivare da un cattivo rapporto con il
tempo, o meglio nello stabilire un rapporto sbagliato tra le sue tre
dimensioni: passato, presente, futuro. (!!!) La resistenza ad accogliere il
contenuto di novità di fronte a cui ci conduce il presente, ci rende ciechi nei
suoi confronti e prigionieri delle immagini del passato, su cui, d’altronde,
l’intelligenza, che opera sul terreno della fabbricazione, sempre si fonda per stabilire il suo
orientamento nel mondo. Di qui l’idea del nulla, che esprime solo il nostro
rifiuto di aderire al presente, e la conseguente concezione di un essere privo
di durata.
(ora Perrotti allarga il discorso e lo contestualizza)
(XIV)
Il rapporto tra tempo e conoscenza è oggetto da sempre della ricerca
filosofica. Platone fu il primo a dichiararlo esplicitamente. Egli coglie
l’intimo rapporto tra tempo, vita e conoscenza quando afferma (Teeteto) che
l’anima, nel dialogo interiore che intrattiene con se stessa, “indaga
l’essere, cioè stabilisce, secondo una
precisa grammatica, le distnzioni e le
reciproche connessioni delle cose (la dialettica) confrontando in se stessa il
passato ed il presente con il futuro”.
E noto che Platone combatte su due fronti, contro Parmenide e contro Eraclito.
Come possiamo concepire l’Essere come assolutamente immobile, se la vita è
mobilità e temporalità? E possiamo escludere del tutto l’esistenza del
non-essere se di esso parliamo (Sofista)?.
D’altra parte, un essere continuamente mutevole, concepito come mero divenire, non è conoscibile. E mai possibile determinare nella conoscenza
qualcosa che non sta mai fermo? Che è sempre diverso da ciò che è nell’istante
in cui è colto?
“Nel momento stesso infatti in cui ci si avvicinasse per conoscerlo
diventerebbe altro e diverso, cosicchè non potrebbe essere più conosciuto qual
è e com’è (Cratilo).
Platone rifugge da questi estremi. Per lui la realtà è, nello stesso tempo, sia essere che divenire, tutto sta a saper cogliere il primo nel secondo.
Quando qualcosa nel divenire ci viene incontro, bisogna, in un certo senso, renderlo stabile in una definizione che ne colga l’Essere, solo così potremo essere sicuri di riconoscerlo, quando lo incontreremo di nuovo, e di fissarlo nella sua identità.
Nella definizione delle cose è la condizione di ogni stabilità e ordine del mondo, ma l’anima può giungere ad essa solo ritornando a quel mondo in cui tutte le forme delle cose sono conservate (l’eterno presente del mondo Iperuranio) e il cui sigillo Mnemosine ha lasciato nel ricordo. Perciò conoscere è confrontare il passato ed il presente con il futuro. E’ mediante il riconoscimento, infatti, di una stessa cosa, in ciò che, vivendo, le si fa continuamente incontro, che l’anima toglie al futuro il suo carattere di assoluta novità, si sottrae alla sorpresa disorientante di una minacciosa imprevedibilità e, al prezzo della perdita definitiva di un rapporto immediato con le cose, essa può conservare la propria identità, e non perdersi nella follia di un divenire senza senso.
Bergson
coglie questo aspetto fondamentale della
filosofia platonica quando definisce l’idea “la stabile vista sulla instabilità
delle cose”.
(XVI) E’ evidente che il modello di conoscenza che viene fuori da queste
brevissime annotazioni ha una natura insuperabilmente concettuale, perché solo
quanto viene oggettivato inuna forma risulta conoscibile; non solo, nel
rapporto tra passato, presente e futuro sono i primi due a dominare.
Il presente non è affatto portatore di novità, come in Bergson, ma rimanda a
una realtà già data da sempre, il cui ricordo (passato) viene utilizzato
dall’anima per far fronte, nel senso di ridurre al già noto, a quanto di assoluta novità il futuro le
possa riservare.
Se,
come afferma Bergson, il mancato riconoscimento della “imprevedibile novità”
che si realizza, ad ogni istante, nell’universo,
è il peccato originale della
filosofia, questo peccato si trova già
in Platone.
(Questo è il peccato di Platone)
Trovare nel passato il criterio per dare un senso al futuro, anche al prezzo di immaginare un Essere immobile fuori dal tempo, è il modo in cui l’intelligenza assicura all’uomo il successo della sua azione, ovvero le condizioni della sua esistenza materiale; ma non ha nulla a che fare con la conoscenza metafisica dell’Essere.
Al sistema platonico delle idee l’intelligenza perviene quando applica alla conoscenza del reale ciò che Bergson chiama “il meccanismo cinematografico”, dove tutto quanto si svolge davanti ai nostri occhi è già stato impresso sulla pellicola. Questo svolgimento è uno svolgimento senza durata, penchè possiamo immaginare che esso si compia in un tempo infinitamente piccolo o infinitamente grande, senza che nulla cambi in quella successione. E’ un tempo in cui non accade nulla, o meglio, non accade nulla di nuovo. Così il tema della durata si allaccia a quello della “novità radicale”: “Il tempo è invenzione, o non è niente del tutto”.
Ma
c’è un’altra conseguenza importante insita in quel meccanismo cinematografico
rappresentato dal sistema delle Idee platonico. Se in esso vi sono le forme di
tutte le cose, qui da sempre risiedono, già date da sempre, le possibilità di
tutto ciò che potrà venire ad esistenza. Ancora una volta il presente-passato,
cioè il rapporto rimemorante con una realtà posta fuori dal tempo ha un ruolo
preponderante sul futuro e sulla sua carica di novità.
Per Bergson invece né il presente scaturisce semplicemente dal passato, senza
nulla aggiungervi, né il futuro è già dato nel presente, e quindi prevedibile.
Se la realtà non è data tutta di un tratto, come una storia sulla pellicola di un film, “il futuro è condannato a succedere al presente”, il che significa non solo che non è dato in esso, ma che si crea continuamente da sé, è la stessa durata dell’universo, il cui slancio di novità e di imprevedibilità non ha riscontro nei sistemi isolati che sono studiati dalla scienza.
La critica all’idea di possibile, come preesestenza della realtà, acquista una rilevanza sempre maggiore nell’opera di Bergson. Egli vi si sofferma nel saggio introduttivo di Pensiero e movente, e in un altro saggio contenuto nella stessa opera: Il possibile e il reale.
Il
tema diventa rilevante perché B. si
rende conto del fatto che il modello di conoscenza, intuitivo e a-concettuale,
che egli ha proposto nelle sue opere precedenti, richiede che si stabilisca un diverso
rapporto tra le tre diverse dimensioni del tempo.
(ancora qui il tempo viene inteso da Bergson come distinto in tre dimensioni)
In particolare, ne Il Possibile e il reale, egli cita un aneddoto significativo. L’inviato di una rivista culturale gli chiese come immaginasse il futuro della cultura europea dopo la guerra. Egli rispose che non era in grado di immaginarsi quel futuro, il quale, non essendosi realizzato, non era ancora possibile. Ma la realizzazione di qualcosa, obietta il suo interlocutore, presuppone la sua possibilità. Al che Bergson risponde: quanto si realizerà domani, oggi non possiamo dire che sia possibile, che che lo sarà stato quando si sarà realizzato. La possibilità non precede il reale, come il Nulla non precede l’Essere, ma sorge con esso, ed è soltanto per una abitudine del nostro pensiero, che egli chiama “movimento retrogrado della verità”, che essa viene proiettata nel passato: poiché qualcosa si è realizzata nel presente, essa doveva essere possibile (la sua realizazione doveva essere considerata possibile) nel passato. L’interlocutore trae le conseguenze di questo ragionanento: se ciò è vero, l’avvenire influisce sul presente, e il presente inserisce qualcosa nel passato. Certo! E’ precisamente questa la conseguenza di una filosofia che introduce una nozione di durata come novità radicale e assolutamente imprevedibile.
(differenze:
per me il passato cambia perché è sempre “in svolgimento”; per Bergson perché
dal presente viene modificato. Il che è vero ma non sufficiente.)
Le nuove possibilità che il futuro ci riserva e sono aperte dal presente mutano
continuamente la nostra storia trascorsa. “Da davanti e da dietro continuamente
si rimodella il passato per mezzo del presente, la causa per mezzo
dell’effetto”.
Il passato non è dato una volta per
tutte, esso è continuamente rielaborato da quelle possibilità autentiche, il
che significa inedite, che il presente diveniente manifesta traendole da un
futuro imprevedibile.
(qui si mostra la debolezza vera del pensero di Bergson. Il passato non è mai dato, e cambia continuamente perché nell’atto delle infinite possibilità che la sua permanenza implica, dunque nella scelta che di volta in volta viene compiuta tra le sue infinite inperpretazioni potenziali, in questo scelta e in questo atto esso viene di volta in volta cambiato. Il futuro non esiste. Solo il passato esite, che nel presente si mostra. Se non si parte da questo tutto ciò che viene è distorto.)
La
concezione bergsoniana della durata toglie anche al passato la sua immobilità,
esso dura, cioè si mantiene nel
presente, ma non è mai lo stesso,
è sempre modificato da ciò che gli viene aggiunto, dalle possibilità che
continuamente il futuro apre nel presente, e continuamente lo trasformano e ci
trasformano.
(E esattamente così, ma nel senso opposto: il passato è sempre modificato dalle
possibilità che continuamente esso stesso apre nel presente, e che
continuamente lo trasformano. Il futuro non può che essere una di queste possibilità.
Limiti del Bergsonismo: il futuro diveniente non è che il passato che si
dispiega nelle sue infinite possibilità.)
(XX) La metafisica bergsoniana dell’evoluzione cretrice, la novità radicale del futuro diveniente, non rischiano di distruggere tutto quel lavoro secolare, se non millenario, compiuto dall’uomo per affermare la sua autonomia dall’imprevedibilità, per proteggersi dall’irrazionalità? Bergson afferma esdattamente il contrario (Il possibile e il reale, L’intuizione filosofica). Se la scienza, che mira a rendere più agevole la vita dell’uomo, può darci il benessere e il piacere, la filosofia è in grado di darci la gioia. Per B. la concezione dell’essere come durata, la considerazione della vita dell’universo come creazione continua e imprevedibile, non significano un ritorno all’indietro, non riconsegnano l’uomo alle forze irrazionali dalle quali con fatica si era emancipato.
E tuttavia questa sua fiducia ha bisogno di essere chiarita.
Il problema del tempo diventa dominante per la filosofia a partire da Kant fino ad Heidegger. La riflessione sul tempo segna la sua stessa nascita, ma se il Divenire trovava nelle forme stabili dell’Essere un ordine e un criterio di senso, ora sono proprio quelle forme ad essere messe in discussione. Il mutamento diventa il tratto fondamentale, dominante, della realtà.
Kant per primo introduce, nella sua concezione della storia, il concetto del tutto nuovo di accelerazione temporale. Quel piano “occulto” della natura, che questa comunque realizzerà con i suoi tempi, può essere realizzato dall’uomo, seguendo i dettami della ragione, in un tempo più breve: “sembra, egli scrive, che per la nostra stessa struttura razionale noi potremmo affrettare per i nostri posteri l’avvento di questa età così felice”.
L’azione umana, orientata dalla ragione, non si modella più sui tempi ciclici della natura, ma acquisisce un tempo proprio, lineare, e sempre più orientato verso aspettative future. (Condizionato, anche, dalle esigenze produttive).
L’idea di progresso vi opera come un potente fattore di accelerazione, perché la sua realizzazione comincia a dipendere esclusivamente da una inedita operosità della volontà umana, organizzata collettivamente in istituzioni economiche, sociali e politiche.
E’ il tempo della cosidetta “seconda natura”, in cui una volontà sempre più inquieta separa l’uomo dalle condizioni meramente naturali della sua sopravvivenza, e lo rende sempre più dipendente da bisogni raffinati ed artificiali, in continua evoluzione.
D’altra parte, la scoperta di un tempo lineare, rivolto nella direzione di un termine teleologico, avviene anche all’interno dello stesso sviluppo scientifico.
Gli esperimenti sul calore di Carnot, dimostrano che per la termodinamica vale un tempo irreversibile, non quello reversibile della fisica newtoniana. In quest’ultima, le formule con le quali vengono determinate la velocità e la posizione di un mobile ad un tempo t, rimangono del tutto invariate nel caso si inverta la direzione del tempo. Con esse si può percorrere indifferentemente l’intera linea che collega un passato remoto ad un futuro remoto, passando per punti, ciascuno dei quali corrispondente ad un determinato tempo t, tutti equivalenti, da cui è stata eliminata qualsiasi differenza qualitativa.
Questo non vale per i sistemi termodinamici, ove non è più possibile che l’evoluzione dei flussi calorici risalga il tempo, ovvero ricostituisca le condizioni iniziali del sistema: la quantità di energia calorica, prodotta da energia meccanica, non può essere a sua volta ritrasformata integralmente nella seconda, perché una parte di essa sarà inevitabilmente dispersa nell’ambiente. La misura di questa dispersione sarà chiamata entropia. Nel secondo principio della termodinamica, Clausius estende il fenomeno della dispersione all’universo intero. Se la vita, ovvero le trasformazioni in cui si manifesta, ha origine da differenti gradi di calore che caratterizzano parti diverse dell’univeso, la tendenza di questo elemento che tenderà a disperdersi uniformemente nell’ambiente, porterà, trascorso un certo tempo, ad una situazione di equilibrio, cioè ad una situazione in cui la vita sarà impossibile, alla morte termica dell’universo. Per queste ragioni il tempo irreversibile della termodinamica è molto più vicino alla durata bergsoniana di quanto non lo sia il tempo lineare della dinamica classica. Diversamente dall’altro grande prioncipio della fisica, quello della conservazione dell’energia, il quale ha una natura meramente convenzionale e funzionale alle esigenze della misurazione, cui nulla corrisponde effettivamente nella realtà, il principio della degradazione dell’energia, per Bergson, indica la direzione in cui marcia realmente il mondo.
Ma
gli sviluppi della fisica metttono in crisi anche il vecchio rapporto
aristotelico di sostanza e attributo. La fisica infatti, passando
all’osservazione dei fenomeni microscopici, risolve il concetto di materia in
quello di campo elettromagnetico. Il
rapporto aristotelico tra sostanza e attributo presuppone l’universo come costituito da pezzi ben
definitui di materia, i corpi, in quiete o in movimento in un grande
contenitore chiamato spazio; ma com’è possibile determinare con precisione i confini
di un oggetto, se, osservato al microscopio, tra di esso e il suo ambiente si
osserva un continuo velocissimo e vertiginoso scambio di elettroni? Esso
continuamente cede parte di sé all’ambiente, e continuamente ne assorbe una
parte.
La fisica moderna pertanto cessa di studiare i comportamenti degli oggetti, e
si concentra su quanto accade in un
campo elettromagnetico, studia eventi,
non più oggetti.
Una volta che il concetto di campo elettromagnetico ha liberato i fenomeni da
una stretta dipendenza dalla materia, scrive Whitehead, se proprio non si vuole rinunciare alla
parola “sostanza”, “la ritroverei piuttosto negli eventi, che sono in un certo
senso l’ultima sostanza della natura. Whitehead ritiene la filosofia greca
(banale! Aristotele) responsabile non soltanto di togliere la durata alle
cose, ma anche di aver concepito che si
possa conoscere una cosa, in quanto definita nella sua sostanza,
indipendentemente dalle sue relazioni
costitutive con tutte le altre. Per lui invece “ogni entità reale ha un
legame perfettamente definito con ogni
elemento dell’universo”.
L’universo si viene così a configurare come un insieme continuo di centri di energia, di forze agenti le une sulle altre, dove tutto è in movimento, e gli elementi di stabilità che vi si possono cogliere sono il prodotto di sintesi conoscitive, di “prensioni” del soggetto sull’oggetto, date anch’esse in un evento
L’atto conoscitivo è un evento, così come il soggetto percipiente e l’oggetto percepepito, e tutti contengono nella loro definizione i rapporti che intrattengono con la vita dell’intero universo. Sono eventi tutti calati in una durata; il loro presente rimanda ai dati che sono ereditati dal passato e alle potenzialità che il futuro riserva: “Nel mondo, egli scrive, per formare la conoscenza ci sono: il ricordo del passato, l’immediatezza della realizzazione e una indicazione delle cose che verranno”. Il soggetto, in altri termini, conosce l’oggetto nel proprio e nel divenire di quello, non può più prescindere o elevarsi al di sopra di quel movimento dell’universo, in cui tutto, ed anche se stesso, è coinvolto.
***
Begson non pensa che la scienza possa giungere, nel suo stesso sviluppo, a
mettere in discussione il tempo meccanicistico e reversibile della fisica
classica (in realtà la scienza l’ha messo in discussione; è la produzione che
non può rinunciarvi), perciò delinea una rigida divisione di competenze tra
intelligenza e intuizione, scienza e metafisica. Questa posizione gli verrà rimproverata da
Whitehead, per il quale la spazializzazione del tempo non è l’inevitabile modo di procedere
dell’intelligenza, ma un vero e proprio errore conoscitivo, consistente nello
scambiare l’astratto per il concreto. Per lui si tratta di far comprendere in
linguaggio filosofico l’idea che la natura è attività, di ricostruire un
rapporto tra convinzioni comuni e scienza contemporanea.
(resta il fatto che Eraclito, Empedocle, Anassagora ci erano riusciti benissimo. La questione è dunque politica, cosa che Whitehead non riesce a concepire. E comunque i sapienti non usavano un linguaggio filosofico, ma scrivevano poemi.)
Per entrambi tuttavia, la scienza ci svela che l’universo è movimento, attività, in cui, vivendo, siamo calati e in cui siamo solidali con tutti gli altri essere viventi.
(dunque ci sono voluti duemiladuecento anni per liberarsi di Aristotele; duemila e cinquecento per scoprire quello che Eraclito aveva detto, quello che Eraclito già sapeva.)
Come Dio è “vita incessante, azione, libertà”, non un dato, un qualcosa di già fatto, così la vita non è una cosa, solidificazione dell’esistenza che l’intelligenza ha ritagliato nella realtà, ma un centro, una sorgente inesauribile e creatrice di novità radicali.
L’evoluzionismo
ha dimostrato che per la determinazione della genesi delle specie occorre
risalire al lungo lavoro di elaborazione e selezione che la vita ha compiuto
passando, con un processo graduale di trasformazione, da una specie all’altra.
Le rigide distinzioni che la scala aristotelica dei generi e delle specie
stabiliva, sono saltate.
Certo esso riavvicina l’uomo all’animale, e di ciò le dottrine spiritualistiche
sono inorridite, ma l’umanità in quanto
spirito, osserva Bergson, continua ad
occupare nell’universo una posizione privilegiata, ed acquista, inoltre, il
sentimento di una solidarietà con tutto ciò che di vivo lo circonda.
Come un granello di sabbia è solidale con tutto il nostro sistema solare, così
tutti gli esseri organizzati, piante, animali e uomini risalgono ad un unico
impulso vitale che, dalle origini fino a oggi, con un movimento acendente, si
oppone al movimento inverso della materia.
…
E’ il momento ora di dare una risposta alla
domanda che avevamo posto: perché una filosofia che sviluppa in sé, mediante
capacità intuitive, la capacità di calarsi in questo movimento incessante della
realtà, dovrebbe donarci la gioia?
Su questo punto è di fondamentale importanza lo scritto La percezione del cambiamento.
In esso Bergson delinea una sorta di genesi del concetto, la quale è anche
genesi di una filosofia che si allonatana progressivamente dal movimento, e,
quindi, dalle cose e dalla vita.
Il concetto fu la risposta che gli antichi dettero all’apparente
contraddittorietà del movimento,
all’impossibilità di mantenersi “vicino ai dati sensoriali”, di
affidarsi, quindi, nella conoscenza delle cose, alla percezione. Perciò Zenone, che soprattutto mise in evidenza quella
apparente contradditorietà e su cui egli ritorna continuamente nelle sue
opere, è, per lui, colui che ha
inaugurato la metafisica e ne ha condizionato la storia. Fu lui, con i suoi
paradossi sul movimento ad indurre, per primo Platone, a cercare la vera realtà
delle cose in un altro mondo, a girare le spalle a quello in cui viviamo e alla vita che in esso si svolge. Plotino,
sulla scia di Platone, ha espresso meglio di ogni altro questa sorta di
conversione filosofica: per filosofare occorre distaccarsi dal mondo, speculare è l’inverso di agire, solo così ci
si porta in quell’altro mondo in cui
poter godere della visione delle cose stesse.
Ma non è
convinzione anche di Bergson che filosofare consista “nell’inversione
dell’abituale direzione del pensiero”, in una radicale trasformazione di se
stessi, in un distacco dalla vita pratica, da quell’agire, le cui strutture
l’intelligenza negatrice del tempo e del movimento ha forgiato? Certo! Ma
questa inversione e questo distacco non conducono ad un altro mondo, non comportano
l’abbandono di ciò che si dà nei sensi e nella percezione, per affidarsi esclusivamente alla certezza,
ma anche alla rigidità e vuotezza delle forme intellettuali.
La filosofia, come metafisica del movimento, ci chiede sì di abbandonare il
mondo in cui quotidianamente viviamo e agiamo,
ma per scoprire un mondo che è altro, non perché trascendete, piuttosto
perché ci rimane invisibile, pur essendo costantemente sotto i nostri occhi.
Come indurre questo mondoi invisiubile a
svelarsi? In ciò non possono esserci
d’aiuto, questa la convinzione profonda di Bergson (!!!), né concetti, né forme essenziali, né ragione
né intelletto. Se quanto importa conoscere è dispiegato tutto intero sotto i
nostri occhi, possiamo coglierlo dolo in una percezione, in una percezione
allargata. (frammento 16 di Eraclito!)
E’ ciò di cui si servono gli artisti, i poeti, i pittori, gli scultori, i musicisti, i quali ci fanno sentire cose
mai sentite, vedere cose mai viste, e
che tuittavia ci commuovono, ci meravigliano, ci danno gioia, come se quelle
cose le conoscessimo da sempre e fossimo vissuti solo per riaverle davanti agli
occhi. Ciò che si richiede dunque è una sorta di dilatazione di noi stessi,
affinché la ricchezza inesauribile della realtà non ci passi inosservata sotto
gli occhi.
(Limiti del bergsonismo. Bene la percezione allargata, ma come ci fa?, attraverso quali strumenti si ottiene? Come fanno gli artisti a procurarsela? Domande imbarazzanti perché colgono la debolezza del pensiero di Bergson, laddove non fa nessun accenno al ruolo dell’arte, cioè dei segni. Che sono l’unico strumento che ci consente di dilatare la percezione, o piuttiosto di sospendere il flusso temporale ordinario per immergerci in una sospensione perenne del passato – cioè nel presente vero.)
La conoscena è dunque autentica conoscenza filosofica se da essa veniamo
trasformati. (…) Trasformazione come dilatazione, una sorta di affinamento e intensificazione
della nostra capacità di vivere (!!!), di abbracciare con lo sguardo più cose
(!!!) di quante ne abbracciamo normalmente.
E poiché si tratta di una visione potenziata delle cose, non basta intendere o ragionare, occorre percepire e intuire ( come se fossero opzioni, modalità attivabili a comando!). Solo nella conoscenza percettiva e intuitiva possiamo raggiungere l’obiettivo. Perché solo in essa si dà spazio alla novità radicale con la quale esse ci vengono incontro; mentre in quella concettuale è come se esse fossero violentemente assimilate alle forme in cui si sono manifestate una volta.
(per Bergson dunque è la conoscenza filosofica che ci può trasformare, rendendoci capaci di adottare una conoscenza percettiva e intuitiva nella quale si dà spazio per accogliere la novità delle cose. Questo è proprio il limite del ragionamento di Bergson, perche tale tipo di conoscenza, per via del predominio della conoscenza intelligente, ci è ormai preclusa. Ad essa possiamo accedere solo attraverso i segni e i simboli che tengono in presenza il passato, in questo modo aprendo il futuro a ogni possibile sviluppo)
L’intelligenza, lo vedemmo, tende ad attardarsi sulle cose passate, invece di volgere la propria attenzione al presente, in cui le cose si danno nella novità del loro essere e delle loro possibilità. Il vortice delle trasformazioni in cui è coinvolta la contemporaneità è l’intelligenza a crearlo, ma il suo tempo, sempre più accelerato, si porta con sé un alone di invisibilità di cui non si cura. E’ proprio a quell’alone che l’intuizione volge lo sguardo, ma per vincere l’opacità e diradare la nebbia che avvolge le cose, ha anch’essa bisogno di tempo, di un suo tempo, che non è il tempo dell’agire, ma è il tempo degli artisti (sempre distaccatio dalla realtà) e dei mistici.
(quanta banalità! Non è il tempo dell’agire che nasconde la vera forma della
realtà, ma il pensiero dominato dall’intelligenza che è incapace di coglierla.
Il pensiero lineare del ragionamento, che non è capace più di percepire, cioè
di accogliere ciò che i sensi percepiscono senza modificarlo, ma solo di analizzare e depurare i dati che
riceve. Per questo non si può decidere di essere “percettivi” o “intuitivi”:
perché non ne abbiamo più la capacità.)
Il significato della riflessione di Bergson sta dunque nel tentativo di aprire una nuova strada alla filosofia. Quella su cui essa ha camminato per circa due millenni è ormai definitivamente sbarrata. Egli la individua nell’assunzione del tempo come dato immediato e assoluto da cui la conoscenza deve partire.
(laddove invece tale strada sbarrata inizia quando il linguaggio prende il sopravvento, trasformando il pensiero).
Se ne possono naturalmente discutere gli esiti, ma nella ricerca di questa nuova strada egli non è solo. Nel ricorso all’esperienza delle creazione artistica troveranno un esito anche la filosofia di Whitehead e di Heidegger. Ma c’è un altro tratto che accomuna la sua filosofia a queste ultime e alla filosofia di Husserl: la rilettura critica della filosofia greca e della filosofia moderna.
La critica del concetto si accompagna al tentativo di conquistare un terreno su cui la conoscenza delle cose si dia in maniera immediata, e nella ricerca di questo nuovo terreno lo sguardo viene rivolto ad un tempo delle origini in cui quella conoscenza è stata possibile.
La possibilità di una nostra dilatazione presuppone che capacità a noi connaturate abbiano subito un restringimento, una sorta di atrofia nel corso della storia. Il punto di scolta per tutti è la filosofia di Platone Il ricorso all’intuizione e all’allargamenti della percezione, sembrano mirare, dunque, al pari del ritorno husserliano al senso originario della filosofia, al recupero di un passato in cui erano presenti possibilità che nel corso della storia sono andate perdute.
11.4.22
Siamo esseri desideranti, dunque siamo ciò che non abbiamo. Siamo sempre quello
che ci manca.
Non dobbiamo cercare di soddisfare il nostro desiderio, semplicemente perché
non possiamo soddisfarlo, corrispondento tale esito al nostro annullamento.
Noi viviamo per desiderare, e non è importante l’oggetto del desiderio. Desideriamo affetto quando il nostro compagno
non è in grado di darcelo; desideriamo autonomia e libertà quando il nostro
compagno si mostra affettuoso, premuroso e pieno di attenzioni nei nostro
riguardi. Non serve dunque cercare quello che non si ha, perché una volta
trovatolo non costituirebbe più un
desiderio, sostituito da qualcos’altro. E dunque il desiderio permerrebbe
comunque.
13.4.22
Così come desideriamo quello che non abbiamo, per lo stesso motivo vogliamo
essere quello che non siamo. Siamo corpo (forma), e vogliamo essere spirito
(evento).
16.4.22
Perrotti arriva al dunque! Per Bergson, quello che ci permette di vedere, di
cogliere, la vera natura della realtà, non è il concetto, l’analisi,
l’intelligenza, come scriveva anche Proust,
ma una percezione allargata; una sorta di dilatazione dell’intelligenza.
Quindi non la memoria involontaria, o il ricordo puro, e neanche il segno
dell’arte, ma una dilatazione di noi stessi. Questa tuttavia è solo una
dichiarazione di intenti, che non dice nulla sul modo in cui l’intento possa
essere meso in atto. E soprattutto non dice che ogni intento, ogni azione posta
in essere per raggiungerlo, non può che essere opera dell’intelligenza.
18.4.22
Whitehead: una totalità che precede le parti e però si manifesta nelle parti.
Cos’è questo se non Parmenide ed Eraclito insieme? Precede (Parmenide) e si manifesta (Eraclito) nelle parti.
24.4.22
Revisione di 10.5.16
Platone, Simposio, Eros, Bellezza, Leopardi.
30.4.22
Bergson:
Il soggetto, in altri termini, conosce l’oggetto nel proprio e nel divenire di quello, non può più prescindere o elevarsi al di sopra di quel movimento dell’universo, in cui tutto, ed anche se stesso, è coinvolto.
In realtà (limiti del bergsonismo) il soggetto nasce in quanto prescinbde dal movimento dell’universo, nel momento in cui si pone al di fuori di esso.
1.5.22
L’apparente contraddizione tra il fatto che l’Essere muta e si evolve, e il
fatto che il suo divenire è solo un alternarsi dei suoi aspetti, dipende dal
fatto che l’Essere ha una doppia natura.
In
quanto Essere, essendo pienezza di tutti i suoi aspetti, sempre uguale a se
stesso permane; in quanto molteplicità di fenomeni attraverso i quali tale
unità si manifesta è un abitatore del tempo, e dunque muta e si evolve.
Eraclito capì che noi possiamo cogliere il Tutto solo nelle sue manifestazioni
particolari, che in quanto tali, cioè in quanto fenomeni, cioè manifestazioni
di eventi, non possono che divenire.
22.05.22
HOLDERLIN 2
Stesura Metrica
(Holderlin 1 La giovinezza di H.
26.11.21)
Dal
commento di Reitani, p. 1377:
“ Al centro del discorso pedagogico del “saggio” vi è il rapporto dell’uomo con la
natura, fin dal primo momento centrale
nel pensiero di H. In apertura il
narratore critica i convincimenti che lo avevano portato a voler sottomettere
la natura ai propri fini e il racconto lascia intendere che a determinare
questa svolta è stato l’incontro con il “saggio”.
Il suo invito è appunto quello di riconsiderare la natura non come ostile, ma come epifania del divino.
(Questa idea della natura, che supera la lezione roussoniana, è fondamentale
per cogliere il senso della filosofia di Holderlin; contro ad essa, opposta a
questa concezione è la posizione del Leopardi.
Anche
il Leopardi parte da Rousseau. Cogliere le differenze (sicuramente la scuola
filosofica tedesca, da Kant a Fischte).
Verificare il rapporto tra questo senso della natura come manifestazione del
divino e la pittura di paesaggio del 700/ 800. Questa idea divina della natura
è la stessa che muove la ricerca di Cézanne.)
(Approfondire la filosofia di Holderlin e la filosofia di Leopardi.)
(…) L’impianto filosofico del Frammento è qui sottoposto a una notevole revisione, sulla base degli stimoli ricevuti a Jena dal duplice confronto con Fichte e con Schiller. Semplificando, H. si sforza di sostuituire il modello antropologico che Herder aveva mediato da Hemsterhuis con un modello più complesso, fondato sulla polarità schilleriana fra “impulso formale” (formtrieb) e “impulso materiale” (Stofftrieb). Se l’uomo, come essere sensibile, vive nel flusso del tempo e, come suggeriva Hemsterhuis, nella ricerca del piacere, come essere razionale cerca invece di organizzare le sue esperienze e di conferire loro unità. Nel gioco di interazaione tra questi due impulsi H. vede una risposta alle questioni aperte dalla filosofia di Fichte, che faceva invece dello streben, del desiderio assoluto e indeterminato, il principio basilare della soggettività, per il quale l’oggetto, il non-io, è solo un ostacolo da superare, postulando così il progressivo dominio dell’uomo sulla natura. Per H. il non-io di Fichte diventa la natura schilleriana e viceversa. Tuttavia il poeta non supera il modello di Hemsterhuis e Herder, e ha ancora bisogno di fissare nell’amore e nella bellezza un principio ontologico imprescindibile.
23.5.22
Per un Essere
vivere significa assecondare la propria natura; e assecondare la propria natura
significa vivere nella profondità del tempo.
Vivere
nella profondità del tempo significa vivere nella contemplazione della propria
vita, nella pienezza e nella interezza del suo svolgimento.
Cioè significa vivere contemplando la propria vita nella permanenza dei suoi
svolgimenti.
Che significa tenere sempre vive le sue potenzialità, cioè tutte le potenzialità dei suoi svolgimenti, e quindi tutte le sue possibili realtà.
In questo modo, fuori dalla vita pratica, è possibile eludere la strettoia della scelta. Nella vita del sogno.
Per un Essere, la vita del sogno è altrettanto reale di quanto non lo sia la vita pratica. Fatta delle stesse persone, degli stessi luoghi, degli stessi eventi. Solo, per necessità, infinitamente più ricca. Cioè la vita del sogno è – per necessità – infinita, infinite essendo le sue possibilità di sviluppo. Delle quali infinite possibilità di sviluppo la vita pratica è solo una. Ma non la più importante o la più vera: solo una a caso.
Per un Essere, vivere nell’ambito ristretto della vita pratica significa tradire la propria natura, e vivere tradendo la propria natura non può che condurre all’alienazione, all’annullamento di sé.
E’ necessario dunque recuparare il tempo della contemplazione, e questo si può fare solo riconoscendo il valore del lavoro interiore, così come si riconosce il valore del lavoro produttivo.
A questo deve servire la vita pratica, e solo in questo senso ha valore: a porre in essere le condizioni in cui una vita contemplativa sia possibile.
Occorre quindi ridurne gli ambiti al minimo necessario per la sua funzionalità e la sua efficienza, ottimizzando mezzi, risorse e necessità.
Il successo nella vita, per un Essere, si misura con una scala opposta a quella usuale: cioè con quanto meno tempo e impegno di produttività riesce a garantirsi il maggior tempo e il miglior ambito di contemplatività possibile.
Maggiore
è il successo quanto minore è il tempo che è necessario dedicare alla vita
pratica. Questo dà l’idea e la misura di quanto sia malata la nostra società,
cioè la società dell’uomo produttivo. Ovunque nel mondo, sotto qualsiasi
regime, la vita è votata alla produzione. Un mondo così fatto semplicemente non
è degno di essere vissuto. Nel senso che ad esso non vale la pena di
partecipare.
Esistono, ai confini della povertà, ambiti possibili di qualità differente.
Questo è anche il motivo per cui sempre la ricchezza di spirito si accompagna
alla povertà materiale. Ed è anche il motivo per il quale i ricchi e gli agiati
sono sempre insopportabilmente noiosi.
I beni materiali, per loro stessa natura, essendo cioè materiali, non servono a nulla, l’unica cosa che ha valore essendo la ricchezza di spirito.
29.5.22
Ogni esperienza del fuori da sé è contemporaneamente esperienza del dentro di
sé. Ogni esperienza che l’Essere fa dell’ oggetto è anche, nello stesso tempo,
esperienza che l’Essere fa di sé. Dunque la conoscenza non è mai solo
conoscenza dell’altro, del fuori, ma anzi, la conoscenza dell’altro è sempre
strumento della conoscenza di sé.
La cosidetta sete di conoscenza, non è altro che sete di sé.
5.6.22
E’ nella vicinanza delle persone che ami che si rivela lo loro infinita
lontananza, l’infinita solitudine dell’Essere. Cioè è nel momento in cui ci sei
fisicamente vicino fino a toccarle che tocchi invece con mano l’abisso; la loro
irrisolvibile lontananza; e il fatto che non potrai mai essere vicino a loro
come vorresti, come desideri.
“Essere” è fondamentalmente essere soli.
*
Quella
vecchina che quarant’anni fa guardava dietro il vetro della finestra verdre, al piano rialzato delle case basse
vicino Piazzale Novelli, noi che passavamo per strada, di fronte all’Aeronautica,
ero io.
Non c’è alcuna distinzione, alcuna differenza. Siamo un cielo solo, un unico
respiro.
*
Sono così alto! Ogni giorno che passa infatti aggiunge un giorno anche all’indietro. E così ogni giorno divento più alto e più profondo, crescendo in entrambe le direzioni. Faccio parte della famiglia dei Giganti di Proust, che ci aveva immaginato, cioè visto, con i piedi nel passato e la testa nel presente, ma con una differenza significativa. Allungandosi il nostro corpo anche verso il passato – cosa che a Proust (come a Bergson) era sfuggita – la testa non è nel presente, ma nel futuro, cioè in tutti gli “infiniti possibili”. Il presente si trova invece, sia letteralmente che metaforicamnete, al livello dell’apparato digerente e dell’apparato riproduttivo.
6.6.22
L’ultimo grado del possibile di Cacciari.
(“Sul significato attuale di metafisica”, Univesrità Vita Salute San Raffaele,
Maggio 2022)
Nel seminario condotto sulla metafisica nel Maggio del 2022 Cacciari dice
testualmente che l’ultimo grado del possibile è l’impossibile.
Cioè
che l’ultimo grado del possibile logicamente fondato è “che tutto sia
possibile”. E dunque che nulla sia impossibile.
Tuttavia questa affermazione non sembra logicamente fondata: sembra piuttosto
un postulato, espressione di una verità alla quale tutti vorremmo credere.
Io penso che l’ultimo grado del possibile logicamente fondato sia l’ultima
risposta logica possibile. Cioè sia l’ultima domanda alla quale è possibile rispondere.
Cacciari parla sempre della filosofia come “filosofia del reale”, come
ontologia. Ebbene nella realtà delle cose, l’ultimo grado del possibile è che
abbiamo conoscenza di ciò che avviene fino ad un milionesimo di secondo dopo il
Big Bang, ma non oltre. Cioè l’ultimo grado del possibile logicamente fondato è
cio’ che si è costituito un milionesimo di secondo dopo il Big Bang. E oltre non c’è l’impossibile, ma solo l’inconoscibile. Che questo inconoscibile poi possa coincidere
con l’impossibile è solo una speranza.
9.6. 22
L’impossibile dunque è la domanda alla quale non è possibile rispondere, quindi
l’impossibile è solo il limite della nostra capacità di conoscere. Tale limite
può essere costituito dunque dal limite dello strumento di conoscenza adoperato
(la mente), e non è un limite fisso, ma è in funzione della capacità dello
strumento, che poteva essere maggiore nel passato – maggiore nel senso della
capacità di risoluzione (ottica) nell’interpretazione del dato apparente. Resta
comunque il fatto che tale strumento, come ogni strumento, ha un limite
operativo, e tale limite rappresenta il confine tra il possibile e
l’impossibile: non possiamo sapere oltre, cioè non possiamo conoscere di più di
ciò che lo strumento che adoperiamo può cogliere.
Questo
significa anche che oltre la nostra conoscenza, cioè oltre tale limite, tutto è
possibile. Ma è un tutto che per noi resta impossibile. Cioè inconoscibile.
*
La speranza che questo “Tutto possibile”, che è il Tutto dell’universo, ma è anche “tutto quello che non possiamo conoscere
dell’orizzonte degli eventi”, coincida in qualche modo con una dimensione
dell’Essere che trascenda i limiti del nostro corpo, è lecita, proprio perché
“tutto è possibile”. Ciò che non è
lecito è considerarla qualcosa di più fondato di una speranza. Destinata a
rimanere tale proprio perché fondata, come tutte le speranze, su qualcosa di
inconoscibile.
Ma non inconoscibile nel senso di cosa che non conosciamo ora, ma che potremmo
conoscere in futuro, con lo studio per esempio, o migliorando le prestazioni
dello strumento che adoperiamo.
Inconoscibile nel senso che per sua natura esso resta al di là di ciò che
possiamo conoscere.
Quindi c’è un impossibile che col tempo potremo conoscere, perché è al di qua,
dunque nella dimensione in cui anche noi siamo, e che studiando abbastanza
possiamo sperare di arrivare a comprendere. E poi c’è l’impossibile che non
possiamo conoscere, perché esistente o proveniente da una dimensione altra
rispetto a quella nella quale noi esistiamo. Questa non è necessariamente una
condizione mistica o misterica.
Si consideri infatti che esistono due diverse modalità di conoscenza: la
conoscenza per contatto e la conoscenza involontaria, cioè per necessità.
E’ solo attraverso la conoscenza per contatto, cioè è solo attraverso il
contatto (che può anche essere non propriamente fisico, ma per esempio soltanto
visivo, o acustico) che un impulso può essere trasmesso da un ente ad un altro
ente, e dunque è in questo contatto che si forma e si trasmette la conoscenza,
ed è in questo contatto che si manifesta il tempo come condizione dell’essere,
cioè dell’Essere come qualcosa che diviene, nel tempo in cui il contatto si
manifesta.
Questo tuttavia può succede perché tutti gli enti si trovano nello stesso piano dimensionale.
Ma ora un raggio del Sole illumina tutti gli enti in uno stesso istante. Tra gli enti non si produce alcuna interazione. Il raggio di sole, la conoscenza – cioè l’informazione – trasmessa con il raggio di sole, informa (dunque cambia, fa diventare qualcos’altro, trasforma) tutti gli enti nel medesimo istante senza che essi abbiano modo di interferire, perché tale evento non produce interazioni – e dunque tempo – tra di loro. In questo senso è il loro “destino”, la loro necessità, cioè è qualcosa che possono solo accogliere, subire. E lo fanno senza neanche poterne avere consapevolezza.
Questo
evento è causato da qualcosa che esiste in una dimensione differente da quella
nella quale gli enti esistono. E non soltanto perché proviene da un luogo
“esterno”, ma perché esterna, nel senso di estranea, aliena, è la sua natura.
Tutto ciò che intercorre tra gli enti infatti occorre che sia tra di loro
“mediato” attraverso il contatto (fisico, visivo, acustico, culturale).
Ciò che accade quando essi vengono illuminati da un raggio di sole, è invece
qualcosa di im-mediato, cioè è una informazione (che dà luogo a una
trasformazione) che non viene trasmessa da un ente ad un altro attraverso una
sua elaborazione mentale o comportamentale, ma che interessa lo stato fisico
degli enti che informa, trasformandolo per necessità, cioè come conseguenza di
una risposta dell’ente condizionata dalla sua natura.
La nostra dimensione è la dimensione del “mezzo”: cioè quella dimensione nella
quale tutto ciò che passa da un ente all’altro, e quindi tutto quello che possiamo
conoscere, viene trasmesso attraverso una qualche forma di contatto, di
mediazione (da qui l’inevitabile alterazione del dato originario e
l’impossibilità della verità).
Nella dimensione del fotone la conoscenza di cui il fotone è portatore viene trasmessa
senza alcuna mediazione possibile, perché inerente alla natura sia del fotone
che dell’ente ricevente, cioè perché costituisce una risposta ad una necessità,
è un comportamento obbligato del fotone e dell’ente in conseguenza della loro
natura, cioè del loro modo di essere.
L’ente
non può cogliere il modo in cui questa trasformazione avviene, dunque l’ente
non può conoscere il modo in cui viene trasformato, perché l’ente trasformato è
un ente diverso dall’ente che esisteva prima della trasformazione. Questo tipo
di conoscenza quindi va oltre le sue capacità conoscitive in senso qualitativo,
e non meramente quantitativo.
Cioè per l’ente è impossibile conoscere il modo del suo cambiamento (il suo
destino), perché nel momento in cui lo percepisce è già stato cambiato, ed
essendo diverso da ciò che era prima non può valutare la differenza di stato.
Posso sapere perché ora sono triste mentre prima ero felice, pensando a quello
che è successo che ha provocato tale differenza di stato d’animo, avendo
tuttavia ben presente la natura di entrambi. Ma non posso sapere perché ora sono notte
mentre prima ero giorno, perché diventando notte non posso più essere giorno,
cioè non posso più sapere cos’è giorno.
Questa è la differenza tra le due dimensioni del conoscere. Ed è anche la spiegazione del perché la verità è solo la conoscenza immediata, cioè la necessità. E del perché la conoscenza mediata, per sua natura, non può che essere “corrotta”.
Che l’ultimo grado del possibile quindi sia l’impossibile è cosa del tutto possibile; ma che in quanto tale, e cioè in quanto impossibile, rimane per noi inconoscibile, e quindi, non solo oltre la speranza, che al contrario di quanto detto prima, si rivela poter essere solo speranza di cose conosciute, ma oltre la possibilità.
*
L’altro
discorso interessante della conferenza di Cacciari è quello che riguarda la
conoscenza dell’essere com’era, e che è la conferma di quello che ho scritto
nell’Atlante.
Cacciari dice che l’Essere ricorda com’era, nel senso che è come era, e che
dunque il passato è presente, e tuttavia
rimane al livello concettuale, non approfondisce il senso del ragionamento.
Non dice, per esempio, che l’Essere ricorda com’era solo quando vive una esperienza trascendentale, cioè che lo trasporta su un piano dimensionale diverso, e che ciò avviene solo grazie ad un evento particolare (memoria involontaria) o grazie a un segno dell’arte. Cioè che solo in questo modo si può fare esperienza del tempo esteso.
*
Sempre
da Cacciari: è proprio perché considerava la filosofia come “Scienza della
Coscienza” che Hegel l’ha tradita.
Perché della coscienza non ci può essere scienza, ma solo intuizione. Non è –
cioè – conoscenza (di qualcosa che è fuori di noi), ma scoperta (di qualcosa
che è dentro di noi).
5.7.22
Emanuele Severino
“Sul senso del nostro tempo”
Ciclo di cinque lezioni tenute all’Università Vita e Salute del San Raffaele
nell’Autunno del 20018.
Considerazioni
sparse.
– La sostanzialità di Cartesio: se tutto è cogitatum, non può essere che
prodotto dalla mente che cogita.
Ma se tutto è prodotto dalla mente che cogita,
chi mi assicura che questo tutto corrisponda al tutto che esiste
comunque, a prescindere dal mio cogitarlo? Nessuno può saperlo. Perché per
essere estraneo al cogitato il tutto deve essere impensato, e dunque impensabile.
E dunque radicalmente inconoscibile.
Cioè il mondo è inconoscibile perché se lo fossa non sarebbe più ondo, ma
sarebbe il mio mondo.
–
La vita è l’apparire dell’Ente eterno. Il mostrarsi dell’Ente, che non può che
essere eterno, perché tutto ciò che esiste non può che essere eterno, perché se
non fosse eterno cos’era, e dov’era, prima di essere? E cosa sarà, e dove sarà,
dopo essere stato? Domande, tutte, che svelano l’errore fondamentale: pensare
che l’essere possa essere qualcosa di diverso da ciò che è, e che, visto che è,
non può che essere. Dunque tutto ciò che è deve necesariamente essere eterno
altrimenti semplicemente non sarebbe.
Per cui quando un Ente nasce esso in realtà comincia a mostrarsi, e quando
muore smette di mostrarsi. Ma in quanto eterno esso è sempre, anche quando non
si manifesta, anche quando non appare. Come la luna, che esiste anche quando
non è visibile, ma esiste, per coloro che l’osservano, solo quando è visibile.
Se dovessimo giudicare l’essere della luna sulla base dello stesso errore che
informa il nostro comune giudizio sull’essere, dovremmo ammettere e pensare che
la luna nasce e muore ogni mese, cioè che ogni mese viene all’esistenza, e ogni
mese esce dall’esistenza.
L’essere
appare quando viene illuminato dalla luce della vita, e quando questa luce
cessa esso scompare, ma, come la luna, continua ad esistere.
Posto che non può che essere così, resta
il fatto che di questa eternità noi non abbiamo consapevolezza, perché se
l’avessimo non staremmo qui a parlarne, e non terremmo corsi di studio su di
essa, né sciveremmo libri.
Così come non teniamo corsi di studio o scriviamo libri sul fatto che una volta
nati si cresce, e dalla giovinezza si passa all’età adulta, poi alla vecchiaia,
e poi si muore. Cioè abbiamo consapevolezza del nostro mutare, del nostro
divenire.
Dunque stiamo dicendo che l’Essere, benché eterno, tuttavia non ha coscienza di questa sua eternità; l’unica cosa di cui ha coscienza è la sua finitudine, dalla quale, per contrasto, deriva la necessità logica della sua eternità.
Esso infatti ha coscienza di sé solo dal momento, e per il tempo in cui è visibile, per il tempo in cui si manifesta, cioè è in vita. Non ha coscienza di sé in un tempo antecedente, né in un tempo successivo al suo apparire, come l’avrebbe se fosse consapevole di essere eterno.
L’essere
cioè esiste in quanto appare, e nel tempo in cui appare. Nel senso che prima di apparire non ha
consapevolezza di Sé, e dunque non può esistere, o meglio, esiste in maniera
diversa, esiste senza coscienza di sé.
Il suo mostrarsi è nei fatti un mostrarsi a se stesso; o meglio sarebbe dire un tentativo di mostrarsi a se stesso, cioè un tentativo di conoscersi nella propria essenza. Nella gran parte dei casi destinato a fallire.
Ma perché noi possiamo avere consapevolezza di noi stessi e quindi della nostra eternità, solo quando ci manifestiamo? Solo nel tempo in cui ci manifestiamo?
Perché
noi ci mostriamo, cioè siamo visibili, agli altri e a noi stessi, solo sullo
sfondo dell’Uno in Sé diverso, che altro
non è che il Tutto Diveniente.
Cioè: è solo mostrandoci sullo sfondo del divenire, e quindi vedendo anche noi
stessi come esseri diventienti, che possiamo avere consapevolezza della nostra
eternità.
E’ solo nel momento in cui ci manifestiamo, e quindi esperiamo noi stessi, e quindi entriamo nella dimensione del tempo, cioè quella dimensione in cui tutto diviene, – e per esperire noi stessi non possiamo che farlo in questo modo – è solo dunque nel momento in cui facciamo esperienza di noi stessi come di qualcosa che diviene, che possiamo avere consapevolezza della nostra eternità.
Della quale altrimenti non potremmo avere consapevolezza, percné non si può avere consapevolezza di ciò che si è, se non si pone una differenza tra ciò che si è e tutto ciò che non si è; cioè se non ci si porta all’esterno di ciò che si è, dunque creando un esterno nel quale potersi portare, dal quale potersi guardare.
Questo probabilmente è anche il senso dell’indovinello che i ragazzi
impertinenti rivolsero a Omero, citato da Colli nel suo abissale libretto sulla Nascita della Filosofia:
portiamo con noi quello che non prendiamo (i pidocchi che non abbiamo preso), cioè
siamo quello che non prendiamo; ma non lo prendiamo perché non l’abbiamo preso,
cioè perché non lo conosciamo. E’ nel prenderlo che lo conosciamo, ma
prendendolo lo lasciamo, cioè lo perdiamo. Dunque è solo perdendolo che lo
conosciamo, cioè è solo perdendoci, dunque per contrasto, per negazione, per
differenza, è solo perdendo la nostra eternità per il tempo di una vita, che
possiamo averne consapevolezza. E questa è la dimostrazione inconfutabile della
nostra eternità: perché, per il verso opposto,
è solo per il fatto di essere eterni
che
possiamo avere consapevolezza del divenire.
Perché se non fossimo Enti eterni, ma fossimo soltanto Enti divenienti, del
divenire, che è la nostra condizione apparente, cioè è la forma in cui
appariamo, non potremmo avere consapevolezza, così come non ce l’hanno i
cinghiali, i dromedari, gli alberi, i fiori, i fili d’erba, le vacche.
Possiamo avere consapevolezza della nostra eternità solo nel momento in cui, apparendo al mondo, e al tempo del mondo, la perdiamo, per il tempo in cui dura la nostra esperienza di esseri che divengono.
Questo però pone un altro falso problema, perché significa che l’eternità non è di tutti gli Enti, ma solo di quelli, tra tutti, che hanno sviluppato una certa capacità di pensiero.
Questo tuttavia è solo l’errore che ritorna: infatti è la consapevolezza dell’eternità che richiede una capacità di pensiero astratto, non l’eternità dell’essere in sé.
Dunque la consapevolezza dell’eternità si potrebbe configurare come una sorta di condizione legata a una certa modalità di pensiero, e nella fattispecie alla capacità di istituire un campo di differenze attraverso le quale si costituisce l’essenza dell’Essere.
La domanda quindi si precisa, e nel precisarsi si svela sempre la stessa, anche se in forma diversa: perché dunque si perde consapevolezza dell’eternità? Perché cioè, in questa vita che ora illumina l’essere che sono, non ho memoria di questa consapevolezza che necessariamente devo aver già conosciuto?
L’altra domanda, altrettanto importante e altrettanto ricorrente, è:
perché
non tutti gli essere dotati di capacità di pensiero astratto arrivano ad avere
consapevolezza della propria eternità?
Della risposta a quest’ultima domanda si può discorrere in molti modi e in
tante direzioni, dunque non staremo qui a parlarne.
Quello di cui vogliamo parlare e della risposta alla prima domanda, che non conosciamo e che non possiamo conoscere.
*
La
consapevolezza dell’eternità nasce dalla consapevolezza del limite del
divenire: cioè dalla sua follia e dalla sua infinita violenza. Da quella infinita
violenza cui ogni ente in virtù del divenire è apparentemente soggetto: cessare
di essere.
Sì che un Essere che abbia consapevolezza della propria eternità, e di tale
violenza, mai potrebbe – per necessità, cioè in virtù della sua natura, e non
per semplice imposizione della volontà –
interferire nel divenire di un altro ente.
Anche se anche il fatto morale in sé sarebbe sufficiente: cioè proprio perché
sono consapevole del fatto che il divenire (cioè la vita) di ciascuno è un
percorso che può condurlo al bene supremo (la consapevolezza dell’eternità
dell’Ente), è il tentativo che un Essere sta esperendo di avere cosapevolezza
di sé, di cui io per primo sono consapevole in virtù del percorso che ho già
svolto, mai potrei influenzare in qualche modo
questo percorso, o addirittura interromperlo.
Se lo faccio, se interferisco nel divenire di un altro Ente è perché non ho
consapevolezza della posta in gioco.
Dunque
la consapevolezza dell’eternità non è una condizione cui tutti gli enti
partecipano; è una condizione a cui
tutti gli esseri possono pervenire, ma solo attraverso un cammino determinato.
INFRA
Le cose dette hanno solo il valore del tempo in cui sono dette. Né potrebbe
essere diversamente. Esse infatti sono
espressione dell’Essere che in quel momento è, così come esso è in quel
momento, e non possono essere espressione di ciò che lo stesso Essere è stato o
sarà.
Il che non significa che quello che si dice non ha valore, ma soltanto che ha
valore solo per il tempo in cui è detto.
Per esempio dire: “Ti amerò per sempre”, non significache ti amerò per sempre, ma che ora, in questo momento, sono quell’Essere che ti amerà per sempre. Cioè l’Essere che sono ora ti amerà per sempre.
*
La vita è la luce che illumina un aspetto dell’essere, per un tempo stabilito dalla necessità. Ma, esattamente come la Luna Nuova, l’Essere esiste anche quando la luce della vita non l’illumina.
*
23.7.22
Ogni
Essere è eterno, ma solo chi percorre un determinato camminno può acquisirne
consapevolezza. Dunque la vita è la possibilità data a ogni ente di diventare
consapevole di se, della propria etenità.
Questo significa che anche l’Essere Hitler è eterno, ma essendo stato Hitler,
non ne ha avuto consapevolezza.
E quindi l’Essere eterno che è stato Hitler tornerà necessariamente a
manifestarsi, fino a quando non imboccherà il cammino che lo condurrà alla
consapevolezza della sua natura, cioè della sua eternità. E a quel punto non
avrà più necessità di manifestarsi (cioè di nascere) ancora.
Dunque benché ogni essere sia eterno, è solo con la cosapevolezza di sé che comincia la sua eternità. Cioè è solo nel momento in cui acquisisce consapevolezza di sé che comincia a viverla.
E l’Ente eterno non è un essere che sta in eterno in un luogo eterno in compagnia di altri eterni.
E’ piuttosto la condizione dell’Essere, la modalità dell’Essere, cioè la natura impersonale e a-soggettiva della vita.
07.08.22
Tutta la discussione
sull’arte è una discussione sulle forme della conoscenza.
Ma non è al livello della conoscenza che si gioca la partita.
Non è al livello della conoscenza che si fa esperienza dell’arte.
Dunque tutta la discussione sull’arte è in realtà discussione su qualcos’altro.
L’esperienza dell’arte è l’esperimento del presente, cioè della vera natura dell’Essere, laddove il presente non è il qui e ora, ma è l’ovunque in ogni tempo.
Cioè il presente è la concentrazione in un istante dell’Essere dell’ovunque in ogni tempo.
Ed è solo attraverso l’arte che riusciamo a percepire la reale natura del presente, cioè dell’Essere.
Percepire, non conoscere.
14.8.22
La filosofia è la consapevolezza dell’Eterno.
Sull’Io
assoluto vedi 24.10.21
Holderlin, Hyperion L.1 parte 2, Lettera XXX,
p. 109)
(…) Si discuteva tra di noi dell’eccellenza dell’antico popolo ateniese, delle
ragioni e della Natura della sua grandezza. Uno diceva che era merito del
clima; un altro invece dell’arte e della filosofia; un terzo ancora della
religione e della politica (90).
(90:
la discussione sulle differenze tra religioni, rorme di governo e costumi dei
popoli, prende avvio nel Settecento dall’opera di Montesquieu Lo spirito delle leggi, 1748, che attribuisce al clima una importanza centrale per la nascita della
cultura. Oltre agli scritti di Schiller e di Rousseau, per l’orizzonte teorico
di H. alla base di questa lettera sono di estrema importanza l’opera
fondamentale di Winckelmann, Storia
dell’arte nell’antichità, 1764, e lo scritto di Herder, Idee
per la filosofia della storia dell’umanità,
1784/1791. Winckelmann traccia una netta opposizione tra l’arte (e la
civiltà) greca e le civiltà orientali, che l’hanno preceduta, assegnando al
clima , alle forme di governo e alla tradizione un ruolo decisivo. Herder, pur riconoscendo l’importanza del
clima, ritiene che lo sviluppo culturale dipenda in ultima analisi dal
“carattere nazionale” di un popolo, dalla sua capacità di organizzare un
sistema sociale nell’interazione con l’ambiente, ed elabora un modella di
evoluzione storica dotato di una propria logica interna.)
“L’arte e la religione di Atene, come la filosofia e la politica – replicai – sono i fiori e i frutti dell’albero, non la terra o le radici. Voi scambiate gli effetti con la causa. Quanto a colui che attribuisce tutto al clima, dovrebbe considerare che viviamo ancora sotto lo stesso cielo. Nessun popolo della terra ebbe meno ostacoli di quello ateniese durante la sua crescita, sotto ogni aspetto, né fu più immune da influssi violenti.
“Che rapporto c’è tra la filosofia – chiese lui – tra la sublime freddezza di
questa scienza, (114) e la poesia?”
“La poesia – dissi – è il principio e la fine di questa scienza. Come Minerva
nacque dalla testa di Giove, (115) la filosofia scaturisce dalla poesia di un infinito
Essere divino. E alla fine ciò che in essa rimane inconciliabile torna a
confluire nella misteriosa sorgente della poesia ” (116).
(115:
Nel mito Minerva (Pallade Atena nella nomenclatura greca) è generata direttamente da Giove (Zeus) e
scaturisce già armata dalla sua testa. La similitudine ha qui una pregnanza
allegorica, , essendo Minerva la dea della filosofia (e la protettrice della
città di Atene).
(116: Se l’arte è imitazione e la
religione amore della natura, la filosofia ne è lo studio e la formalizzazione
astratta che però, per il suo carattere limitato e approssimativo, non può
cogliere l’essenza dei fenomeni, e dunque, sorta grazie all’attività estetica,
sua indispensabile premessa, ad essa necessariamente rimanda. In altre parole, la filosofia
analitica non può cogliere l’infinito nella sua totalità. Ciò resta dominio
esclusivo dell’arte. Tra arte e filosofia, tuttavia, si stabilisce uno stretto rapporto circolare:
l’una genera la curiosità e il dubbio alla base dell’altra, che rinvia però
alla prima per la sua inadeguatezza.)
…
“L’uomo – ripresi – che non si è mai sentito, almeno una volta nella vita, colmo di pura bellezza, quando le forze del
suo essere si mescolano come i colori dell’arcobaleno; e che non ha mai provato come solo le ore dell’entusiasmo rivelimo la
profonda armonia di tutto il creato (117),
quest’uomo non diventerà mai un filosofo capace di dubitare: il suo spirito non è fatto per demolire, e
neppure per costruire.
(117:
E’ il momento dell’intuizione intellettuale, come si legge nello scritto
Giudizio/Essere, che è dunque considerato come essenza della attività estetica.
Da qui ha origine il dubbio analitico
(la curiosità) della scienza. Cfr. n. 4 a L 105.)
(“Giudizio/Essere”
Giudizio.
E’ nel senso più alto è più rigoroso la separazione originaria dell’oggetto e
del soggetto intimamente unificati nell’intuizione intellettuale (1), quella
separazione che sola rende possibili
oggetto e soggetto, l’originaria partizione (2).
(1: Intellectuale Anschauung. Il concetto ha una lunga tradizione nella storia
della filosofia, resa complessa dal modo in cui le duiverse lingue europee
riprendono e rielaborano i termini latini di visio, intuitio, evidentia e
contemplatio (in tedesco la parola Anschauung ha in sé molto forte il
significato di “visione”). Per Kant l’intuizione intellettuale è quella visione
delle cose, propria di Dio, che ne
produce l’esistenza, e in quanto tale è
negata agli uomini, che percepiscono il mondo sensibilmente e passivamente a
prescindere dall’esistenza delle cose in sé. Schelling, pur riconoscendo le
obiezioni di Kant, nel suo libro Dell’Io come principio della filosofia fa
invece dell’intuizione intellettuale il presupposto dell’Io assoluto, e dunque
della sua libertà: “L’Io può essere determinato solo in una intuizione. Ma l’Io
è Io solo in quanto non può mai essere oggetto, pertanto non può essere
determinabile in una intuizione sensibile, bensì in una intuizione che non
contemppla alcun oggetto, niente affatto sensibile, vale a dire in una intuizione
intellettuale”. In tal modo il giovane filosofo intende rilanciare le tesi di
Fichte, ribattendo alla critica di chi, come lo stesso Holderlin nella lettera
a Hegel del 26 Gennaio 1795 (L95) –
riteneva il suo sistema privo di fondamento.
L’intuizione intellettuale diventa
così ineludibile per statuire la libertà incondizionata del soggetto: “ Io sono perché sono io! E’ questo che all’improvviso afferra ognuno di noi”. Allo
stesso tempo però, tale rivendicazione di autonomia, rimanda nello Schelling
all’esperienza di un sentimento di comunione con il tutto della creazione,
rivelando la sua matrice spinoziana. In questo senso l’intuizione intellettuale
non designa altro che l’ebrezza dell’ev kai pan: “Nell’io la filosofia ha
trovato il suo ev kai pan”. L’Io assoluto diventa intercambiabile con
l’Assoluto, in una ambiguità che alimenterà il dibattito filosofico successivo.
…
L’intuizione intellettuale diviene presto una parola chiave del lessico del
nascente idealismo e del primo Romanticismo, ed è con ogni probabuilità al
centro dei colloqui che Holderlin avrà con Schelling nell’estate del 1795. E’
appunto in seguito a questo fecondo dialogo che il filosofo scrive le Lettere fiolosofiche sul dogmatismo e
criticismo. Come detto in premessa la duplice glossa “Giudizio /
Essere” è stata verosimilmente scritta
sulla copertina dell’estratto con le prime quattro lkettere di questa
pubblicazione ed è dunque da considerarsi una risposta di Holderlin a Schelling,
databile solo dopo il loro colloquio nel
Dicembre del 1795. Benchè il tema dell’intuizione intellettuale sia
approfondito solo nell’ottava lettera, appartenente alla seconda parte del
saggio, pubblicata nel Gennaio del 1796, si possono rilevare delle convergenze
tra quanto qui esposto e il pensiero di Holderlin, che è incline a vedede
nell’intuizione intellettuale non il presupposto dell’io assoluto, ma piuttosto
l’esperienza dell’en kai pan, come sarà precisato nello scritto “Il poema
lirico, ideale nell’apparenza…”).
Nel concetto di partizione è già insito
il concetto del reciproco rapporto di oggetto e soggetto, posti l’uno di fronte
all’altro, e il necessario presupposto di un intero di cui oggetto e soggetto
sono le parti. “Io sono Io” è l’esempio più pertinente di questa originaria partizione,
in quanto originaria partizione teoretica, giacché nell’originaria partizione
pratica l’Io si oppone al Non-Io, non a se stesso (3).
Realtà effettuale (4) e possibilità sono distinte così come coscienza mediata e
immediata. Se penso un oggetto come possibile non faccio che riprodurre la
precedente coscienza in virtù della quale esso è effettuale. Non si dà per noi
alcuna pensabile possibilità che non sia stata realtà effettuale. Perciò per
gli oggetti della ragione non vale affatto il concetto di possibilità, ma solo
quello di necessità, dal momento che essi non si presentano mai nella coscienza
come ciò che potrebbero essere (5).
Il concetto di possibilità vale per gli oggetti dell’intelletto, quello di
realtà effettuale per gli oggetti della percezione e della intuizione (6).
(6: Nella Critica della ragion pura
Kant delinea tre “postulati del pensiero empirico in generale” a cui Holderlin
sembra qui richiamarsi:
“1) Ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (secondo
l’intuizione e secondo i concetti) è possibile. 2) Ciò che si connette con le
condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è reale (wirklich). 3)
Ciò la cui connessione con il reale è
determinata secondo condizioni universali dell’esperienza è (esiste) in modo
necessario. In quest’ultimo caso, si legge in una precedente nota, il
pensiero è una “funzione della ragione”
laddove possibilità e realtà effettuale
sono rispettivamente correlati all’intelletto e alla percezione. (…) In altre
parole, l’intuizione intellettuale dell’unità dell’essere è, in termini
kantiani, un noumeno della ragione, e in questo senso necessaria ma
indimostrabile.)
(NOUMENO
Termine filosofico, originario della
filosofia platonica ma messo in uso specialmente da quella kantiana. Per
Platone, νοεῖν
(“intelligibili”) o “intellette”: participio presente
passivo del verbo νοεῖν
“intelligere”) sono le idee in quanto distinte dagli αἰσϑητά, gli oggetti sensibili del mondo
empirico. Per Kant una simile assoluta distinzione non può
naturalmente sussistere, perché l’intelletto appercepisce e categoricamente ordina la realtà solo
attraverso l’opera mediatrice dell’intuizione sensibile. Se tuttavia si
ammettono, egli osserva, dei puri oggetti dell’intelletto che nello stesso
tempo possono essere dati a una intuizione, per quanto non sensibile, essi
debbono essere chiamati “noumeni”, o intelligibilia. Sono
infatti le realtà che si può pensare si potrebbero conoscere quando la
conoscenza non fosse necessariamente legata al senso. Sotto questo aspetto, il
concetto di noumeno è puramente negativo, perché la conoscenza non attinge mai
il “noumeno” (ciò che è soltanto pensabile) ma sempre il
“fenomeno” (ciò che concretamente appare nell’intuizione sensibile).
D’altra parte, in quanto la conoscenza è concepita come progressiva
modificazione che prima il senso e poi l’intelletto operano rispetto
all’originario materiale obiettivo, questo stesso materiale, la cui esistenza è
pur pensabile per quanto non possa essere propriamente conosciuta, si presenta
in aspetto noumenico. Il noumeno s’identifica così con la “cosa in
sé” venendo a partecipare dello stesso duplice carattere positivo e
negativo, e della conseguente intrinseca contraddittorietà, peculiari di
questa. V. kant. (G. Calogero)
Dal gr. τὸ νοούμενον «ciò che è concepito dall’intelletto», part. pres. passivo di νοεῖν «conoscere intellettivamente». Termine usato (solo al plurale) da Platone, e ripreso da Kant. Per il primo, n. significa ciò che è pensato o pensabile dal puro intelletto, indipendentemente dall’esperienza sensibile, ossia le idee, in quanto distinte dagli oggetti sensibili. Kant intende per n. l’essenza pensabile, ma inconoscibile, della realtà in sé, in contrapposizione a «fenomeno» (di cui pure costituisce il fondamento, il substrato); quindi il n., come ciò che pensiamo esistente ma non conosciamo, si pone come limite della conoscenza umana. Ma Kant adopera il termine anche in senso positivo, come il sovrasensibile, l’incondizionato, posto fuori dell’esperienza, oggetto diretto e immediato di una possibile intuizione intellettuale; escluso dal campo della conoscenza, esso si rivelerebbe alla ragion pratica o coscienza morale.)
Essere – esprime il legame di soggetto e oggetto. Dove soggetto e oggetto sono unificati in modo assoluto, e non solo in parte, e dunque unificati in modo tale che non può essere effettuata alcuna partizione senza violare l’essenza di ciò che si intende separare, qui e in nessun altro caso si può parlare di un essere in assoluto, come accade nell’intuizione intellettuale. Ma questo essere non va scambiato con l’identità (7). Se io dico: io sono io, il soggetto (Io) e l’oggetto (Io) non sono unificati in modo tale che non possa essere effettuata una separazione senza violare l’essenza di ciò che si intende separare; al contrario, l’Io è possibile solo grazie a questa separazione dell’Io dall’Io. Come posso dire: Io! senza autocoscienza? Ma come è possibile l’autocoscienza? Opponendomi a me stesso, separandomi da me stesso, eppure, incurante di questa separazione, mi riconosco come me stesso nell’opposto. Ma in che misura come lo stesso? Posso, anzi devo porre questa domanda; sotto un altro aspetto l’Io è infatti opposto a sé. Dunque l’identità non è un’unificazione di oggetto e soggetto che avviene in modo assoluto, dunque l’identità non è = allìessere assoluto.
Lettera
105
A F. Schiller
Nurtingen, 4 Settembre 1795
Pedonerete, venerando Consigliere! Se
fornisco così tardi e così poveramente il contributo (1) che mi avevate permesso di inviare. La
malattia e i dispiaceri mi hanno impedito di eseguire ciò che io
desideravo. Forse non andrete in
collera, se Ve lo manderò fra qualche tempo. Appartengo a Voi, almeno come res
nullius (2); dunque anche gli aspri frutti che produco.
Lo scontento di me stesso e di ciò che mi circonda mi ha spinto all’astrazione:
cerco di sviluppare l’idea di un eterno progresso della filosofia, cerco di
mostrare che l’esigenza che va
instancabilmente posta a ogni sistema, ossia l’unione del soggetto e
dell’oggetto in un Io assoluto – o come
lo si voglia chiamare – è sì possibile in prospettiva estetica, nell’intuizione
intellettuale (3), ma dal punto di vista
teorico lo è solo in approssimazione
infinita, comequella del quadrato al cerchio; e che, per realizzare un sistema
del pensiero, un’immortalità è altrettanto necessaria quanto pe run sistema
dell’agire. Credo di poter così
dimostrare in che misura gli scettici
abbiano ragione, e in che misura no.
Mi sento spesso un’esule, quando ricordo le ore in cui parlavate con me, senza
adirarVi per lo specchio opaco o grezzo
nela quale spesso non riuscivate più a
riconoscere le Vostre affermazioni.
Credo sia una qualità degli uimini rari,
quella di saper dare senza ricevere, di sapersi “scaldare anche sul
ghiaccio”.
Troppo spesso, appunto, sento di non
essere un uomo raro. Freddo e rigido
restio nell’inverno che mi circonda. Il mio cielo è di ferro, e io sono di
pietra (4). In ottobre, probabilmente,
prenderò servizio come precettore a Francoforte (5).
Delle mie chiacchiere potrei forse scusarmi con Voi dicendo che in qualche modo
considero mio dovere renderVi conto di me; ma così rinnegherei il mio
cuore. E’ quasi il mio solo orgoglio, il
mio solo ocnforto, poterVi dire qualcosa
e poterVi dire qualcosa di me. In eterno.
Il vostro ammiratore
Holderlin.
3) L’espressione “intuizione intellettuale” rimanda alla filosofia di
Schelling ed è qui attestata in Holderlin per la prima volta. Esprimendo una
sostanziale riserva sulla possibilità di sciogliere attraverso di essa, come
aveva proposto Schelling, il problema di fondo della filosofia di Fichte,
“ossia l’unione del soggetto e dell’oggetto in un Io assoluto”, lo scrittore
assegna all’intuizione intellettuale un valore
puramente estetico. La conoscenza
razionale è così condannata a essere imperfetta e approssimativa, , allo stesso
modo in cui sarà imperfetta e approssimativa l’azione (politica) dell’uomo. Ciò
implica d’altro canto un valore fondante della visione estetica, sia pure con uno status diverso da quello del
sapere razionale.
Poiché,
credetemi, chi dubita trova contraddizioni e difetti in ogni pensiero, in quanto conosce l’armonia
della bellezza perfetta, che non può essere pensata. Se egli sdegna il pane
asciutto che la ragione umana gli offre con le migliori intenzioni, è perché in
segreto banchetta con gli dei.”
…
“ Solo un greco poteva inventare la grande frase di Eraclito en diaferon eauto (l’uno distinto in se
stesso) in cui si esprime l’essenza della bellezza: prima di quella non
esisteva alcuna filosofia.
Il tutto si era mostrato, ora lo si poteva definire. Il fiore era sbocciato;
ora poteva essere considerato minutamente.
Il momento della bellezza si era rivelato agli uomini, nella vita come nello
spirito, era l’unità infinita.
Essa si poteva scomporre, analizzare mentalmente, e il risultato poteva
nuovamente ricomporsi; così era sempre più riconoscibile l’essenza del bene
supremo, che una volta noto diventata legge per tutti i campi dello spirito.
Comprendete ora perché proprio gli ateniesi dovevano tra l’altro essere un
popolo di filosofi?
Non potevano esserlo gli egiziani (119)
11.9.22
G.
De Ruggiero
L’età del Romanticismo
II, Umanesimo e Classicismo
1. Umenasimo e classicismo. – Lo Sturm und Drang è stata una malattia di
sviluppo, una esplosione giovanile di forze disordinate, che ha fiaccato le
fibre meno salde, mentre gli organismi più resistenti, ponendo in moto potenti
contro-forze, hanno superato la crisi e
si sono riequilibrati a un livello di vita più alto.
Wilhelm Meister, che, dopo una serie di sforzi indeterminati per scoprire la
propria vocazione, si placa nell’operosità pratica della vita civile; Faust, il
cui torbido impulso verso nuove esperienze si rasserena, almeno per un momento
nella contemplazione delle forme della bellezza classica, sono i simboli
artistici di quella crisi e del suo superamento. Ma dietro i simboli stanno gli
uomini, Herder, Goethe, Schiller, Humblot, che hanno realmente vissuto le
tormentose esperienze dello Sturm, e si sono attraverso di esse temprati.
(…) Può sembrare a prima vista paradossale che il tumulto dello Sturm sbocchi
in un calmo e sereno classicismo umanistico. E certo, se dissociamo i due
processi uno dall’altro, e prendiamo il classicismo di per sé come
un’imitazione alquanto convenzionale e accademica di antiche forme d’arte e di
vita, il contrasto appare troppo stridente, perché sia possibile mediarlo.
Ma questa dissociazione non ci si mostra che nei tardi epigoni del classicismo,
per i quali l’imitazione degli antichi è una imitazione fredda e impersonale;
per gli iniziatori invece essa procede da un’esperienza non meno viva e personale
di quella che li aveva spinti a una espansione sfrenata delle proprie forze nel
periodo dello Sturm. E’ l’esigenza del limite, dell’ordine, della forma,
che si sveglia e cresce in proporzione
di ciò che è chiamata a raffrenare e a dominare, e che non si esprime soltanto
nell’aspirazione verso l’ideale della classicità, ma anche nella realizzazione di nuovi compiti
scientifici, filosofici, pratici religiosi, perché scienza, filosofia, azione
sono esse pure strumenti di ordine e di interna disciplina.
18.9.22
G. De Ruggiero, L’età del Romanticismo
Herder, p. 82/83
“ Nelle Selve critiche, del 1769, polemizzando con l’empirismo illuministico
del Riedel, egli mostrava l’importanza delle idee oscure e vitali nella genesi
deel’uomo, spiegando che nell’evoluzione
della natura, dalla pianta, all’animale, all’uomo, si dà un intreccio di
misteriose connessioni e divisioni, di impliciti giudizi ed inferenze, per giungere alle idee, apparentemente
semplici e immediate, della figura, della forma, della grandezza degli oggetti
esterni. Anche più oscuro e complicato gli appariva il meccanismo della vita
sentimentale, dove l’esterno e l’interno,
le azioni e le reazioni si mscolano insieme in un groviglio che solo il
semplicismo di un illuminista può scambiare con la semplicità.
Di qui egli concludeva che la bellezza, come la verità, è il prodotto di un
concorso di molti organi, e poiché ciascuno di questi è un monndo a sé, essa è
un contesto di molti mondi.
Trattato sull’origine del linguaggio
(…) Il linguaggio è per Herder la
manifestazione più primitiva dell’uomo, la cui orgigine affonda in quella zona
oscura in cui la sua umanità appena si distriga dall’animalità di cui si è
nutrita e da cui andrà emergendo. Una lingua, nella sua infanzia, trae fuori
suoni rozzi e forti; terrore, paura, meraviglia sono le prime sensazioni che
essa riesce a esprimere; le sue voci
sono inarticolate come quelle delle passioni che fanno impeto in esse e come
quelle della natura fisica che esse inconsapevolmente imitano. Ma se già come animale l’uomo ha un
liguaggio, perché gli animalio non l’hanno? Perché l’uomo è, nel tempo stesso
più che mero animale, o per meglio dire, è su di una via evolutiva diversa, che
suscita in lui il bisogno di una espressione linguistica.
Più
forte e acuta è la sensibilità di un essere organico, più ristretta è la sua
sfera di azione, come si osserva negli insetti. Al contrario, più molteplice è
la capacità di attendere a una pluralità di oggetti, meno acuta è la
sensibilità: è il caso degli uomini. Ora, poiché gli animali hanno una sfera di
azione ristretta, essi non hanno bisogno di un linguaggio: basta l’istinto a
guidarli. E’ invece l’ampiezza di quella sfera, è la distinsione tra i singoli
sensi, che danno agli uomini il bisogno di una lingua; la defucienza
dell’istinto deve in essi esser compensata da altre forze dormienti.
Quali sono queste forze? E’ inconcepibile, osserva Herder, che esse vengano
direttamente dall’alto, cioè che il linguaggio sia di origine divina, come
voleva Hamann. Se le lingue sono all’origine rozze e inarticolate, non è
possibile che siano state create da un essere perfettissimo, che ha inventato
le lettere dell’alfabeto e le ha composte insieme in vario ordine. Tale
composizione è risultata da uno sforzo più tardivo per ricordare e articolare i
primi suoni; “Quindi le parole non sono sillabe della grammatica di Dio, ma sono sorte da selvaggi suoni di liberi
organi”.
Bisognerà
allora ricercare dei fattori specificamente umani.
(…) Herder vede la fonte del linguaggio
articolato in quella che è la facoltà
distintiva dell’uomo dall’animale, e che
egli chiama riflessione (Besonnenheit).
Poiché l’uomo non è legato a una azione istintiva particolare e
determinata, la sua possibilità di muoversi tra sfere di azione diverse è
affidata a una capacità di riflettere, cioè di distinguere e di unire.
(…) Per riflessione egli non intende una singola facoltà separata dalle
altre, ad esse sottoposta, ma una
direzione unica in un concorso di forze. Inoltre, essa non opera intenzionalmente, ma per via di segrete affinità e simpatie.
“L’uomo riflette, quando nell’oceano delle sensazioni può fissare un’onda e
fermarvisi. Il primo segno di questa individuazione è la parola dell’anima”.
A foondamento di tutte le immagini sensibili sta un sentimento che ne
costituisce l’intimo legame; più oscuri sono i sensi, più fluiscono l’uno
nell’altro, e i sentimenti che vi corrispondono s’intrecciano insieme. E
l’anima, che è al centro di questo flusso sensibile e che ha bisogno di crearsi
una parola, prende l’espressione di un
senso vicino, il cui sentimento è più affine, e così inventa le parole per tutti i
sensi, anche pei più freddi.
21.10.22
Fichte
De Ruggiero p. 209
“Di
fronte alla positività del porre, l’opporre è una negatività, cioè, una esienza
dell’Io a ripiegarsi, a riflettersi, a invertire il suo moto espansivo.”
Questa definizione istituisce un Io che
volontariamente, una volta postosi, cioè
una volta dato da sé, si ripiega, come per riposarsi, come per tornare ad uno stato di quiete, come
se il ripiegarsi opponendosi fosse
appunto una esigenza dell’Io già costituitosi.
Io penso al contrario che l’Io si pone nell’opporsi, cioè si costituisce nel
preciso momento in cui si oppone all’altro da sé.
Dunque l’opporsi non è esigenza di ripiegamento, ma atto costitutivo.
Poi dice bene De R.: da questa fusione ha inizio la coscienza, che prima,
appunto, non poteva esistere; e dunque non poteva esistere neanche l’io.
Ma poi di nuovo l’errore: “… che non è concepibile (la coscienza) se non come
coscienza di qualche cosa, cioè come una distinzione di un altro da sé e
insieme come un ritorno a sé”.
La coscienza di qualche cosa, infatti, è per via im-mediata coscienza di sé, che dunque nel confronto nasce, viene in essere; e non – appunto – un ritorno a un Essere preesistente.
Ricapitoliamo dunque le tre proposizioni fondamentalio di Fichte che sono all’origine dell’errore che costituisce il limite dell’idealismo.
1
Il porsi dell’Io è un atto che si compie e si leggitima in quanto si compie:
l’Io si pone, ed esiste in virtù di questo suo porsi. Esso è insieme
l’agente e il prodotto dell’azione.
Fichte dice in sostanza che l’Io si pone da sé, autonomamente, e in questo suo
darsi è la sua leggittimità. Esso si
pone, dunque è.
Ma
questo significa che deve porsi inconsapevolmente, perché se si ponesse per
atto della propria volontà evidentemente esisterebbe prima di porsi! E d’altro canto, il venire in presenza con
l’atto del porsi presuppone un esistere in potenza prima che l’atto si compia.
Altrimenti nulla potrebbe opporsi al
nulla del negativo.
Ma se l’Io esistesse già prima di opporsi al mondo dovrebbe ricordare anche
l’istante della sua nascita, e anche il tempo prima, all’interno dell’utero.
Invece non ricorda nulla, perché è nulla; comincia a costituirsi per riflesso
rispetto a tutto ciò che lo circonda, che gli si pone davanti. E saranno necessari
mesi, o anni, prima che acquisisca consapevolezza di sé, e sia in grado di
distinguersi e riconoscersi in quanto Io.
(Tra
l’altro: che razza di esseri infelici
siamo destinato ad essere fino a quando continueremo a nascere negli
ospedali, e le priome cose che vedremo
saranno facce di infermieri, strani aggeggi, mobiletti di plastica e metallo.)
Le uniche cose veramente a priori dell’Essere sono la posizione del cervello,
il nodo di congiunzione tra la spina dorsale e il cranio, la posizione della
bocca, la posizione e il numero degli occhi, la posizione degli arti e la loro
funzionalità.
L’Essere è ciò che tutte queste cose insieme gli consentono di essere. Egli pensa nel modo in cui tutte queste cose gli consentoni di pensare. Se avesse gli occhi disposti in modo diverso avrebbe un diverso Dio; se non avesse liberato la mano non avrebbe potuto inventare nulla.
Comunque questo è il primo punto fondamentale di Fichte: io sono perché agisco. E non, secondo il comune modo di pensare io agisco perche sono.
Ma per agire devo prima essere! Dunque o esisto prima di agire o è l’agire di ciò che è altro che mi dà modo di essere.
Seconda proposizione fondamentale:
“L’Io dunque si pone; se la sua attività si esaurisse in questo porsi essa sarebbe qualcosa di statico, di immobile, in contraddizione con la sua natura.
In realtà non può esservi attività, né movimento, senza una opposizione o un urto. Pertanto l’efficacia del porre è condizionata dall’opporre, l’efficacia dell’affermare dal negare.
L’Io
dunque si oppone un Non-Io, perché
nient’altro che un non-Io può formare l’opposto dell’Io”.
“Di fronte alla positività del porre
l’opporre è una negatività, cioè un’esigenza dell’Io a ripiegarsi”.
Questo
passaggio è stato già criticato.
Se il primo momento è quello della libertà, il secondo è quello della
necessità, cioè dell’urto che lo arresta
e lo circoscrive, o anche della riflessione, che lo costringe a ritornare sui
se stesso. Senza libertà mancherebbe ogni impulso al movimento; senza
riflessione il movimento si disperderebbe, come una corrente che ristagna in
una sconfinata pianura. La riflessione è appunto l’argine che contenendo le
acque, ne avvia il moto.
Terza proposizione fondamentale: “essa è la sintesi delle due precedenti, cioè l’unità della posizione e dell’opposizione della tesi e dell’antitesi: è il limite dell’Io per mezzo del non-Io o del non-Io per mezzo dell’Io. La funzione dialettica del secondo momento è intellegibile solo nel terzo: “nessuna antitesi è possibile senza sintesi; infatti l’antitesi consiste in ciò, che nell’identico vien cercando l’opposto; ma gli identici non sarebbero tali senza una azione sintetica che li identifica.
23.10.22
Empedocle
Poema Fisico e Lustrale, Valla, Carlo Gallavotti, 1975
Poema Fisico
I
p.9
Criteri di conoscenza
Ora prendiamo a scrutare con ogni organo, come ciascuna cosa si manifesta,
senza dare maggiore credito ad una visione piuttosto che all’udito,
o al rimbombo di un suono più che ai sapori distinti dalla lingua;
non togliere credito alle altre membra, dovunque ci sia un varco per comprendere, e comprendi ciascuna cosa nel modo in cui si manifesta;
Secondo
il mezzo disponibile infatti l’intelletto si accresce negli uomini.
Ma tu senti, o pausania, figlio dell’animoso Anchita;
perché
sono angusti gli organi protesi nelle membra,
e li colpiscono molte vili impressioni, che fiaccano la mente.
Gli
uomini, dal breve destino, scrutano solo una piccola parte della vita
con le loro esistenze, e innalzandosi come il fumo dileguano,
solo
affidati a quel poco che ciascuno incontra a caso,
mentre vagano per ogni dove; e questo, che per lui è tutto,
si vanta di scoprire.
In
tale modo la realtà non è vista né udita dagli uomini, non è colta con la
mente. Ma tu dunque, se così te ne distogli,
almeno avrai quella maggiore conoscenza che l’umano intelletto raggiunge.
Se quelle cose infatti, dentro i saldi precordi infiggendo,
le osservi con impegno attraverso limpide prove,
tutti questi concetti ti resteranno vicini per l’intera vita,
e da questi si otterranno altri grandi vantaggi, perché da soli
Incrementano ognuno nell’indole, secondo la natura che ognuno possiede.
Se
invece ti dirigi verso quelle altre suggestioni, che vili sorgono,
innumerevoli fra gli uomini e fiaccano la mente,
allora ben presto ti disertano, mentre il tempo si svolge, bramosi di tornare
alla propria origine diletta.
Sappi che tutte le cose hanno pensiero e la propria intelligenza;
e come è impossibile nascere da ciò che non esiste affatto,
così, questo che esiste, è inattuabile ed inaudito che si distrugga;
quindi ogni volta si troveranno, dove
ogni volta qualcuno le infigge.
Ma certamente spetta a meschini vittoriosi, di non prestare fede;
però tu, come reclami i fidati dettami della nostra musa,
sii certo di conoscere quando la ragione, dentro le viscere, ti è stata
spartita.
precòrdî s. m. pl. (ant. precòrdia s. f. pl.)
[dal lat. praecordia, comp. di prae– «pre-» e cor
cordis «cuore»]
. – Termine (che nell’anatomia attuale è stato sostituito con precardio) già usato dagli antichi e ripreso poi nella medicina tradizionale e nel linguaggio letter. per indicare complessivamente gli organi e le formazioni anatomiche della cavità toracica che circondano il cuore, ritenuti sede degli affetti, dei sentimenti, della sensibilità: avendo il veleno già occupato il core e tutti i precordii, non se gli trovò rimedio valevole (Bandello); venisti all’Olimpo, o dea Tetide, quantunque afflitta, avendo ne’ precordi lutto indimenticabile (Cesarotti); una voluttà nei precordi la scosse, quasi facendola inginocchiare (Tozzi); bastava guardar le faccie per sentir salire il riso dai precordi (Bacchelli). Nella chiesa romana dei ss. Vincenzo e Anastasio si conservano tradizionalmente i precordî dei pontefici. Oggi si usa per lo più in espressioni enfatiche o scherz.: giungere, arrivare ai p., toccare i p., commuovere, impietosire; commuoversi, turbarsi fino ai precordî.
ìndole s. f. [dal lat. indŏles, comp. di indu– (= in-) e tema di alĕre «alimentare»; propr., in origine, «accrescimento»]. – Temperamento, insieme di naturali inclinazioni che concorrono alla formazione del carattere individuale: la varietà dell’i. umana; una persona d’i. buona, dolce, mite, vivace o d’i. cattiva, riottosa, perversa; agire secondo la propria i.; era portato per i. alla fantasticheria; modificare, correggere l’i. con l’educazione. Non com. di animali: cavallo d’i. focosa. Fig.: l’i. di una nazione, il complesso delle qualità e disposizioni che le sono caratteristiche; considerare diligentemente le qualità e l’i. del nostro tempo (Leopardi). Per estens., riferito a cosa, le qualità o i caratteri essenziali: secondo l’i. della nostra lingua; è nell’i. stessa del contratto; considerazioni d’i. generale.
Interessante notare il significato originario di indole: accrescimento.
11.11.22
De Ruggiero, Fichte, p. 201
Il principio del sapere
è, per la filosofia tradizionale, quello di identità: A = A. Ma lo si può considerare come assolutamente
primario? Esso afferma che se A è dato , deve essere uguale a se stesso, per
una intrinseca necessità del pensiero;
ma assume ipoteticamente che A sia dato senza darne la prova. Ora la validità che A sia posto dipende
dall’io che lo pone; senza l’identità dell’Io (Io = Io) l’identità logica non
si giustifica. L’una è un’identità data, l’altra è una identità che si pone, e
ponendosi, pone anche quella. Noi non abbiamo bisogno di risalire a qualche
altra cosa per convalidare il porsi dell’io; esso si convalida da sé.
…. Il porsi dell’io non è dunque un dato inesplicabile, ma un atto che si
compie e si leggittima in quanto si compie: l’Io si pone ed esiste in virtù di
questo suo porsi. Esso è insieme
l’agente e il prodotto dell’azione.
Le implicazioni di questo fondamentale
principio sono immense. Si può dir che tutto l’idealiasmo post kantiano, anzi,
tutto lo spiritualismo moderno, vi sono racchiusi in embrione. Esso sostituisce
a una metafisica dell’essere una metafisica dell’azione, che ha in sé la sua
norma e la sua misura, mentre l’altra è incapace di giustificare il suo assunto.
Porre al principio l’essere significa affermare che tutto è dato e che anche
noi siamo dati a noi stessi (?). Scaturisce da qui una filosofia statica che si
esplica in un continuo regresso da un fatto a un altro più fondamentale su cui
riposi, fino a toccare un essere supremo che sia il sostegno di tutti. Ed anche
giunto ad esso il bisogno esplicativo del pensiero non si appaga; ma sente più
pungente l’assillo di chiedersi il come e il perché di quell’essere.
… Nella ricerca del fondamento dell’essere, noi immaginiamo dio appaoggiarci, arrestandoci all’essere supremo, a Dio; ma in realtà, più di un ragionato appagamento, il nostro è una rinuncia a pensare. Se invece persistiamo nel riflettere, la difficoltà ci si ripresenta identica, e viene rimossa solo se riusciamo a realizzare (con Spinoza) che Dio è in quanto si fa da se medesimo, cioè a porre all’inizio non un fatto, ma un atto.
Sospensione
15.11.22
Il passaggio fondamentale di Fichte è questo: l’Io, dopo aver posto se stesso
ed essersi riconosciuto per quello che è, dunque ponendo anche il principio di
identità, pone l’oggetto fuori di sé, e lo riconosce uguale a se stesso; Dunque
A=A perché Io= Io.
Io, al contrario, penso che il primo pensiero dell’essere nato è: cos’è questo?
Ed è esattamente nel tempo dello svolgersi della domanda che l’essere prende
coscienza di se e della sua esistenza, come colui che domanda. Ed è in funzione
della risposta che costruisce alla domanda che inizia a costruire se stesso.
Il principio di identità, oltre ad essere illogico (come si fa a dire che A è = ad A se non si sa cos’è A?) è dunque un falso punto di partenza, perché non è nel riconoscimento di esso che l’essere si forma, bensì nella domanda su ciò che appare. Non è l’Io che pone il mondo, ma è il mondo che si impone all’io come domanda e lo fa nascere come risposta. Questo riposizionamento è a tutti gli effetti una inversione di rotta. E’ un cambiamento radicale, perché riconosce l’uomo come prodotto del mondo, e non il mondo come prodotto dell’uomo. E mentre l’idea del mondo come prodotto dell’uomo presuppone la nascita di un soggetto, l’idea dell’uomo come prodotto del mondo svela la sua sostanziale asoggettività, oltre alla sua infinita presunzione.
Questo
significa anche che cambiando il mondo, cambiando cioè le condizioni esterne,
cambia anche l’uomo. Perché come gia Archiloco scriveva, ben prima dell’avvento
dei Sapienti, il Mondo è ciò che Dio ti manda, e l’uomo è quello che egli fa
nel mondo, nel posto in cui è:
vvvvvvvv
Ripresa
La metafisica dell’atto porta invece in sé la propria giustificazione: l’atto
si giustifica producendosi, e ogni spiegazione, in quanto è una attività che si
spiega da esso, è un incremento, un arricchimento
dell’atto iniziale.
… Noi abbiamo, già in questa diffeerenza
26.11.22
Carlo Diano, Commento a Leopardi
(Opere pag. 1796)
… Degno di nota assai è questo
passaggio:
… Anime care,
bench’infinita sia vostra sciagura,
datevi pace; e questo vi conforti
che conforto nessuno
avrete in questa o nell’età futura.
In seno al vostro smisurato affanno posate…
Che cos’è questo posare in seno allo smisurato affanno e il confortarsi al pensiero di non aver nessun conforto? E’ il primo accenna a quell’abbandono disperato dell’animo, quel desiderio di sparire nel sentimento chiuso ed arido della propria infelicità, che troveremo in molte poesie posteriori; sentimento ch’egli ebbe a provare molte volte nella sua vita e che confina con l’insensibilità per aver troppo sentito e sofferto.
Carlo
Diano
Linee per una fenomenologia dell’arte.
(da Opere, Bompiani,
2022)
1. Forma ed evento.
p. 106
…. Di evento dunque non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto
dall’ambito stesso di questo soggetto.
(l’evento essendo non quello che accade, ma ciò che accade a qualcuno)
E poiché è in tale rapporto e da tale
ambito che l’accadimento, venendo costituito in evento, si svela anche alla
coscienza come accadimento, non solo gli accadimenti possono essere sentiti
come eventi, ma anche quelle che noi
chiamiamo “le cose”, nell’atto in cui l’uomo ne avverte l’esistenza come
qualcosa che sia per lui e non per se stessa.
Questo spiega l’indistinzione tra
nome e verbo che i glottologi pongono all’origine del linguaggio e che noi
ancora troviamo in molte lingue primitive e non solo primitive.
La dottrina stoica che ripone l’essenza della proposizione nel verbo e
considera il nome come secondario – laddove per Aristotele “l’uomo cammina” è
uguale a “l’uomo è camminante” ha la sua origine prima nel sentimento
linguistico di Zenone che era un semita.
— La questione tuttavia va
puntualizzata e definita meglio. Dire “l’uomo cammina” e “l’uomo è camminante”
è effettivamente la stessa cosa. Diverso è dire “l’uomo cammina” e “l’uomo è il
camminante”. Solo in questo modo il verbo diventa sostantivo e solo in questo
modo il soggetto, cioè il nome – si annulla nell’azione e (allo stesso tempo)
nell’azione di definisce e trova la sua essenza. Allo stesso modo l’Essere è
l’Essente, cioè non colui che è (dato), ma colui che è sempre nell’atto
(azione) di essere.
Da qui, via Fichte, si arriva a Gentile.
Scrive De Ruggiero parlando di Fichte (p. 202):
Il porsi dell’Io è un atto che si compie e si leggittima in quanto si compie:
l’Io si pone ed esiste in virtù di questo suo porsi.
…
Questo principio (che racchiude tutto l’idealismo post Kantiano) sostituisce a
una metafisica dell’essere una metafisica dell’azione che ha in sé la sua norma
e la sua misura.
Porre al principio l’essere significa affermare che tutto è dato e che anche
noi siamo dati a noi stessi. Scaturisce di qui una filosofia statica, che si
esplica in un continuo regresso da un fatto a un altro più fondamentale su cui
riposi, fino a toccare un essere supremo
che sia il sostegno comune di tutti. … Nella ricerca del fondamento dell’essere
noi immaginiamo di appoggiarci, arrestandoci all’essere supremo, a Dio; ma in realtà, più di un ragionato
appagamento, il nostro è una rinuncia a pensare. Se invece persistiamo nel
riflettere, la difficoltà ci si ripresenta identica, e viene rimossa solo se riusciamo a realizzare
(con Spinoza) che Dio è in quanto si fa da se medesimo, cioè a porre all’inizio
non un fatto, ma un atto.
… Noi abbiamo, già in questa differenza,
un primo criterio distintivo tra lo spirito e le cose o gli esseri nella
loro natura definita o irrevocabilmente data. Le cose sono quel che sono, e noi non possiamo pensarle come modificabili
e trasformabili, se non sopravvenga ad esse un’azione; lo spirito invece è ciò
che si fa da se stesso, in quanto è un’attività che non trova limite in una cosa
o in una natura preesistente, ma pone da sé il proprio limite e continuamente
lo sorpassa.”
Il che è un modo per ridefinire il
rapporto tra nome e verbo nel senso poc’anzi detto.
Continua Diano:
Come id quod cuique èvenit, l’evento è sempre hic et nunc. E non sono l’hic et nunc che localizzano e
temporalizzano l’evento, ma è l’evento che accadendo a qualcuno in quel
determinato luogo localizza l’hic e temporalizza il nunc.
E l’hic è in conseguenza del nunc: perché è come interruzione della linea
indifferenziata e non avvertita della durata che l’evento emerge e s’impone, ed
è per essa e in essa interruzione che l’hic si svela.
La distinzione che gli studiosi della mentalità primitiva fanno tra lo spazio e
il tempo, che essi pongono sul medesimo piano, è un errore. Nella “mentalità
primitiva” spazio e tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario.
Il mito ha sempre forma storica, ed è
nei tempi in cui l’evenit del mito si rifà èvenit del rito, che i luoghi e gli
oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi:
nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella
data è attuale e presente come evento (— i luoghi e le cose: le quali
anch’esse esistono in quanto richiamo dell’evento – in questo senso il rito
diventa prassi quotidiana e dunque un modo di vivere perennemente nel mito,
cioè nella consapevolezza del mistero e nella necessità della domanda: cosa che
si configura come qualità diversa del modo di utilizzare il tempo concessoci).
Solo per questo le cose possono essere sentite come eventi e i nomi confondersi
coi verbi. Ma sul piano obbiettivo della coscienza il rapporto si rovescia,
perché solo lo spazio è rappresentabile.
(questo significa che l’assunzione del dato
nasce come errore: spazializzando artificiosamente ciò che non può avere
forma compiuta in quanto sempre evolventesi. Cioè interrompendo arbitrariamente
un processo e elevando il dato ottenuto, corrispondente allo stato dell’ente
nel dato momento, e dunque suscettibile di continua mutazione – a definizione
in quanto tale conclusa e non suscettibile di cambiamenti. Questo è il rapporto necessario e
contraddittorio tra la forma, imposta dalla coscienza, e l’evento, cioè il
senza forma per eccellenza, cioè il reale).
2. L’apeiron periechon
L’evento è sempre nella relazione di due termini: l’uno è il cuique, il
ciascuno come pura esistenzialità puntualizzata nell’hic et nunc, e che
l’evento disvela (è noto che la coscienza dell’Io come persona è una delle più
tarde conquiste dell’uomo e ne è anche la più precaria), l’altro è la periferia
spazio temporale da cui l’èvenit è
sentito provenire. Il primo termine è
finito, il secondo è infinito e come ubique et semper comprende tutto lo spazio
e tutto il tempo: è in esso che ha sede il Divino.
(qual è la dimensione che può
comprendere tutto lo spazio e tutto il tempo? La dimensione del nulla. Perché
nel momento in cui qualcosa compare lo spazio e il tempo non possono essere più
Tutto lo spazio e Tutto il tempo, ma solo lo spazio e il tempo di quella cosa.)
Questa relazione è sentita e non pensata, e solo come relazione sentita è
reale. La prima definizione che noi abbiamo di questa periferia fatta
presente dall’evento è l’apeiron periechon che Anassimandro e i teologi
greci identificavano con il divino, e da cui facevano governare il tutto.
(e se questa periferia fatta presente dall’evento fosse presente sempre, a prescindere dall’accadere di qualcosa, ma venisse sentita come sola condizione dell’Essere, cioè di essere qui e ora e quindi per conseguenza ovunque e sempre?)
Vi sono eventi ed eventi, e ciascuno ha
la sua dimensione e la sua direzione, ma
tutti sono caratterizzati dalla vissuta presenza dell’apeiron periechon. Ciò è
provato dall’esperienza, dalla fenomenologia delle religioni e da due dei più
tipici sistemi dell’evento: lo stoicismo, che ne esprime la massima chiusura, e
l’esistenzialismo, in cui esso si presenta nella forma più aperta.
Nell’esperienza ciascuno sa che ogni evento, nell’atto in cui lo si vive, è
almeno per un istante tutto quanto v’è di evento nel mondo, e la sensazione
che l’accompagna è, nell’ordine spaziale quella dell’isolamento e del vuoto, e,
nell’ordine temporale, quella d’un arresto in cui il tempo emerge e fa gorgo, e
l’una cosa è inseparabile dall’altra.
Tra i fatti che attestano la vissuta
presenza del periechon che caratterizza ogni evento due sono particolarmente
significativi: il simbolismo del “Centro”, studiato da Mircea Eliade, e la “primordialità” del tempo del mito. Per
il simbolismo del centro non v’è luogo sacro che non possa essere considerato come
“centro del mondo”. Per eccellenza lo sono: la montagna, il tempio, la
residenza del Re, la città.
Quanto al mito esso è insieme “al principio” del tempo, e “in ogni tempo”, che è come dire nel tempo del periechon. E
poiché il mito non è reale se non per la “ripetizione”che ne viene fatta dal
rito, e il tempo del rito coincide sempre col tempo del mito, rito e mito non
sono che i mezzi per riprodurre il rapporto dell’hic et nunc e dell’ubique et
semper vissuto in atto nell’evento.
Presso alcuni popoli primitivi il tempo del mito ha un proprio nome, e non è
solo tempo. Tale è per esempio il Dema della Nuova Guinea, che designa “gli antenati, il tempo
primordiale, lo straordinario e il soprannaturale” Ma senza ricorrere ai
primitivi, basta pensare all’olam ebraico, che è insieme il tempo del
mondo ed esso stesso il mondo.
Passando al piano del pensiero riflesso e della filosofia, come nello stoicismo
la realtà è fatta di eventi, e ogni evento
presuppone per intero il ciclo in cui si attua e si chiude il logos
divino, e ogni punto è in relazione
sempre con la periferia e coincide con essa, così per Heidegger la prima
struttura del Dasein, o esserci, è l’In
der Welt sein, un essere nel mondo che è
inseparabile dalla comprensione che l’esserci ha del suo essere. Ma tanto la
comprensione, che l’essere nel mondo, son al di qua di quello che noi chiamiamo
coscienza e non si possono rivelare e venire vissuti se non come evento.
Il rapporto che è tra l’hic et nunc del cuique e l’ubique et semper del periechon è dinamico e reciproco. Di qui l’Ineinander col quale il Cassirer caratterizza lo spazio della mentalità primitriva e del mito. In questo Ineinander le figure diventano precarie, le cose si disfanno della sostanzialità loro, tutto è fluido: l’uomo sente rotti i limiti ai quali nel proprio corpo si affidava, lo spazio esterno lo penetra, discopre e mette a nudo qualcosa che è alle radici stesse del suo essere per cui egli non ha parola, perché non ne può avere la rappresentazione, lo sospende tra il nulla dell’istante che cade e il nulla di quello che ancora deve scoccare, e della durata fa un gorgo in cui l’irreversibilità del tempo è abolita e tutto è possibile (Van der Leeuw).
3. Le forme simboliche e la forma
La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo e a questo aprirsi dello spazio creatigli dentro e
d’intorno dall’evento è di dare ad essi una struttura e, chiudendoli, dare
norma all’evento.
Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è la diversa
chiusura che in esse vien data allo spazio e al tempo dell’evento, e la storia
dell’umanità, come la storia di ciascuno
di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure
d’eventi.
La più semplice forma di chiusura è il nome. Specificando la potenze che si rivela nell’evento, il nome ne supera l’infinità rendendo così possibile all’uomo di liberarsi del thambos (stupore) e di dare una direzione alla propria azione. Ma questo medesino nome, che da forma all’evento, permette anche di riprodurlo.
L’esempio più cospicuo di chiusure fatte a base di nomi ci è dato dagli indigimenta romani. Non c’è atto o momento della vita dell’uomo e della natura, non c’è accadimento, che per i Romani non sia un evento e non riveli una potenza, a cui viene dato un nome che è il nome stesso della cosa.
INDIGITAMENTA
(Treccani)
Nome dato dai Romani antichi alle
formule sacre con le quali s’invocavano le divinità, perché fossero propizie ai
singoli atti della vita, cosi privata come pubblica, alle imprese d’ogni
genere, singole o collettive.
Era della massima importanza che s’invocasse, caso per caso, la divinità
prestabilita, chiamandola col nome e con gli epiteti a essa proprî e con la
formula dovuta: qualunque errore commesso nel formulare l’invocazione ne
rendeva nullo l’effetto. Donde la necessità di conoscere a fondo l’arte degl’indigitamenta:
essi stavano
sotto la sorveglianza del collegio dei pontefici, il cui capo (il pontefice
massimo) dettava, per gli atti religiosi compiuti per conto dello stato, le
formule al magistrato o la sacerdote che li compiva. Tali formule erano
custodite dai pontefici nel più gran segreto, poiché, se conosciute dai nemici,
avrebbero potuto essere da questi usate a danno dello stato romano. Le divinità
da invocare erano innumerevoli, e si poteva indigitarne una sola o molte
contemporaneamente; e siccome, a malgrado di ogni precauzione, si poteva cadere
in qualche errore di formulazione, si aggiungevano, alla fine dell’invocazione,
delle frasi generiche intese a stornare l’eventuale danno (p. es.: sive
quo alio nomine fas est nominare; sive deus sive dea; sive
mas sive femina, ecc.).
Bibl.: L. Preller-H. Jordan, Römische Mythologie, 3ª ed., Berlino 1881, I, p. 104 segg.; C. M. Zander, Versus Italici antiqui, Lund 1890, p. 24 segg.; H. Usener, Götternamen, Bonn 1896, p. 75 seg.; G. Appel, De Romanorum precationibus, Giessen 1909; G. Wissowa, Religion und Kulturs der Römer, 2ª., Monaco 1912, pp. 37; O. Richter, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., IX, col. 1334 segg.
Lo stesso vale per il mito, che altro non è se non uno
sviluppo del nome, e che, come il nome,
dando forma a un evento lo chiude e ne permette la “ripetizione” in un rito.
Col che siamo arrivati alle soglie della “forma”. Perché tutte queste chiusure,
considerate in sé stesse e fuori dalla relazione con l’evento, sono forme e non
sono possibili senza l’azione del principio che è proprio della “forma” , ma
non sono “la forma”.
Forma è ciò che i greci da Omero a Plotino chimarono eidos, ed eidos è la “cosa veduta”, e assolutamente
veduta. Ciò che la caratterizza è l’essere “per sé” (kat’autò). Solo essa è per
sé, e quello che è lo è in sé stessa e
per sé stessa, ed esclude la relazione.
Come tale, esaurisce la sua essenza nella sua contemplabilità: tutto quello
che essa è, è contemplabile, e ciò che in essa non è contemplabile, non è.
Delle forme invece che l’uomo dà all’evento, nessuna è “per sé”, esse sono sempre “per altro” (kat’allo ti), e “in vista dell’altro” (enekà tinos allou), e non s’intendono che nella relazione. Come forme anch’esse sono contemplabili ma la contemplabilità non esaurisce la loro essenza, è solo un mezzo per attingere ciò che in esse non appare, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e non eide, forme eventiche, e non le “forme”.
(— importante e fondamentale distinzione tra due sensi/significati opposti di forma: la forma chiusa in sé – kat’autò – e la forma eventica, cioè figura che si completa con ciò a cui rimanda, quindi con quello che dell’oggetto non può essere mostrato. – A indagare questa forma lavora Diano, e questa è la forma che declinata con diverse tecniche chiamiamo arte.—)
E’ qui da chiarire il significato in cui in rapporto a queste forme il simbolo va preso. Simbolo (da sun-ballein “mettere insieme”) è in origine la tessera ospitale di cui ciascuno dei due ospiti conseva una parte. Separate, le due parti non significano nulla, il loro significato non l’acquistano se non nell’atto in cui vengono “messe insieme”.
(— dunque se il simbolo è costituito da un segno,
tale segno preso di per sé non significa nulla, ma acquista significato solo se
è “messo insieme” a ciò di cui costituiva parte essenziale e da cui è stato
separato. Così, l’uomo può essere considerato simbolo egli stesso, che ha senso
e significato solo nel momento in cui viene “messo insieme” a ciò da cui è
stato separato.
Cioè l’uomo è uomo solo nel momento in cui viene messo insieme al non- uomo, a
quel Tutto dal quale si è separato (l’Io al Non-Io). Ma dal quale si è separato per diventare uomo,
cioè soggetto. Dunque l’uomo è uomo,
cioè è il e nel suo senso, solo nel momento in cui torna a non essere
uomo, cioè soggetto. Ed è per poter tornare ad essere non-uomo che è diventato
uomo.
Nel suo esser simbolo inoltre l’uomo è dunque anche segno.)
Lo stesso vale del mito e di tutte le forme
dell’evento. Ciascuna di esse, presa separatamente, è una figura, ma il suo
significato non è in quella figura, sì nell’unione con l’ “altro” che la
giustifica e che essa ha la funzione di
rifare presente.
Se questo “altro” fosse rappresentabile avremmo l’unione di due figure, e
quindi l’allegoria. Ma il mito non è allegoria.
allegorìa s. f. [dal lat. tardo allegorĭa, gr. ἀλληγορία,
comp. di ἄλλος «altro» e tema di ἀγορεύω
«parlare»]. – 1. Figura retorica, per la quale si affida a una
scrittura (o in genere a un contesto, anche orale) un senso riposto e allusivo,
diverso da quello che è il contenuto logico delle parole: l’a. dell’«Amorosa
visione» del Boccaccio; le a. della «Divina Commedia».
Diversamente dalla metafora, la quale consiste in una parola, o tutt’al più in
una frase, trasferita dal concetto a cui solitamente e propriamente si applica
ad altro che abbia qualche somiglianza col primo, l’allegoria è il racconto di
una azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato
apparente. 2. Figurazione pittorica o plastica di un concetto
astratto: l’a. della Calunnia, di Apelle e del
Botticelli.
Ciò aveva visto lo Schelling, che a
caratterizzarlo aveva coniato l’opposto termine di tautegoria. Ma era un
errore: solo la forma, in quanto tale, è tautegorica; il mito, e cioè la forma eventica, non è mai senza
“l’altro”.
Ma questo “altro” lo pone e non l’enuncia. E però, se si deve creare un
termine, si deve parlare di “allotesia”.
“l’altro” infatti è l’evento, e cioè un evenit, che è sempre hic et nunc e
sempre è centro di un periechoin infinito, e che pertanto non può che essere vissuto. E’ nel symballesthai
tra la figura e l’evenit che sta tutto il valore del simbolo. Ed è perciò che
il mito è inseparabile dalla “ripetizione” che ne viene fatta dal rito, e fuori
di esso è favola.
Tautegoria
Neologismo introdotto
da Schelling nella Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der
Mythologie ( e mutuato da S.T. Coleridge, in funzione antiallegorica, allo
scopo di spiegare l’origine della mitologia. Secondo la spiegazione
«tautegorica», nelle figure mitologiche sussiste identità tra essere e
significato; tali figure non sono cioè mere rappresentazioni» di qualcosa che
si distingue da esse, ma sono realmente ciò che significano: «La mitologia non
è allegorica, ma tautegorica. Dal punto di vista della mitologia, gli dèi sono
esseri realmente esistenti, non sono qualcosa di diverso, né significano qualcosa
di diverso, bensì significano solo ed esclusivamente ciò che essi sono».
Citazione
Basso, I. M., Voce “Tautegoria”, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006: 11303-11304 [http://hdl.handle.net/10807/107128]
Di qui l’intrasferibilità e
l’intraducibilità dei miti, che è l’intrasferibilità e l’intraducibilità anche
della parola in ciò che essa ha di eventico. Perciò le poesie vanno recitate e
cioè ripetute e ricalate nell’evento.
Ma un’altra cosa si intende: l’identità d’essere tra significante e significato
di cui parla il Van der Leeuw trattando del simbolo, ch’egli definisce come “partecipazione del
sacro alla sua configurazione attuale”, e giustamente riconduce al valore
originario di “cosa messa insieme”.
“L’immagine – egli scrive – è la cosa stessa ch’essa rappresenta”. E’ la
cosa, perché questa, quand’anche si presenta come cosa, non è “cosa” ma evento, perché cioè quello che essa è non lo è per la
sua forma visibile, ma per “l’altro” che la assunta e ne ha fatto la sua
epifania.
E però non è necessario neanche che vi sia somiglianza, e il più delle
volte non ve n’è nessuna. I pezzetti di legno che gli australiani mettono tra i
capelli, sono la stessa carne di canguro che l’antenato totem portò sulla testa
nelle migrazioni (Van der Leeuw). Il che non è segno di infantilismo, perché
quanto meno vi è di contemplabilità e di forma, tanto più v’è di potenza e di
evento. Ed è per questo che anche
nelle religioni più progredite alle immagini più formate si preferiscono le più
rozze ed informi. A volte, ed è il caso estremo, il simbolo è ridotto
addirittura all’assenza d’ogni forma: il vuoto dell’arca di Jahvè: anch’esso una
forma, la suprema tra le forme delle sue epifanie. (04.12.2022)
04.12.22
Le immagini parlanti di Wim Wenders.
Rivisto “Andrà tutto bene”. Approfondire il tema. La poesia delle immagini di
Wim Wenders.
17.12.22
continua Diano.
4. Dal verbo al nome.
E’ all’arché stessa di questa stessa
coincidenza (tra immagine e cosa/significato e significante) che noi dobbiano
cercare di arrivare, ricostruendo il processo che la genera e nel gorgo
dell’evento rende possibile all’uomo di dargli una forma, e una forma tale che
ne conservi senza annullarla l’apertura e gli permetta in virtù della sola
ripetizione rituale di riprodurlo.
Prendiamo la forma più semplice, il nome, e consideriamo il caso di Rediculus.
Preso come nome, Rediculus è “colui che fa tornare indietro”, ma dietro quel
colui non c’è nessuna persona, e neanche nulla di rappresentabile oltre quello
che è contenuto nel nome.
“Il fatto d’aver ricevuto un nome – scrive il V.d.L. non fa che lo
straordinario e il sorprendente (che è quello che noi diaciamo l’evento) non
conservi spesso il carattere generico del mana”.
(Van del Leew, p. 112:
L’uomo ches si sente obbligato a mattersi in regola con una potenza, e
sperimenta in essa l’azione di una volontà,
cerca d’inserire quest’esperienza in una cornice, di separarla da altre
analoghe esperienze vissute. Con questo fine le dà un nome. Perché il nome non
è una semplice designazione, è un essenza conferita ad una parola. Jahvè creò gli animali e li condusse a
Adamo, il quale disse qualche cosa: quel che disse fu il loro nome. Il nome
della cosa è presente prima che la cosa abbia ottenuto un personalità. Il nome
di Dio si ha anche prima che Dio sia presente.
Nel nome si riflette la volontà sperimentata e anche la potenza sperimentata.
Lo straordinario, il sorprendente, avendo ricevuto un nome, nondimeno conserva spesso il carattere generale del mana.
I cedri giganteschi sono “cedri di El”.
La forma plurale esprime l’imprecisione, quando l’esperienza è più potente
della figurazione. I Germani sentono la potenza dei Dominanti, che regnano nell’oceano, nel mare e nella
campagna. Anche la Grecia conosceva simili potenze collettive, la cui
impersonalità era resa col plurale, e che manifestavano la loro attività
soltanto collettivamente: le ninfe le muse, le ore ecc. Il mondo celtico aveva
le madri, che apparivano a triadi e che sono sopravvissute nella credenza
popolare delle Tre Marie. Anche l’Egitto conosceva già le sette Hator.
In questo non v’è ne politeismo né polidemonismo. Vìè configurazione della
potenza e della volontà. Come l’uomo dà alla propia potenza la figurazione di
una pluralità di anime, così la potenza del mondo gli appare non con i tratti
di una persona, ma come danza delle Cariti, o tempesta delle Ore.
Tuttavia, più l’esperienza immediata della potenza è seguita da una seconda
esperienza che ha figura propria, più si
rinforzano i tratti personali.
L’esperienza propriamente numinosa non ha forma; sprovvista di struttura, è
soltanto contatto della potenza, incontro della volontà. Soltanto la doppia
esperienza della figura matura i demoni e gli dei. Sarebbe errore attribuire
qui una parte veramente apprezzabile alla fantasia, all’immaginazione. No, non è il capriccio sregolato che si scatena
in questo modo; v’è invece figurazione; la potenza senza forma, la volontà
senza scopo, ricevono collegamenti intellegibili, che si uniscono a
formare un insieme individualmente
disegnato.
…
Il nome dà alla potenza, alla volontà, una figura precisa e un contenuto ben
definito. Il nome quindi, non è affatto un’astrazione, anzi, non è soltanto
essenziale, ma concreto e quasi corporeo. Per gli Egizi, i nomi degli dei altro
non erano che le loro membra. Soltanto per mezzo del nome gli dei giungono a avere una storia e raggiungono il mito. Il mito infatti altro non è che “la doppia
esperienza vissuta dalla figura”, l’esperienza del dio rinnovata, percepita da
ora in poi indirettamente, fornita di
una struttura conforme (nota: appunto così pensa Levy Bruh nella sua bella
esposizione Fonctions, p. 434: “I miti sarebbero dunque anch’essi prodotti
della mentalità primitiva, che appaiono quando questa si sforza di realizzare
una partecipazione non più sentita come immediata, quando ricorre a
intermediari, a veicoli, destinati a
assicurare una comunione che non è più vissuta?).
Per questo l’uomo vuole conoscere il nome del dio; solo se lo conosce è in
grado di farne qualche cosa, di vivere con lui, di distinguersi da lui,
eventualmente, con la magia, di dominarlo. (…) gli israeliti nonn hanno avuto
requie finché non sono riusciti a dare un nome proprio al loro dio. Questo significava che era
possibile conoscere quel dio, che il dio si faceva conoscere. Al contrario, il Dio di Goethe, che non ha
nome, non è un dio che possa rivelarsi.
Perché il nome non è soltanto una designazione, un mezzo tecnico; è l’anima di
un essere; non si adopera per
distinguere quest’essere da un altro, ma per dare una forma al suo essere. Per
questo la nomenclatura è prerogativa dell’uomo, il quale “inventando nomi
particolari alle cose” ne fa il suo mondo di esseri conosciuti da lui (Stefan
George)
… la struttura del nome delle divinità o degli dei particolari rappresenta
dappertutto un gradino indispensabile fra la potenza sprovvista di forma e la
compiuta figura divina. Gradino
intermedio; non in senso cronologico, naturalmente, ma in senso psicologico
strutturale; ancor meglio: rapporto intelligibile.
Dappertutto si rivelano potenze molto divirse. La parola greca Daimon esprime
semplicemente questa credenza: un dato effetto sarà prodotto da una potenza
superiore. Dunque, propriamente parlando, ogni esperienza della potenza, ogni
incontro con una volontà che ci supera, dovrebbe metter capo ad un personaggio
divino. In realtà molte volte è così, ma non sempre. Non abbiamo quindi il
diritto di considerare gli dei individualizzati, particolari, un elemento necessario
nell’evoluzione dell’idea di Dio.
E’ soltanto un rapporto intelligibile, necessario alla struttura, sia che in
realtà si produca, sia che non si produca.
Per le potenze molteplici o addirittura innumerevoli che si lasciano
riconoscere dall’uomo nella foresta e nei campi, in casa e sul lavoro, per gli
agenti che le credenze popolari designano spesso semplicemente con lui o lei,
per l’infinita diversità dei covoni (ciascuno sicuramente rivela una potenza
miracolosa), delle montagne, (ciascuna possiede una vibrazione particolare),
dei lavori (ciascuno esige una forza speciale): il nome adduce la possibilità
di distinguere, di chiamare e di enumerare.
…
Un’esperienza vissuta non appartiene a Dio, ma possiede il suo dio che
appartiene ad essa. Ulisse, gettato sulla costa di Kheria, giunge alla foce di
un fiume e ne invoca il dio: “Ascoltami
sovrano, chiunque tu sia, tu ardentemente supplicato!” Questa non è affatto
un’astrazione, l’esperienza è molto concreta; non è una teoria, è una
costatazione empirica della potenza, che crea in questo modo gli dei
particolari. Non si tratta di una
potenza in generale, e ancor meno dell’idea astratta di potenza; si tratta invece
di questa potenza attuale, che ci sta di fronte in questo momento, di chi di ragione. Orazio Coclite, precipitandosi nel Tevere,
non invoca la divinità, si rivolge al fiume stesso: “Tiberine pater, te sancte
precor, haec arma et hunc militem propitio flumen accipias.”
H. Usener ha inventato le espressioni dei dell’istante (Augenblicksgotter) e
dei particolari (Sondergotter).
…
La maggior parte delle esperienze vissute nell’istante passano, svaniscono
subito forse con lìinvocazione di un theos tis sconosciuto. Qualche volta
soltanto questo dio riceve un nome, come quel dio che obbligò Annibale a
ritirarsi davanti alla porta Capena; gli fu eretto un fanum sotto il nome di
Rediculus; ed alla voce che aveva annunciato l’avvicinarsi del Galli fu
innalzato un altare, sotto il nome di Aius Locutuis.
Usener:” Si tratta soltanto di fenomeni e di rapporti limitati, finiti, mediante i quali il senso dell’infinito
penetra nella coscienza… Non è l’Infinito, ma è qualche cosa di infinito, di
divino, che l’uomo si rappresenta e che, afferrato dallo spirito, si imprime
nel linguaggio”.
Nel paradosso di questo qualche cosa di
infinito, aleggia tutto il mistero della concezione religiosa; la
delimitazione vi si delinea in anticipo, non soltanto in figura antropomorfa,
ma come la implicheranno il dogma, la parola in generale.
In ogni divinità vi è un elemento di
istantaneità, di particolarità. Ma quel che costrituisce il dio particolare
propriamente detto è il nome. Il nome costringe la figura a durare; garantisce
che l’uomo la ritroverà sempre. Il numero di questi numina è illimitato. Nella vita, ogni azione attuata, ogni
esperienza, ha il suo dio. “Così
l’istante in cui un oggetto, o le sue qualità più vistose, penetrano, mediante un qualsiasi contatto
percettibile, sia piacevole che
ripugnante, nello spirito e
nell’esperienza degli uomini, segna la
nascita di un TRO nella coscienza dell’EWE”. (581)
I Romani associavano al minimo
avvenimento l’invocazione di un dio particolare. “Venilia – dice Varrone – è
l’onda che si avvicina alla spiaggia, Salacia quella che torna verso il largo”.
“Perché – domanda Sant’Agostino, che ci ha conservato questo frammento del
dotto teologo romano – perché due dee, dal momento che l’onda saliente e quella
che scende sono una cosa sola? Appunto per la frenesia di avere molti dei.” (De
Civitate Dei)
(— in realta, che una cosa sola possa comportarsi in modi diversi, o fare cose diverse, o essere movimenti e cose diverse – perché l’onda che sale è cosa diversa dall’onda che scende – è questo che richiede l’invocazione a due potenze diverse!)
Questa frenesia altro non è che il genio
religioso del romani. Per loro
l’agricoltura ha tre dei dell’aratura: Vervactor, Reparator, Impocitor, perché
il campo è arato in tre riprese (— e dunque ogni fase deve avere la sua forza
e la sua potenza—), Insitor sorveflia le semine, Saritor l’estirpazione delle
malerbe, Messor la mietitura, Conditor l’ammasso, Sterculinius la concimazione,
eccetera. La crescita del grano piantato è sotto la protezione di Seia; la
germinazione e lo spuntare hanno per loro dea Proserpina, Segesta cura la
crescenza del grano già spuntato; Volutina lo sviluppo della gemma; Flora presiede alla fioritura, Matura ai
frutti.
Gli altri lavori agricoli sono parimenti soggetti ai loro dei speciali, come lo
stesso svolgimento della vita umana. (…) Anche certi oggetti concreti, mediante
i nomi attribuiti loro, possono
diventare potenze che si invocano: nella casa Janus non è altro che la porta,
Vesta il focolare ecc.
Varrone non soltanto designa gli dei, ma fa conoscere il campo delle loro
occupazioni. Infatti sarebbe inutile conoscere un medico ignorando che esercita
la medicina. Bisogna invocare Esculapio per la nostra salute, e sapere che
siamo tenuti a rivolgerci a lui. Per assicurare il nostro sostentamento, occorre
sapere chi è il fabbro, chi il fornaio eccetera. Nello stesso modo è necessario
a quali casi corrispondono la capacità, la forza e l’autorità dei vari dei, per
invocarli all’occorrenza. Senza queste conoscenze ci accadrebbe come agli
attori del Mimus, di domandare l’acqua a Liber eil vino alle dee che danno
acqua (Agostino).
La religione degli dei particolari è quindi piuttosto pratica che astratta; fra
questa religione e l’esperienza vissuta la distanza rimane minima.
“L’insieme delle divinità (Wissowa) è concepito
in modo puramente pratico, come un complesso che agisce in ciascune
delle cose con cui il romano ha contatti nel corso della sua vita quotidiana.
Il gran numero di nomi di dei, e la folla di esseri divini che incontriamo
interminabilmente nell’antica religione romana, non derivano dunque affatto da
speciale ricchezza di rappresentazioni religiose, bensì dal bisogno di
riconoscere l’attività divina lenn0immediato e nel quotidiano, e di porsi in
armonia con tale attività”.
riprende Diano:
Tutto quello che c’è di rappresentabile è la puntualità aoristica del
redire ipostatizzata in un nome e fatta causa di quel signolo rediit che è
stato sentito come evento.
AORISTO
(gr. ἀόριστος
“indefinito”)
di Giacomo Devoto – Enciclopedia Italiana (1929)
Formazione verbale propria una volta di tutte le lingue indoeuropee, conservata in modo vitale soltanto in greco, già in decadenza nelle lingue indoiraniche. Il nome di “indefinito” datogli dai grammatici greci lo oppone a tutti gli altri χρόξοι ὡρισμένοι tempi definiti, come l’imperfetto, il perfetto, ecc.; mentre questi tempi definiscono l’azione del verbo nel senso della sua durata, del suo principio o del suo punto d’arrivo (presente e perfetto) o nel senso del presente e del passato, l’aoristo esprime l’azione pura e semplice, è il tempo narrativo e gnomico. P. es.: “la forza unita alla saggezza giova” (in italiano col presente) viene detto in greco ῥώμη μετα ϕρονήσεως ὠϕέλησεν con l’aoristo; γνῶϑι σεαυτόν “conosci te stesso” con l’aoristo; mentre col presente vorrebbe indicare non la conoscenza pura e semplice, ma lo svolgersi dell’azione del conoscere. Solo attraverso il carattere narrativo l’aoristo si avvicina ai tempi del passato; e nel corso della storia della lingua greca, come nelle altre lingue indoeuropee, aoristo e perfetto son venuti avvicinandosi e rendendo così superfluo l’uno o l’altro. In greco trionfa l’aoristo, in sanscrito il perfetto, nelle lingue occidentali si forma un tempo nuovo dalla scomparsa di entrambi. Formalmente esistono due tipi d’aoristo dalla più alta antichità. Uno, assai vicino alla radice pura e semplice, non si distingue da un tema di presente con le desinenze secondarie, cioè da un imperfetto: ἔϕη “disse” dalla radice bhā; l’altro è invece caratterizzato da s: ἔδειξε “mostrò” dalla radice deik. La coesistenza delle due forme porta talvolta una differenza di significato, intransitivo e transitivo: στῆναι “stare” στῆσαι “porre”. Con gli aoristi che terminano in -η il greco costituisce un terzo tipo di aoristo, dapprima intransitivo, quindi passivo: ἔσβη “si spense”, ἐϕάνη “apparve”, “fu mostrato”. Posteriore ancora è l’aoristo in -ϑη: ἐλύϑη “fu sciolto”. Il perfetto latino conserva tra l’altro alcuni vecchi aoristi. Attraverso il latino dixi e fea, le forme italiane dissi e feci si riattaccano agli aoristi ἔδειξα, ἔϑηκα. V. anche verbo.
ipostatiżżare v. tr. [der. di ipostasi1]. – 1. Nel linguaggio filos., astrarre dalla realtà fenomenica concetti, qualità, ecc., rendendoli per sé sussistenti. 2. letter. Personificare, rappresentare in modo concreto ciò che è astratto o ideale: i. il bene, il male, la virtù (o l’idea del bene, del male, della virtù). 3. In linguistica, unire in una sola e nuova parola una locuzione, con passaggio ad altra categoria grammaticale o concettuale, o più semplicemente trasporre da una categoria grammaticale a un’altra (v. ipostasi1 nel sign. 3).
La cosa è ancora più evidente in Tyche, o, per dirla alla latina, in Eventus, che altro non è se non il sostantivo dell’aoristo
TICHE (gr. τύχη, da τυγχάνει
“accade”)
di Nicola Turchi – Enciclopedia Italiana (1937)
È la personificazione di quel
potere che determina l’accader delle cose all’infuori della cooperazione
dell’uomo, cui talora può apparire cieco o irrazionale. Essa è quindi in
sostanza una dea del destino, simile alla Moira; solo che per Tiche si nota piuttosto
la tendenza a considerarla come apportatrice di buoni eventi, donde la frase
augurale: ἀλαϑῆ τύχη “alla buona fortuna”
che si trova frequente in testa alle epigrafi pubbliche.
Omero non menziona Tiche, ma solo la Moira e l’Aisa; ma già Esiodo (Theog.,
360) la menziona come oceanina e Alcmane (fr. 62) la fa sorella di Eunomia e di
Peito e figlia di Prometeia, il che orienta il suo significato verso quello di
benevola previdenza, se non proprio di provvidenza. Pindaro (Ol., XII, 1
segg.) la chiama salvatrice e la considera protettrice delle navi sul mare,
delle guerre in terra e delle assemblee deliberatrici.
Lo sviluppo delle credenze astrologiche durante l’epoca ellenistica e imperiale
portò a identificare Daimon e Tiche, rispettivamente con il sole e con la luna
che presiedono alla nascita del bambino e tutelano l’uno lo spirito e l’altra
il corpo (Macr., Sat., I, 19); ed anche ad attribuire alle città
una loro propria Tiche (τύχη τῆςτόλεως) che vigila sui suoi destini:
notissime in proposito la Tiche di Antiochia e quella di Alessandria.
Il culto di Tiche è diffuso per tutta la Grecia e l’Oriente
ellenistico. Nei paesi siriaci essa si è assimilata all’indigena Gad e siccome
questa era concepita come duplice (Gadî) e astrologicamente interpretata come i
due pianeti di Giove e di Venere, anche la Tiche venne concepita come duplice
(τύχαι) e come tale rappresentata.
Tra i suoi appellativi, oltre a quelli già ricordati di buona (ἀγαϑή)
e di salvatrice (σώτειρα), si annoverano quelli di grande
(μεγάλη), signora dispotica (δεσποσύνη), che tutto doma (πανδαμάτειρα) e primigenia (πρωτογένεια) che è un’evidente traduzione della Fortuna
“Primigenia” dei Romani.
I suoi attributi sono tutti di buon augurio: la cornucopia, le spighe, il
polos, la corona turrita (quando si tratta della Tiche di una città), il
timone, quale auspice di buona navigazione (e sotto questo aspetto è
ravvicinata ad Iside); ad esprimere poi la sua mutabilità si hanno le ali, la
ruota, la sfera.
Nel folklore neoellenico la Tiche, come destino, è quasi sparita di fronte alla
Moira.
Bibl.: F. Rösiger, Die Bedeutung der T. bei den späteren griech. Historikern, Konstanzer Gymnas.-Progr. 1880; F. Allègre, Étude sur la déesse grecque Tyche, Parigi 1889; H. Meuss, Tyche bei den attischen Tragikern, Hirschberger Gymnas. Progr. 1899; F. Cumont, La double Fortune des Sémites, in Revue de l’hist. des relig., 1914.
Questo rapporto di causa tuttavia non è pensabile se non dopo la costituzione del nome, e sempre nella sfera della rappresentazione, nella quale sola il nome può apparire separato dal verbo, e quindi come causa di esso.
VERBO (fr. verbe; sp. verbo; ted.
Zeitwort; ingl. verb)
di Giacomo Devoto – Enciclopedia Italiana (1937)
Categoria di parole che indicano un’azione, opposta al nome che
indica cosa o qualità; come il nome, categoria di parole fornita di semantema
(v. morfologia).
Questa classificazione delle parole risale già ai grammatici greci che
contrapponevano ὄνομα (nome) e ῥῆμα (verbo). Ma, come è
stato detto a proposito del nome (v.), questa opposizione non è sostanziale, ma conseguenza di uno svolgimento
storico: si rimanda una volta per tutte al luogo citato, per l’esemplificazione
di costrutti sintattici a base verbale e nominale (amo la patria, il
mio amor di patria).
I caratteri formali che il verbo distingue sono: l’aspetto, la diatesi, il
modo, il tempo, il numero, la persona. Non distingue invece nelle nostre lingue
il genere grammaticale. L’aspetto distingue l’azione rappresentata dal verbo da
una parte a seconda che dura o si ripete, dall’altra a seconda che è
momentanea, si inizia o giunge a compimento: dormiva, inciampava;
oppure dormì, s’addormentò, venne. La
diatesi distingue l’azione riferita all’oggetto, al soggetto o subita dal
soggetto: guardo la gente che passa, mi guardo la gente che
passa, son guardato dalla gente che passa. Questa triplice
distinzione presuppone l’esistenza di verbi transitivi che ammettano quella
specificazione dell’azione rappresentata dal verbo che è l’oggetto. Il modo
distingue la realtà dalla possibilità o dalla desiderabilità dell’azione. Il
tempo, il numero e la persona sono concetti noti. Ora tutti questi caratteri
non sono sempre legati da uno stesso rapporto di necessità né da mezzi di
distinzione morfologica equivalenti.
1. L’aspetto, che specialmente in alcune lingue, come per es. in quelle slave, ha un valore sostanziale di primo ordine, è sentito in italiano come categoria morfologica solo nell’imperfetto (p. es. cadevo; caddi), ma sembra a noi allora un criterio sussidiario per distinguere fra loro i tempi del passato, l’imperfetto dai passati prossimo e remoto. Nelle regioni poi dove il passato remoto sussiste ancora, è ancora una differenza d’aspetto che lo distingue da quello prossimo: quello, di valore momentaneo, questo che prolunga l’azione del passato verso il presente. Al di fuori di questi casi, l’aspetto è rappresentato semanticamente da parole diverse senza che appaia la coscienza o la necessità del loro rapporto. La differenza fra “dormire” e “addormentarsi” non implica per noi che i due verbi facciano parte di una coppia regolarmente costituita, che possa servire da modello per altri verbi separati fra loro soltanto dalla differenza di aspetto. In tedesco manca del tutto la distinzione morfologica dell’aspetto; viceversa compare l’esigenza semantica in casi che in italiano non si presentano, p. es. warten auf jemanden, jemanden erwarten “aspettar qualcuno”, nel primo caso insistendo sulla durata dell’attesa, nel secondo constatando semplicemente il fatto.
2. La diatesi con le sue tre categorie di attivo, passivo e medio solo in parte è evidente come categoria morfologica e a sua volta la categoria morfologica solo in parte è definita con mezzi strettamente morfologici. Quando si usa in italiano la forma corrispondente al medio mi son fatto una scorpacciata di funghi, non abbiamo coscienza di impiegare una determinata diatesi del verbo, ma soltanto di costruire il verbo con un procedimento sintattico particolare, una specie di dativo etico. Solo attivo e passivo sono categorie grammaticali viventi in italiano: ma di queste solo l’attivo ha la determinazione strettamente morfologica di suffissi e desinenze. Il passivo è indicato da una costruzione perifrastica con l’aiuto del verbo “essere” che ha per ora un carattere piuttosto sintattico che morfologico.
3. Le differenze di modo sono, dal punto di vista formale, contraddistinte più chiaramente; ma da un punto di vista sostanziale sono meno facilmente classificabili. Realtà, desiderabilità, possibilità, comando “possono” essere messe in un rapporto determinato con i modi indicativo, condizionale, congiuntivo, imperativo. Ma questa distinzione potrebbe indifferentemente contemplare varietà più o meno numerose diversamente dalle nette differenze di “aspetto” durativo o momentaneo. Perciò è difficile uno schema astratto dei modi e, a seconda delle lingue, può sembrare normale che ogni modo debba contenere le stesse forme temporali (l’imperativo avere l’aoristo o il perfetto come in greco) o viceversa che ci siano forme temporali compatibili con un modo ma non con un altro: come per noi il futuro che va d’accordo con l’indicativo ma non con il congiuntivo né con il condizionale.
4. Le differenze di tempo influiscono più di tutte le altre sulle vicende della organizzazione del verbo. Nella parola “tempo” è da distinguere accuratamente il valore “grammaticale” di “tempo” come “formazione derivata del verbo che ne definisce l’azione nel senso dell’aspetto, modo e anche tempo e si distingue ulteriormente per mezzo di elementi morfologici o non morfologici secondo la diatesi, il numero e la persona”, dalla categoria “psichica” del tempo che può, ma non deve necessariamente, essere definita dalla formazione grammaticale: tale l’aoristo greco. L’accordo fra le due espressioni è più facile nelle lingue che alle tre categorie di passato, presente e futuro fanno corrispondere tre formazioni grammaticali e non più. Ma questo stato di cose teoricamente ideale è complicato dall’azione di due forze di origine assai diversa, l’una di natura intellettuale, l’altra affettiva. Appartiene alla prima classe il sistema della “consecutio temporum” latina, vale a dire lo sforzo di distinguere oltre al passato e al futuro assoluti anche il passato e il futuro relativi: dunque amicis gratias egit qui dona attulerant e, ugualmente, in italiano “ringraziò gli amici che avevano portato i doni”; dunque un più che perfetto o un trapassato prossimo di fronte al perfetto e al passato prossimo; e così nello stesso modo al futuro “ringrazierò quando mi avrete ottenuto la grazia”. Le forze di natura affettiva provocano turbamenti anche maggiori: da una parte prendono per ottenere definizioni ancora più precise, un passato appena accennato, un futuro prossimissimo come per sottolineare con la leggerezza del distacco dal presente, l’immediatezza, l’intensità dell’azione: Je vais faire (tout ce que je pourrai), je viens de l’apprendre (il est mort): nascono così due forme verbali perifrastiche. Dall’altra parte motivi affettivi deformano il concetto del tempo, attribuendo alla differenza di presente e passato o di passato e trapassato una differenza di modo: se vi foste mossi con tutte le vostre forze potrei anche esservi grato; che vi siate mossi così, quasi contro voglia, non mi può bastare. La differenza modale che passa fra “non mi può bastare e e “potrei essere” nelle proposizioni principali è rappresentata nelle proposizioni dipendenti da una differenza di tempo: questa logicamente non ha giustificazione, ma affettivamente si giustifica con la formula che “il tempo più lontano è quello più irreale”.
5. La differenza di persona è caratteristica del verbo, ma può anche essere facilmente supplita per mezzo di elementi estranei al verbo, e cioè i pronomi personali. La rappresentazione formale della categoria morfologica della persona è infatti influenzata da elementi fonetici e da elementi affettivi: fonetici perché le desinenze, trovandosi nella posizione più debole in fondo alla parola, sono esposte al pericolo di oscurarsi e scomparire; affettivi, perché la sostituzione per mezzo di pronomi è facile o meno facile a seconda che è sentita l’esigenza di distinguere forme più o meno epressive: dice, egli (non altri) dice. Questo appare chiaro in frances- dove la sostituzione dei pronomi alle desidenze personali è avvenuta in modo si può dire completo: accanto alla formula il dit che sarebbe la sola possibile, si è creata quella, affettivamente più intensa, c’est lui qui dit.
6. La categoria del numero è, fra quelle definite nel sistema del verbo, la meno caratteristica: le desinenze delle persone del plurale non hanno in sé elementi caratteristici che si oppongano a quelli proprî del singolare, ma continuano in modo indipendente la serie delle desinenze, quasi esistessero nel paradigma le persone quarta, quinta e sesta da imparare a memoria.
L’insieme di tutte queste specie e sottospecie, quando si
stringe in un sistema di appartenenza e dipendenza reciproca, si chiama
“coniugazione”. La coniugazione è una difficile conquista che
presuppone un certo grado di astrazione. In origine i verbi, secondo il
significato e l’aspetto, avevano solo il tema del presente o solo quello
dell’aoristo: verbi diversi si associavano per costituire una cosiddetta
coniugazione suppletiva (in latino fero associato con il tema
di perfetto tuli). Questo non giustifica l’opinione che si tratti
di verbi “difettivi”: sarebbe come chiamare difettivi i nomi che non
hanno costituito un ampio sistema, per il quale da un sostantivo si deriva un
aggettivo, dall’aggettivo un astratto, dall’astratto un altro aggettivo (per
es., legge, legale, legalità, legalitario).
Accanto a tutte le specie e sottospecie di determinazioni grammaticali del
verbo illustrate sopra, ci sono elementi grammaticali che dànno luogo a verbi
nuovi, suscettibili di una regolare flessione e nello stesso tempo legati da un
rapporto grammaticale vivente con il verbo da cui hanno preso vita. In italiano
abbiamo veri e proprî diminutivi o vezzeggiativi del verbo come leggicchiare, dormicchiare, trotterellare, parlottare.
In sanscrito esiste tutto un sistema di verbi derivati: verbi intensivi,
causativi, desiderativi. Così del verbo kar “fare”
esiste, oltre alla terza persona normale del presente indicativo karoti,
anche quella dell’intensivo karkaroti (oppure cekriyate)
“fa con attenzione”, del causativo karayati “fa
fare” e del desiderativo cikirsati “desidera di
fare”. Così in latino esistono verbi incoativi caratterizzati dal
suffisso sco che indicano il principio dell’azione, senesco, albesco:
ma i più antichi di essi, come nosco e posco,
esistevano un tempo da soli come presenti, senza le forme normali, perché le
due radici avevano un significato momentaneo e non potevano avere un presente
puro e semplice.
Per le forme intermedie fra la categoria del verbo e del nome cfr. gerundio; infinito; participio e soprattutto nome, dove è sottolineata la differenza fra elementi
nominali statici e dinamici, e quindi, nell’ambito del nome, l’esistenza di
elementi lontani dal verbo.
Dal punto di vista sintattico infine il verbo si trova in condizione di
maggiore rilievo in quanto esso dà vita all’unico elemento essenziale della
frase, il predicato (v.; e v. anche morfologia).
De
Sanctis, Studio su Leopardi
p. 4
Il fanciullo trattava argomenti e maneggiava affetti poco
proporzionati al suo candore e alla sua piccola esperienza, e non poteva
scrivere con semplicità e verità, e si
avvezzava al falso e all’esagerato.
E’ solo con l’esperienza che si acquisisce la conoscenza. La conoscenza senza esperienza è solo erudizione. Dal che la conseguenza che la consapevolezza dell’essere si acquisisce con l’esperienza – può acquisirsi solo con l’esperienza. E dunque che l’Essere è presente nell’uomo in nuce, o meglio in potenza, come possibilità.
Non è vero quindi che non c’è nessuna
via, come dice Lao Tze (?): c’è la via che conduce all’Essere, ed è l’unica
via, cioè il senso: solo percorrere la via che conduce all’Essere dà senso alla
vita. Ogni vita che non percorra la via è una vita sprecata. Che poi ci possano
essere diverse forme della via è possiblile e anzi inevitabile. E che nessuno
può sapere qual è, se esiste, una via sicura, anche questo è inevitabile.
Dunque non è criticabile il modo in cui ognuno la percorre. Criticabile è il
non percorrerla.
Questa è comunque la via di Parmenide, la via, indicata dalle figlie del Sole, lungo la quale le cavalle che trascinano il cocchio lo conducono davanti alle porte della notte e del giorno, che appartengono alla Dea, la sola che può aprirle.
E questo è anche il destino, la gloria e
la tragedia dell’Occidente.
Per la cultura dell’Occidente la via per l’Essere coincide con il massimo
possibile dell’individualità (l’uomo che sa di Parmenide è il solo che può
essere condotto davanti alla Dea); la quale individualità, solo una volta
giunta al massimo della sua consapevolezza si può perdere nel tutto, secondo il
senso del divenire dei mortali descritto da Holderlin.
Per la cultura orientale la via per l’Essere, come la via dall’Essere, non esiste perché non c’è un soggetto che può percorrerla. L’Essere infatti non può che essere negazione della soggettività. E ciò non solo per il pensiero orientale, ma anche per il pensiero occidentale pre parmenideo.
25.12.22
Scrive Parmenide che il tutto non è l’unione di singole
parti, ma il tutto in sé per natura. Cioè che non cè somma di cose, ma
l’essenza di ogni cosa. Quindi non è ciò che tiene unite tutte le cose, ma ciò
che tutte le cose contiene.
Questa è la puntuale differenziazione tra
il verbo essere e il verbo avere: il tutto come
unione di parti HA tutto. Il tutto come essenza di tutto E’ tutto.
Il tutto come essenza di tutto è ogni cosa, dunque è ogni sua parte.
(Cusano)
Ma questa è anche la differenziazione puntuale tra il verbo vedere e il verbo
sentire. Perché colui che tutto ha è colui che tutto vede, e dunque tutto
pensa. Mentre colui che tutto è è colui che tutto sente.
Qui ci ricolleghiamo a Colli, quando traduce il frammento xx di Eraclito e dice che la totalità e la concatenazione delle cose può essere solo sentita.
26.12.22
Il verbo è l’espressione dell’azione. L’azione è l’espandersi dell’Essere, il
darsi dell’Essere in presenza. L’esistere dell’Essere. Ed essendo l’Essere
colui che si pensa, e ponendosi l’Essere da sé (Fichte), Essere e pensiero
coincidono e si manifestano nell’atto (Gentile).
Untersteiner p. 49: “ciò non significa
altro se non la risultante delle due forze uomo-dio che concretanto l’Essere”.
Dunque se l’uomo – il soggetto – è colui
che tutto ha, perché nell’atto di porsi come soggetto ha dovuto rinunciare ad essere tutto; e se dio è colui che tutto
è, perché è colui da cui tutto discende, (physis, “l’essere di ogni esistenza”,
sostanza, forza e processo di nascimento tutti insieme inseparabilmente – Zeller),
l’Essere è la risultante dell’unione delle due forze uomo-dio.
L’Essere quindi è un grado superiore di esistenza; superiore all’uomo e
superiore anche al dio. Colui che tutto ha e tutto è. Cioè colui che partecipa dell’essere tutto,
rimanendo soggetto, a tutto estraneo, e –
solo in quanto tale – consapevole.