ATLANTE DELL’ASSENZA (2)

APPUNTI

Gli appunti sono ordinati partendo dai più vecchi per arrivare agli ultimi. In questo modo si può andare avanti guardando indietro.
Sono continuamente aggiornati, sia nel passato che nel futuro.

23/10/2013
Un corpo celeste “galleggia” nel vuoto perché si costituisce come un centro di forze da esso stesso generate che in senso centripeto convergono verso il suo nucleo. Così il presente esiste perché si costituisce come centro di tutte le cose successe che da tutte le direzioni possibili (passati e futuri) convergono verso il suo esserci  in questo momento, cosa che noi chiamiamo “presente”.

11/10/2013
La tecnica per sé non serve a nulla: esiste solo per servire un’idea. E’ facilmente imparabile, ma soprattutto è intercambiabile, perché solo l’idea è importante. Infatti la stessa idea può essere resa con tecniche diverse, quando non con diverse forme artistiche.
Una poesia può essere un dipinto, che può essere una architettura, che può essere una musica.

10/10/2013
Riflessioni sul Paradiso Terrestre.
Intanto il valore del mito, come rappresentazione paradigmatica della vita, valida per popoli divesi e tempi diversi, capace cioè di porsi al di fuori della cultura di una sinfgola società per assumere valore universale. Poi il senso della mela.
La mela non è il frutto proibito, né il simbolo della conoscenza, come pensavo un tempo.  Ma è lo svilimento della vita umana ad opera del capitale, dell’economia industriale, del consumo fine a se stesso, del commercio, di tutte quelle attività insomma che ci hanno condotto al punto in cui siamo, cioè ad essere schiavi ora come siamo sempre stati. La mela è l’Occidente; il Paradiso Terrestre è la possibilità di un modo diverso di vivere in Occidente – Michelangelo.

24/09/13
Se avessi il tempo di fare tutti i disegni che voglio fare non avrei voglia di farne alcuno.

8/8/13 Agrigento (?)

La scrittura e la sovrascrittura.

La scrittura è il testo base. La sovrascrittura è un testo applicato,  – sovrapposto, affiancato, mescolato – al testo base che aggiungendo e sottraendo qualcosa ne consente differenti interpretazioni. Il risultato è una scrittura aumentata.
Nella Casa Miller ciò viene messo in pratica in maniera esemplare. La scrittura è la divisione dell’ambiente più grande in due aree distinte, una di studio, con una scrivania e un mobile libreria, e una di soggiorno, con il tappeto che costituisce l’area della discussione e i divani. Questo è il testo base: una unica stanza è divisa in due ambienti che hanno lo stesso peso, e possono essere usati uno per volta. Il percorso curvilineo della lampada appesa al soffitto, che può scorrere da un ambiente all’altro, fino a sparire nel disimpegno, istituisce delle relazioni differenti tra gli stessi ambienti, e consente una esperienza che va oltre il fatto fisico dei due ambienti. Posizionata sul tavolo, o sui divani, darà più peso e importanza all’una o all’altra delle due zone, ne cambierà le dimensioni, ingrandendo l’una e rimpicciolendo l’altra. Posizionata in corrispondenza del soggetto ne faciliterà l’isolamento; posta sul lato opposto gli consentirà di vivere lo spazio della stanza per intero, oltre la sua reale dimensione. E’ come se il suo percorso fosse disegnato su un foglio di carta lucida e applicato sul disegno della stanza, indicando in questo modo la possibilità di modificarne lo stato e la dimensione.
Allo stesso modo possiamo considerare il presente come il risultato della lettura di diversi fogli di carta lucida sovrapposti. In questo senso il presente è solo una delle letture possibili del testo sovrascritto.

Fine Luglio, 2013, Milano

– Cos’è un giardino?
– Uno dei mezzi a disposizione dell’uomo per accedere al Grande Risveglio – ovvero alla conoscenza della realtà che sta oltre il sogno.
Abbiamo cominciato a usare le immagini quasi per gioco, con divertimento e meraviglia. Chi ci ha detto che siamo capaci di usarle? Non sapevamo, quando abbiamo iniziato, l’immenso potere che stavamo per liberare, un potere incontrollabile, che stravolge la mente dell’uomo e lo conduce alla follia.
Esiste una realtà oltre il sogno. C’è la realtà che percepiamo e interpretiamo col pensiero. C’è il sogno, che è una realtà alterata perché percepita e interpretata con pensieri che si formano secondo regole altre, o senza regole.  E infine c’è la realtà oltre il sogno, quel luogo dell’universo in cui i pensieri e le forme coincidono.
(Il che significa che sei quello che vedi. Dunque sei tutto. Nota 10/2021)

24/07/2013 Milano.
I miei ricordi non sono complementi di arredo.

24.6.14

15.6..2014
La narrazione della pluralità di direzioni è inescrivibilità del fluire del presente.

15.6.2014
Se anche il fatto di dire che la grandi narrazioni hanno esaurito il loro compito, e il riconoscerle come narrazioni – cioè come interpretazioni ideologiche funzionali al conseguimento di uno scopo – si costituisce esso stesso come narrazione, funzionale a configurare nuovi assetti di consumo,  significa che una narrazione vale l’altra. Posto cioè che anche il racconto della mancanza di narrazioni – e dunque dell’esistenza di un universo caotico e casuale in cui la realtà è inevitabilmente una visione antropomorfica del reale, che quindi sfugge ad ogni criterio di qualificazione – si configura come strumento ideologico funzionale ad una nuova ed avanzata fase del capitalismo, non più “neo”, ma a questo punto “ultra”, giunti dove siamo, non potendo resuscitare Dio, possiamo almeno pensare a buon diritto che proporzioni e rapporti dimensionali armonici possano avere valore simbolico e rimandare ad una moralità dell’essere nel mondo, che anche se solo culturale, cioè convenzionale, tuttavia illumina l’oscurità quantistica di una luce che nient’altro può produrre.
E quindi, potendo scegliere tra la narrazione del Guggenheim di Gehry e quella della Rotonda di Palladio scegliamo quest’ultima, che ci parla di un mondo che al pari dell’altro non esiste, ma della cui bellezza, se esistesse, non potremmo che andare fieri. (modifica 2017)

09.08.15
Come si manifesta una poetica minimalista:
(Il racconto del minimalismo: dalle case dei contadini alla casa di Eumeo, a Loos)
1) Presenza di arredi essenziali, nella funzione e nella forma.
2) Utilizzo di materiali naturali o composti con materie prime di origine naturale e con tecniche tradizionali.
3)Evitare il pensiero ridondante, quando cioè il pensiero ritorna sul suo “oggetto” ripetute volte, ogni volta aggiungendo qualcosa e facendogli perdere in questo modo immediatezza.
L’immediatezza ci ricorda/richiama la necessità, e la necessità la naturalità.
Questo processo si può in altro modo chiamare “retorico”,  cioè un parlare che diventa fine a se stesso. Cioè un applicarsi che, perso di vista il fine per cui si aplicava, diventa piacere di effettuare una prestazione.
Il piacere di effettuare una prestazione deve essere identificato con il buon esito dell’adoperarsi, non con lo svolgimento della prestazione in sé.
L’Ulisse dantesco (Cacciari), sapendo di cercare cosa irraggiungibile,  cercava per cercare – e non per trovare.
Cercare per cercare significa perdere di vista il fine e concentrarsi sul fare, sul mezzo, che in origine aveva lo scopo di trovare.
Cercare per cercare  succede quando l’oggetto della ricerca è posto oltre la possibilità di trovarlo.
Dunque cercare solo quello che si può trovare? Ma se fatti non fummo a viver come bruti?
Differenza di atteggiamento tra il cercare quello che si può trovare e il cercare quello che si sa di non poter trovare.
Cercare qualcosa che si sa  di non poter trovare significa sfidare la natura, voler andare oltre noi stessi, oltre i nostri limiti, considerati come imposizione.
Perché desidero superare i miei limiti? Perché li considero limiti.
Cioè: non accetto la mia debolezza, l’ambito ristretto nel quale i miei sensi possono operare,  l’insufficienza della capacità analitica del mio pensiero, il degradamento progressivo del corpo, non accetto il fatto di non capire quello che mi circonda. Ma perché?
Perché sono pazzo. Perché voglio sapere il perché e il per come di tutte le cose, e tutte le cose voglio vivere, voglio essere io.
Ma cos’è uno che vuole sapere una cosa sapendo di non poterla capire?
E’ uno che ha una spinta. Che ha un’impulso (vedi dagli umanisti a Holderlin, Schiller, i romantici, Nietzsche).
Questa spinta a superare il limite è la scintilla di Dio (Ficino). E’ cioè una spinta a innalzarci (Holderlin), a diventare qualcos’altro. Illusi dalla capacità di poter potenziare i mostri mezzi e i nostri strumenti di ricerca grazie alla tecnica, pensiamo che nulla può sfuggire, nulla può nascondersi alla nostra sete di sapere.
E’ inevitabile che questo essere, smisurato nelle forme, nelle dimensioni e nelle conoscenze arriverà al punto di conoscere tutto ciò che è possibile conoscere.
Non avrà più limti, e dunque non avrà più se stesso: Holderlin: è nel confronto col limite che acquisisci consapevolezza di te. Non avendo più limiti semplicemente non sarà.
Ma anche:
Uno che sa tutto ciò che si può sapere  è uno che sa se stesso.
Sapere se stessi significa sapere come si è stati creati, come si è nati.
Sapere – cioè – che si è nati da una necessità.
Allora che succede quando Dio scopre di essere figlio di una banale necessità,  come un filo d’erba, come un fuoco che si accende, un legno che brucia e diventa carbone, un vento che si alza, un’ape che si posa su un fiore?
Dunque questo essere avrà percorso una strada lunga milioni di anni e avrà illuminato tutto l’oscuro del possibile per capire alla fine che non è diverso da una formica o da un filo d’erba.
E probabilmente tornerà nella sua vuota capanna, a dormire su una pelle di capra gettata su un mucchio di paglia, come il porcaio Eumeo (che era Re), perché una capanna vuota e un mucchio di paglia sono la stessa cosa dell’universo.  E’ il bicchiere di vino offerto a Ulisse che fa la differenza.

10.08.15

Ma vieni, entriamo nella capanna, vecchio;  e dopo anche tu,
saziato di pane e di vino il tuo cuore,
dimmi di dove arrivi, e quanti affanni sopporti.

Detto così lo guidò nella capanna il porcaio glorioso,
lo face antrare e sedere, e ammucchiò molte frasche,
e sopra stese la pelle vellosa d’una capra selvatica,
– il suo giaciglio – ampia e folta.

Godette Odisseo che così l’accogliesse,  e disse parola, gli disse:
Zeus ti dia, ospite, e gli altri dei immortali, quello che più desideri, perché m’accogli benigno.

E tu ricambiando, Eumeo porcaio, dicesti:
Straniero, non è mio costume, venga pure uno più malconcio di te, trattar male gli ospiti: tutti da parte di Zeus vengono gli ospiti e i poveri.

Chi è Eumeo? E’ il Dio che è tornato nella casa vuota. Che, essendo stato Dio, è tornato ad essere uomo. Com’è la sua casa? E’ una capanna, dove egli ammucchia frasche sulla terra, e sulle frasche stende una pelle di pecora, e questo è il suo giaciglio. Egli era figlio di un Re, ora è il servo più fedele di Odisseo.
“E’ un personaggio virtuoso e modesto, pago della sua vita, nonostante egli abbia sangue reale nelle vene. Quello che più desidera egli già ce l’ha: vive per prendersi cura dei suoi maiali.”
Accoglie Odisseo come accoglierebbe qualsiasi ospite e povero, perché Zeus li manda, cioè la necessità. Lo fa perché sa che necessità è egli stesso, che nient’altro che necessità è il suo essere. Egli si sa prendere cura del suo ospite: lo fa entrare nella capanna e lo fa sedere su un giaciglio di frasche ricoperte da una pelle di pecora,  gli dà pane e vino per saziare il suo cuore, non il suo stomaco!, così che Odisseo potra dirgli da dove arriva e quanti affanni sopporta, cioè potrà trovare ascolto. Eumeo – Re che vive in una capanna –  sa come essere felice e come rendere felice l’uomo: dandogli ascolto, e facendo in modo che l’uomo senta accettato il suo parlare.
Questo spettacolo di amore e bellezza, al quale tutti vorremmo partecipare,  si compie con l’aiuto di pochi strumenti:

1) una capanna: cioè un luogo chiuso, un luogo in cui l’esterno è chiuso fuori, in cui l’esterno, la realtà in cui tutti siamo immersi e siamo sempre presenti, viene lasciato fuori. Ci si distacca dall’esterno dando vita a un’interno. Ci si sottrae all ‘Ente, all’essere supremo (che mai tramonta – Eraclito – creando un luogo particolare, nascosto all’esterno – che è il vero Dio. L’io è l’interno; Dio è l’esterno.
In questa capanna non c’è che un giaciglio, non serve nient’altro. Serve essa stessa, che essendo un involucro costituisce uno spazio diverso, uno spazio soggettivo all’interno dello spazio oggettivo, che altrimenti non potrebbe esistere, dando così modo al soggetto di costituirsi.
Il soggetto si costituisce non visto.
(Danilo Dolci: ognuno cresce solo se sognato – ma non visto!)
L’uomo come entità pensante e consapevole si costituisce nel passaggio dall’esterno ad un interno; nel momento in cui si concepisce come involucro.

2) Il pane e il vino per saziare il cuore: cioè la necessità che consente l’empatia, nel momento in cui, saziato lo stomaco, il cuore (l’atteggiamento non utilitarista dell’essere)  può esistere e manifestarsi. Il vino è la bevanda degli dei,  perché ha questa valenza: scioglie il pensiero dalla catena della necessità di essere funzionale a qualcosa. E’ uno strumento di annullamento di necessità. Grazie al vino, il cervello può funzionare senza essere produttivo. Il cervello che può funzionare per qualcosa di diverso dalla produttività, cioè dal predisporre le condizioni utili e necessarie per la propria sopravvivenza, crea il mondo culturale.
Funziona in maniera innaturale, non pensa a come placare la fame ma si fa domande inutili del tipo: “chi sono io”?
Ulisse è colui che si fa domande inutili, che sa di farsi domande inutili e tuttavia non si rassegna;  l’uomo che immagina è colui il cui pensiero è libero dalla necessità.
Eumeo, che era Re e sapeva tutto, sceglie di essere un porcaio perché sa che domandare è inutile.

13.8.15
Perché Benjamin si rammarica della perdita dell’esperienza? Perché intuisce che si tratta di un cambiamento epocale: la conoscenza non è più verificabile dall’esperienza. Cioè: la conoscenza si evolve così rapidamente che non c’è il tempo di raccontarla e metterla alla prova, farne esperienza: è già superata.
Una conoscenza che si evolve così rapidamente da non poter essere raccontata e diventare esperienza è una conoscenza che perde ogni connotato di verità.
La conoscenza è così in avanzamento che non riesce a raccontare se stessa e quindi non riesce a diventare verità, e ciò nonostante si impone col beneficio di inventario, salvo errori ed omissioni che nessuno avrà il tempo di verificare.
La verità in questo modo viene degradata a “verità del momento”, valida solo qui e ora, con l’avvertenza che cambiate le condizioni in essere non si può garantirne la validità.
Questo significa che è possibile che esistanto nello stesso tempo verità diverse e contraddittorie, ma tutte plausibili, nessuna avendo superato il vaglio dell’esperienza.
La conoscenza a sua volta, perso il legame diretto con la verità, non è più un valore, non ha più una connotazione morale, ma diventa mero strumento al servizio di scopi particolari.
Ma la verità è necessaria; e se non potrà più essere ricercata attraverso la conoscenza lo sarà con altri mezzi. Per questo lo sviluppo scientifico – non più veritiero – favorisce (anzicchè inibire, come ci si aspetterebbe) il fiorire della spiritualità, la permanenza delle religioni. Si tornerà a considerare la scienza come si considerava la magia, riportando la verità oltre l’uomo, dove del resto era sempre stata, tranne che per pochi poveri pazzi.

11.10.15
Il cielo è tutto uguale.
Ma il cielo che guardo da dentro il cortile è diverso dal cielo che c’è fuori.

22.03.2015/2021
L’essere non è definibile perché è colui che definisce.
L’essere definisce – e si determina  – creando relazioni tra frammenti. (Deleuze su Whitman pag. 83).
La natura non è forma, ma processo di relazionalità, il che si può anche scrivere così:
l’Essere non è forma, ma processo di relazionalità,
e soprattutto così:
l’Architettura non è forma ma processo di relazionalità.

“Cogli l’attimo”, significa esattamente l’opposto di quel che si crede. Significa “Cogli l’attimo che ti consente di vivere il passato”.

E tuttavia l’ “attimo” si coglie raramente: ma  lo si progetta, si attende, si  racconta. Questo significa vivere nell’estensione del tempo. Vivere il tempo in senso spaziale, che è la qualità prima dell’essenza e la natura dell’esperienza. Nonché il senso dell’architettura.

Una vita è una struttura,  istituisce un tempo e uno spazio, cioè una vita dà uno spazio nel quale si possono svolgere le conseguenze di qualcosa nel tempo necessario al loro esaurirsi come azione. Quindi è spazio e tempo nello stesso manifestarsi, spazio per un tempo (in cui si manifesta un azione e se ne svolgono le conseguenze) e tempo di uno spazio (cioè durata dello svolgersi delle conseguenze dell’azione nello spazio nato, fino al loro esaurirsi).
Una vita dunque è la possibilità di unire due dimensioni in un’esperienza.
Una vita dunque è una dimensione unica, non vista né udita prima, nella quale uno spazio e un tempo mai prima visti né uditi vivono.
L’azione è un avvio, un gesto che si ripete infinite volte.
Il senso è l’esperienza, cioè la possibilità di unire tempo e spazio creando una dimensione terza, che non esisteva prima e non esisterà dopo.
Cioè il senso è nel darsi della vita in sé come dimensione nuova nella quale accogliere lo stesso gesto di sempre.

20.03.2015
L’essere non è definibile, non perché non sappiamo cos’è, ma perché non è racchiudibile in un concetto, nel senso che non si può descriverne i suoi miliardi di stati, modi, sfaccettature e possibilità in una visione monotemporale. L’essere è una dimensione differente. Sarebbe come voler descrivere il mondo, o il mare, e racchiuderlo in un concetto.

Movimento del Tempo.
Il movimento in avanti del tempo è solo un’illusione ottica causata dal moto di rotazione della terra, che produce una serie di albe e tramonti interpretabili come successione solo perché si ritiene automaticamente l’io (la terra) fermo al centro dell’universo. Ma al di fuori di tale giostra il tempo è la condizione statica dell’essere unitario che in esso si dispiega, espandendosi senza direzione e contraendosi senza centro. E questo è il significato autentico del divenire.

2018

01/05/2018
Che cos’è conoscere? Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da noi considerato un enigma, un problema.  Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico.  Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di colui che conosce, mentre naturalmente per il fatto che si sia trovata la regola niente ancora è “conosciuto”!
– Di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviative, credono che si sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza.
La regolarità addormenta l’istinto che interroga (cioè che teme): “spiegare”, ossia mostrare una regola dell’accadere. Credere alla “legge” significa credere alla pericolosità dell’arbitrario.  La buona volontà di credere alle leggi ha portato al trionfo della scienza (specialmente nelle epoche democratiche).
(F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885/87,  5 – 10)

16/09/2018
C’è un solo Dio, il più grande fra gli dei e gli uomini, che non somiglia agli uomini né per il corpo né per il pensiero; egli infatti resta sempre fermo nello stesso luogo senza muoversi affatto, tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero sente e senza fatica governa tutte le cose con la forza della sua mente.
Pini e cipressi fiancheggiano i larghi sentieri. Là sotto giacciono uomini morti da tempo: nera, nera, la lunga notte li avvolge…
Giù nel profondo, sotto alle Gialle Sorgenti, migliaia d’anni giacciono senza svegliarsi.
Luce e buio si alternano all’infinito, gli anni svaniscono come rugiada al mattino. E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale,  e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo, nella terra dove lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Puh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi,  avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty,  penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre, che mai trovammo,  penso a Dean Moriarty.
(Senofane (580 aC),  Dinastia dei Han (206 aC. – 220 dC), Jack Kerouac (1955))


Gli angeli non lasciano tracce, essendo entità immateriali,  ma attraverso segni materiali si manifestano. Così, lo Studio n. 8 op. 28 di Chopin, per esempio, è un angelo; come “Ancora sulla strada di Zenna” di Sereni,  o come lo spazio ascendente del Bramante nel Duomo di Pavia, o il divenire plastico di Michelangelo nel ricetto della Biblioteca Laurenziana. Se gli dei sono  l’Egoità dell’Aorgico, che vuole incontrarsi con gli uomini che tendono al Superamento dell’Organico per riconfluire nell’Universale (Holderlin), avendo bisogno gli uni degli altri per diventare quello che sono, gli uni per sentire, gli altri per durare,  gli angeli sono lo spazio in mezzo tra gli dei e gli uomini,  necessario affinché gli uni e gli altri possano esistere. Ma non sono opere d’arte, perché l’uomo è solo lo strumento che esegue. Sono strutture armoniche

2020

L’atto stesso del pensare si costituisce come pre-giudizio, in quanto nel momento stesso in cui si forma, il pensiero istituisce il soggetto, e dunque una visione distorta del reale.
Com’è possibile infatti, si chiede Holderlin nella cruciale lettera a Hegel del 26 Gennaio 1795, immaginare un Io assoluto, se quest’Io, per definizione, non piò ammettere un oggetto fuori di sé, e quindi non può avere coscienza, giacché una coscienza non può esistere senza una distinzione tra soggetto e oggetto? (Reitani, Holderlin, XXVI)

(30.10.21)

2020
Da E. Bloch
Filosofia del rinascimento

(…) La grande esplosione della filosofia del Rinasciento si ha con Giordano Bruno., il grande cantore dell’infinità cosmica, il primo a tentare di dipingere l’immanenza con i colori della maestà e del mistero  che il medioevo aveva riservato al mondo dell’Aldilà.
(… vita di Bruno …) E quando sul rogo, questo luogo così adeguato all’amore cristinano, gli fu avvicinata la croce,  volse il capo dall’altra parte.
(…)
B. scrisse dunque  satire, poemi didattici, dialoghi. Nella sua opera  principale,  Dialoghi de la causa, principio e uno, riprende soprattutto la forma del dialogo platonico. Il dialogo platonico è una forma straordinariamente felice di mutamento riuscito in solido: non è infatti il mero recipiente di un contenuto autonomamente esistente, bensì la forma genuina del procedere dialogico-dialettico del pensiero platonico. Si tratta di un caso eccezionale, che non traova riscontri né prima né dopo,  probabilmente neppure dei dialoghi aristotelici che sono andati perduti.. E neppure presso Bruno, nel quale il dialogo è l’abito di cui si rivestono idee che il portavoce ha già comunque, per altre vie trovato. La forma dialogica ha qui tuttavia una grande vivacità, in quanto vi fanno la propria comparsa quei titpi fortemente caratterizzati che entreranno a far parte del secolare patrimonio della Commedia dell’arte. (verificare l’ipotesi di Bloch sulla particolarità del dialogo platonico)
(…)
Un altro scritto più schiettamente metafisico è  il De maximo et minimo. Abbiamo poi la ricerca sul De triplici minimo, il trilplice minimo costituito da punto, atomo e monade; e ancora Dell’infinito universo e mondi. Ma al centro del suo pensiero ci sono i Dialoghi de la causa ecc.
Come si è già visto alle sue origini la filosofia del Rinascimento riprende l’Hen Kai Pan di Parmenide, che si presenta come affermazione di una radicale “mondanità” negatrice di ogni forma di trascendenza. Nell’Unotutto pulsa la stessa vita che è in noi. La tempesta è in noi come respiro, i fiumi sono le vene,  le rocce le ossa, il cervello è nube, cielo, firmamento. Questa concezione esprime un profondo radicamento nell’Aldiquà: luna, valle e pietra vengono salutati come fratelli carnali Questo senso di profonda affinità emergeva già nel Cantico di San Francesco,  ma i filosofi del Rinascimento non hanno più bisogno di un padre comune per sentirsi legati fraternamente alle creature. Il nesso tra creatore e creatura duviene allora un puro residuo linguistico, etimologico, e la creatura acquista preminenza sul suo stesso creatore. (ma Bloch non spiega perché!)

Il rapporto con la conoscenza.
Bruno si affida alla percezione, al mondo quale si dà dal punto di vista sensibile. Ma con tutto il suo amore per la ricca profusione del nondo, egli è consapevole della ristretta liitatezza della percezione, soprattutto nella nostra forma individuale. La parvenza esterna, benché sia il punto di partenza della conoscenza, non esaurisce neppure il contenuto di ciò che viene immediatamente visto, e tanto meno – quindi – di ciò che non si vede e non si sente, non si gusta e non viene percepito con i sensi.
In questo modo B. evade dal carcere della nostra sensibilità individuale,  rifiutando decisamente che la nostra esperienza umana sia l’unica esistente al mondo. Credere che non esistano più pianeti di quelli da noi conosciuti sarebbe altrettanto folle, afferma un suo celebre passo, quanto pensare che non esistano più uccelli di quanti se ne vedono guardando un pezzetto di cileo da una feritoia.

2019
Spazio, temporalità e alienazione.
(Il tutto è alquanto approssimativo.)

 Esiste un tempo esteriore, fisiologico, inerente ai cambiamenti di stato che si verificano negli enti, causati da variazioni di equilibri interni, o da alterazioni indotte da agenti esterni, forze, atomi, particelle,  cose come l’ossidazione, per esempio, o l’azione dell’acqua sulla pietra, o lo sviluppo e il dispiegarsi nello spazio di un organismo vivente,  dalla sua composizione per aggregazione di molecole, la sua nascita come coscienza, la sua crescita come accumulazione di cellule e di esperienze, la sua morte come malfunzionamento e disgregazione.

Il tempo dunque non esiste come fatto oggettivo e reale, esiste solo in quanto funzione del soggetto, cioè il soggetto produce sequenze di eventi e questo istituisce il tempo. Il tempo dunque è conseguenza dello svolgersi biologico della vita. E’ la vita che produce tempo.

E’ un tempo legato al compiersi di cicli, al succedersi delle stagioni che diventa successione di ricorrenze. E viene segnato dall’ombra dell’albero alto che gira sul fianco della collina, o dallo spostare il sole il luogo del suo tramonto.
Questo tempo esteriore trova corrispondenza nel tempo interiore che ogni  ente istituisce secondo la sua natura, forma e dimensione. Così un fiore è una settimana o un mese,  una farfalla è un giorno, il Sole è 5 miliardi di anni.
Nel senso che il tempo è sempre un compimento, un percorso tra un inizio e una fine.
Considerare questo svolgimento nella sua interezza, vuol dire considerarlo sempre nella sua complessità, e in questo modo diciamo che il tempo dell’uomo è una vita, nel senso che non c’è sovrapposizione tra passato, presente e fututro, ma ogni giorno passato persiste nella considerazione diventando dunque presente, e determinando la qualità del futuro.
Questo è il modo attraverso cui l’uomo può avere coscienza di sé.

Diverso è vivere solo per il presente, e così vivere ogni giorno come se fosse il primo e l’ultimo, senza tener conto di quanto è successo ieri, e senza predisporre  apprestamenti per il domani.
Questo modo di concepire lo svolgersi della propria vita (che non è il tempo ma è fuori dal tempo, cioè senza tempo) è il modo naturale dell’animale, e non consente la formasione di una coscienza di sé come soggettività, perché non produce storia.
In questo senso l’animale non conosce la morte, perché la morte è la perdita della consepevolessa, della soggettività, del passato, non della vita.

Cosa determina questa scelta, se di scelta può parlarsi? Cioè può uno scegliere se adottare un modo oppure l’altro, o piuttosto tale scelta non è conseguenza di qualità dell’essere,  qualità di pensiero, studio, influenze esterne? Il dato oggettivo è che la gran parte degli uomini ha sempre vissuto seguendo la seconda via, cioè quella della mancanza di coscienza di sé, e che (o per il motivo che: su questo aspetto bisognerà indagare meglio) su questo si basa l’ordine economico (cioè sociale) dell’occidente.
Un altro dato oggettivo è che l’ordine economico / sociale dell’occidente è stato sempre considerato e definito modernità. E questo, (per quello che sappiamo, nel senso che non sappiamo niente del prima) da Omero in poi.
Il libro di Eraclito ( 500 AC) infatti è la prima critica della modernità che si conosca.

2020

Il senso di appagamento che si prova perdendosi nel silenzio della natura. Forse è la Natura l’altro sé, l’altra parte che sempre si cerca e non si trova, perché – forse – si cerca nel modo sbagliato. Forse infatti l’altro me che sempre cerco, l’altra parte che sola può completarmi e placare la mie sete perenne, e che ho sempre pensato dovesse essere una domma, forse invece non lo è; forse l’altra parte è il mondo, Madre Natura, dal quale –come specie ed in quanto soggetto – mi sono allontanato.
Ed è nella condizione del nomade (senza casa) che tale raporto può manifestarsi, perché l’atto di possedere una casa, anche in mezzo alla natura, istituisce il soggetto. E il soggetto è la fine del rapporto col mondo.

Ci sono persone, e io sono una di queste, che vivono il distacco dalla terra come un trauma, una violenza.

21.8.20

Il Peso del cuore.
Gli Egiziani vengono giudicati nel modo che segue. Il cuore del defunto viene pesato dal dio Anubi sulla bilancia di Maat, dea della giustizia, in cui sull’altro piatto è posata una piuma. Per essere accolto nell’immortalità, il peso del cuore deve rilultare uguale al peso della piuma. E come è possibile ciò? Liberandosi dal peso del soggetto.


Pessoa. 204
Nuvole… esisto senza saperlo e morirò senza volerlo. Sono l’intervallo tra ciò che sono e ciò che non sono, fra ciò che sogno e ciò che la vita ha fatto di me, la media astratta e carnale fra cose che non sono nulla, perché anch’io non sono niente.
Nuvole… Quanta tranquillità se sento, quanto sconforto se penso, quanta inutilità se desidero

12/11/2020
La trasmissione dei dati annulla le distanze, e quindi lo spazio. Ma lo spazio non è solo distanza fisica ma anche il luogo dove è possibile la contemplazione, cioè l’attività di formazione del pensiero. E la distanza è la misura della presenza, il piano dimensionale che consente la relazione. Eliminare lo spazio significa eliminare il pensiero e precludere le possibilità che delle cose succedano.
Aby Warburg, Il rituale del serpente, 1923: “Il moderno prometeo e il moderno Icaro, Franklin e i Fratelli Wright, che hanno inventato l’aeroplano, sono i fatidici distruttori di quel senso di distanza, ciò che minaccia di riportare il mondo nel caos. Il telegramma e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitopoietico e quello simbolico, nella loro lotta per spiritualizzare la relazione dell’uomo con l’ambiente, hanno creato lo spazio come zona di contemplazione e di ragionamento, quello spazio che la connessione istantanea dell’elettricità distrugge, a meno che un’umanità disciplinata ristabilisca le inibizioni della coscienza.”

29.5.21
La grande confusione
Più vado avanti a cercare e più la confusione aumenta.

– Il divenire, e l’unità del tutto sono due cose diverse, e non in contraddizione tra loro.
approfondire Holderlin sull’unità del tutto e Senofane

L’unità del tutto è l’espressione che indentifica:
a) un fondo comune a tutte le cose (Eraclito);
b) un collegamento e allo stesso tempo qualcosa che collega tutte le cose (Eraclito ecc.);
c) il sentimento di appartenenza all’unità  e alla complessità della natura.
Nell’unità del tutto le cose possono divenire, ma restanao immutabili al fondo della loro esistenza, nel fondo comune, cioè al livello atomico.
Gli atomi infatti non divengono, non mutano, non cambiano di stato.
Tuttavia le aggregazioni di atomi danno vita ad enti differenti, i quali tutti divengono, cambiano stato, nascono e periscono.
Al loro perire i loro atomi sopravvivono per aggregarsi nuovamente nella formazione di altri enti.
Altra cosa è il sentirsi parte cmune con l’interezza del cosmo, la Natura, Phisis, e, soprattutto, il sentimento di distacco da essa che produce la consapevolezza dell’assenza del bene supremo, e dunque malinconia.
Questo ha a che fare con il mutamento della capacità del pensiero che è stato causato dalla diffusione della scrittura lineare (Leroi Gourhan). Cioè questo distacco è stato causato dalla riduzione delle capacità percettive causata dalla diffusione della scrittura.
W. Blake diceva che ci sono cose conosciute e cose che non si conoscono, e in mezzo ci sono le porte: si potrebbe dire che ci sono cose conosciute e cose che non si è più in grado di conoscere, perché non si è più in grado di percepirle. La parola poetica svolge la funzione delle porte che ci aprono di nuovo la possibilità di cogliere, conoscere cose che avevamo dimenticato (da cui la malinconia,  assenza di ciò che avevamo/eravamo), mentre l’alto muro che dal tutto ci separa, perché ogni porta presuppone un muro,  è  costituito dalla scrittura.
Allo stesso modo Anassagora diceva che ciò  che vediamo è solo la parvenza di ciò che è invisibile, e allo stesso modo si potrebbe dire che ciò che vediamo è solo la parvenza di ciò che ci è diventato invisibile. O è solo una parte, modificata e deformata, di ciò che prima riuscivamo a vedere nella sua interezza.
Vedi inoltre tutto il discorso sull’arcadia.
La storia dell’arte è la storia del tantativo di superare tale limite recuperando la capacità e le possibilità del pensiero simbolico.
Questo è la poesia di Holderlin o di Leopardi, questo è la letteratura di Proust, questo è la pittura di Cezanne, questo è l’architettura di Michelangelo.

Direi che il quadro è chiaro.

Ora bisogna espanderlo a macchia d’olio.

Maggio 2021
(Ripresi. 2017)
e però è cosa certa, che le membra dell’architettura dipendono dalle membra dell’uomo.
Michelangelo

Dunque non ha senso parlare di nuova architettura, o nuova arte, fino a quando conserveremo questo corpo. Così come parlare di fine dell’arte, o fine dell’architettura,  necessarie fino a quando conserveremo questo corpo.
Ma che succederebbe se cambiasse il corpo umano? E come potrebbe cambiare?
Consideriamo per esempio che gran parte dei suoi organi, della sua estensione e la sua forma dipendono essenzialmente dall’apparato digerente, che trasforma il cibo in energia utile a far funzionare l’apparato muscolare, a sua volta necessario a procurarsi il cibo necessario per far funzionare l’apparato muscolare necessario per procurarsi il cibo ecc.

Il sistema di acquisizione dell’anergias è estremamente rozzo (in termini di resa energetica). Si basa sulla elaborazione del cibo ingerito e la sua scomposizione negli elementi primi utili alla rpoduzione di lavoro. Basterà quindi  garantire per altra via l’approvvigionamento di proteine, calorie e vitamine, nelle forme e nelle quantità necessarie ad ogni soggetto, per rendere obsoleta ed inutile tutta la parte del corpo che va dalla gabbia toracica al bacino.

Dal punto di vosta sociale questa modifica comporterà una vera rivoluzione : non ci sarà più necessità di cucine,  con tutto quello che ciò comporta: sia dal punto di vista della produzione di mobili che da quello dello spazio e dela organizzazione dell’allogio. Non ci saranno infatto neanche bagni o servizi igienici.
Anche la socialità subirà profondi cambiamenti, non essendo più legata a necessità fisiologiche. Non si andrà più a cenare insieme, o a prendere un caffè, o a fare l’aperitivo. Bar, ristoranti e caffè spariranno del tutto.
La rivoluzione definitiva avverrà quando sarempo in grado di sintetizzare l’energia che ci serve direttamente dall’aria e dalla luce. Questo significherà la fine della storia come fino ad ora è stata: basata sulla competizione per l’accaparramento ed il possesso delle risorse; e l’inizio di una storia nuova.
Il nostro destino è di diventare esseri superiori, come lo sono i fili d’erba, che non hanno bisogno di spostarsi per nutrirsi, che trasformano in nutrimento il 100 % dell’energia che ricevono sotto forma di luce ed aria, che non hanno bisogno di pensare per vivere, per essere parte del tutto. E dunque non hanno bisogno neanche dell’arte.

25.09.21
Materiali su Cézanne

Il più grande tentativo – riuscito – di rappresetare il presente è stato compiuto da Cézanne, ed è il tentativo durato una vita intera rappresentato dalla sequenza delle Montagne di Sainte Victoire.
Tutte le montagne si possono vedere solo  in successione, ma andrebbero viste tutte contemporaneamente, e questo può essere fatto  solo con un esercizio di composizione interiore:  il presente non è nessuna delle Montagne rappresentate, ma l’insieme di tutte, cioè l’unica che dopo averle viste tutte appare.
C’è voluta una vita intera per ottenere questo risulltato; anni sono dovuti passare in paziente e operosa attesa. E non sappiamo se Cézanne ne fosse consapevole. Cioè se fosse consapevole della immensa grandezza del regalo che ci ha fatto.

6/10/21
Il tema della ricerca , l’argomento, è chiaro: ho indicato una dimensione diversa,  dell’essere, cioè l’essere tridimensionale che vive contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. E cioè non fuori dal tempo, ma dentro il tempo! Fuori dal tempo vive chi vive inconsapevolmente nel presente!
Ora si tratta solo di verificare questa tesi, e soprattuto la sua presunta differenza da Bergson, da Proust, da Deleuze…

Nella seconda parte parlo della ricchezza e contraddittorietà del presente, con la sua insanabile contraddizione di essere luogo dell’assenza e della presenza del Tutto nello stesso tempo.
Questo si riallaccia  al concetto che della realtà vediamo solo il visibile, e non pensiamo all’invisibile.
Cacciari, Cézanne, Merleau Ponty, Ghirri…

Nella terza parte parlo dell’armonia, cioè del fatto che solo segni derivanti da una composizione armonica ci consentono di compiere il salto temporale.  Cioè si smaterializzano.

Si parla infine della bellezza che, richiamando la poesia di Montale e arrivando a Leopardi, è il fantasma che non ci salva.

Ora che la tecnologia ha svelato LA GRANDE TRUFFA DELLA BELLEZZA,  dimostrando che non è arte riprodurre la bellezza, ma soltanto bisogno  (ringrazio Antonella per avermi insegnato a distinguere l’amore dal bisogno), cioè necessità, rimane il significato vero  dell’arte, cioè produrre segni che si smaterializzano ed entrano a far parte della esperienza trascendentale, cioè della memoria trascendentale a-soggettiva.

La bellezza non c’entra nulla con l’arte. Essa ha a che fare col fantasma che ci salva, non con il crogiuolo. Dove con gli atti scancellati si compongono le storie del futuro.  L’arte è il crogiuolo.

Cos’è il verso se non l’istituzione di un tempo diverso!
Il ritmo diverso infatti provoca un diverso scorrere del tempo, diverso dall’ordinario in quanto armonico. Armonico in quanto esteso nel tenere insieme l’inizio e la fine.
E cos’è questo se non il nostro vero tempo,  esteso dal passato al futuro!
Questo è il passaggio fondamentale:
Il ritmo del verso, il ritmo cioè che le singole parole istituiscono nel verso, il ritmo che danno alla frase, per esempio un endecasillabo, e lo stesso succedersi dei versi nel contesto più ampio della terzina, istituisce un tempo armonico, cioè un tempo continuo, che come un filamento tiene insieme il suo inizio e la sua fine. In ogni sua parola, in quanto partecipante al ritmo, il verso richiama il suo inizio e la sua fine: en cai pan.
Nella nostra essenza dunque noi siamo tempo armonico, cioè ritmo, cioè siamo la capacità di tenere insieme l’inizio e la fine.

Cos’altro è la musica se non una ordinata successione di suoni che istituisce un tempo diverso, cioè una armonica successione di  suoni in cuoi l’armonia – cioè il collegamento ordinato secondo certe misure – seve ad unire il primo suono della frase all’ultimo, dunque a tenerli tutti insieme?

E cos’altro è l’architettura se non l’istituzione di un alternarsi di pieni e di vuoti che tiene insieme ogni parte della fabbrica edilizia creando uno spazio armonico? In cui, come nel Duomo di Pavia, o nel recetto della Biblioteca Laurenziana, ogni singola linea è legata a tutte le altre come le note un una melodia?

Per lo stesso motivo la pittura, la scultura e la letteratura, che sono arti figurative, cioè arti che producono figure,  hanno valore e senso in quanto “imitative”, cioè in quanto imitano una situazione in cui esiste armonia. Isolano e riproducono, attraverso la composizione dei colori e delle figure, attraverso la composizione della materia, attraverso la descrizione operata con le parole, una realtà armonica (in un paesaggio, per esempio, o in un volto) che nell’ordinario, confusi nel tempo ordinario e nel disarmonico comporsi delle cose, non rileviamo.

Le arti figurative (pittura, scultura, letteratura) sono arti descrittive: rappresentano, imitano l’armonia e la bellezza.
Le arti primarie (musica, poesia, architettura) producono armonia e bellezza. Le arti figurative descrivono, ci raccontano una esperienza.
Le arti primarie quella esperienza la inducono, ce la fanno vivere.
Ed è solo attraverso queste arti che oggi possiamo “fare esperienza”.

(riprendere esperienza, scienza e verità)

7/10/21
Provare una sensazione è una esperienza in cui attraverso i sensi si viene a conoscenza di un aspetto della realtà esterna, cioè appunto se ne fa esperienza. Raccontare o pensare una sensazione è una attività riepilogativa e riflessiva posta in essere attraverso la memoria per un uso pratico.
L’attività che produce segni capaci di indurre una sensazione (arte), è una attività che ci fa provare un’esperienza, ma in senso inverso, portando fuori, all’esterno, qualcosa che già esisteva dentro di noi.  Questa è l’attività riproduttiva dell’intelletto, capace, dietro una precisa sollecitazione, di farci vedere colori che non esistono, di farci sentire odori che non esistono. Dunque è un uso dei sensi  che va al di là delle capacità fisiche degli stessi. O più precisamente è una replica esatta di una condizione precedentemente vissuta e registrata, che coinvolge i sensi nella creazione di una scena che non esiste, ma di cui si sentono gli odori o si vedono i colori.  Questo significa, alla lettera, creare la realtà.
Ma è veramente così? Proust dice di si; dice infatti che la reminiscenza riporta in presenza un preciso luogo, insieme alla sua luce, ai suoi colori e ai suoi odori.

Questa attività dell’intelletto è diversa dall’attività rappresentativa con la quale si descrive o si racconta una sensazione.
Da qui la differenza tra arti primarie o creative, e arti rappresentative o figurative.

La sera che si stende contro il cielo di Eliot non è la stessa che da pace e fiume alla campagna di Alfonso Gatto, né è il nulla semplice e profondo di Pavese. Questa sera ci porta un’inquietudine, ci porta attraverso strade semivuote in luoghi estranei, in cui non possiamo che chiederci: “Cos’è?”, ma consapevoli di non poter ricevere alcuna risposta. La sera di Gatto, e il nulla di Pavese non ci inducono domande, perché sono già risposta.

10/10/21
Marcovich, sul significato di Logos. Da Eraclito,  p. 8
Nel fr. 1  o logos sembra voler dire in primo luogo affermazione o discorso,  nel significato di insegnamento orale (come al fr. 83, e probabilmente anche al fr. 109: a) perché gli uomoni possono udire il logos da Eraclito (fr. 2, 3); b) perché  l’espressione outos o logos  nella prosa arcaica vale, di solito,  “affermazione, esposizione, prova” (cfr, Melisso, Democrito, ecc.).
Dal momento che gli uomini da soli possono ricavare la conoscenza del logos direttamente dal mondo che li circonda, senza l’aiuto di Eraclito (fr. 23 e 26), deve voler dire, nello stesso tempo, anche verità obiettiva (legge, regola). E’ dai tempi di M. Wundt che si sa bene come il pensiero greco arcaico non avesse ancora bene chiara la distinsione tra aspetti obiettivi e soggettivi della conoscenza (cioè fra Idea-Parola e Cosa) (2).

Fra i detti supersiti di Eraclito non si trova una definizione formale di ciò che egli intendeva per Logos, o Verità; ciò nonstante, sulla base dei frr. Del gruppo VI e della formula ev to autò, xunon contenuta ai frr. 32, 33, 34, 41, 43, 46, 50, si può supporre che Logos significasse:
a) unità o coicidenza di ciascuna coppia di opposti;
b) unità sottostante all’ordinamento del mondo (crf fr 26).

D’altra parte,  logos al fr. 53 vuol dire chiaramente “proporzione”, “misura”, e nella espressione erodotea  ou pleon logos significa “valore”, “calcolo”, “stima”.

10/10/21
Ghirri, prefazione a Kodachome
II.
Dalla necessità e il desiderio di interpretare e tradurre il segno e il senso di questa somma di geroglifici, nasce il mio lavoro.
In questo senso, non solamente la realtà facilmente identificabile o di alto contenuto simbolico, ma anche il pensiero, la memoria, l’immaginazione, il contenuto fantastico o alienato.
La fotografia è per il fine che mi sono proposto straordinariamente importante, grazie a caratteristiche che cercerò qui di evidenziare.
La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata, è per me importante quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile.
Contemporaneaente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato.
Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare, non tende soltanto a evocare l’assenza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato e cioè il reale.

10/10/21
Pavese, cronologia di  Tutti i racconti, p. XC.
1942
… A fine giungo è tra le sue colline, a Santo Stefano Belbo,  e si abbandona a considerazioni sull’infanzia e sul mito:
“Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia,  e mi riguardo con cautela le grandi colline – tutte, quella enorme e ubertosa,  come una grande mammella, quella scoscesa e acuta dove si  facevano i grandi falò, quelle ininterrotte e strapiombanti come se sotto ci fosse il mare – e sotto c’era invece la strada,  la strada che gira intorno alle mie vecchie vigne e scompare, alla svolta, con un salto nel vuoto.

Da questo salto non ero mai passato; si diceva allora che la strada proseguiva sempre a mezza costa, sempre affiancata da colline di così enorme estensione da apparire, viste sopra la spalla,  come un breve orizzonte a fior di terra. Ero sempre arrivato a questo orizzonte, a questi canneti (…), ma presentivo di là dal salto, a grande distanza,  dopo la valle che si espande come un mare, una barriera remota (piccina, tanto è remota) di colline asssolate e fiorite, esotiche. Quello era il mio Paradiso, i miei Mari del Sud, la Prateria,  i coralli, Ophir, L’Elefante bianco ecc.” ( Lettera a  F. Pivano, 25 Giugno. )

23/10/21
Libri su Proust:
H.R. Jauss, Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust, 1986
Le lettere, 2003;
Charles Blondel, La psicografia di Proust, 1932/2
Rubettino 2016

23/10/21
Da Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo, Il Mulino
Cap.1, pag. 19
In linea generale va rilevata in primo luogo la tendenza a sottolineare una stretta interdipendenza tra il solipsismo radicale di P. e il carattere proiettivo attribuito alla conoscenza. Esseri e oggetti sono da considerare come la estrinsecazione ed in certa misura la oggettivazione dei nostri stati e dei nostri sentinenti: tutto è soggettivo nella stessa misura dei più intimi dei nostri stati d’animo. Ogni generalità è sempre soggettiva, è una soggettività che si dissimula (Blondel, La psicologia di P., 1932)
A questo orientamento quello di chi ritiene che la vita umana è fatta di mutamenti “bruschi e completi”: non si può parlare di un io, ma di una molteplicità di io che si succedono l’un con l’altro. Questi io si manifestano nel mutare di quelle maniere differenti di sentire e di pensare di un medesimo individuo che prendono il nome di “personalità”. Il soggetto è un individuo complesso, ma l’indivisduo non può mai essere, volta per volta, altro che uno solo dei vari esseri di cui, per così dire, può indossare le vesti (Bonnet, Le progres spirituel dans l’ouvre de Marcel Proust, 1946/49).
Da una parte dunque il permanere dell’io – del soggetto empiricamente certo della propria identità personale – dall’altra la continua esperienza del mutamento, della dispersione.

La mia posizione è differente.
Per me la permanenza dell’io non è solipsismo radicale. Non è, cioè, il ricondurre la molteplicità del reale alle proprie esternalità (Blondel). Né può essere ricondotta alla pluralità dell’io, di volta in volta, e una coscienza alla volta assumibile dal soggetto.
La permanenza dell’io per me è permanenza del passato. Cioè CONTINUAMENTO AD ESISTERE di ciò che ci è accaduto, e di conseguenza CONTINUAMENTO AD ESISTERE  di noi stessi. E’ questo che comporta il fatto che non si può dare alcun cambiamento in noi, perché ciò che eravamo ancora siamo.
(vedi: 23/10/13,)

23/10/2021
Mi pare di capire che nei suoi racconti di riflessione Pavese parli non di sé, ma di quel sé che non è mai stato, cioè dei personaggi, delle cose e dei luoghi (Su Pavese e i luoghi, e sulla poesia minimale dei luoghi di Pavese bisogna approfondire) di cui, pur non essendo loro, faceva parte. Sono testimonianze di adesione al mondo.
La sua grandezza – e la sua tragedia – consiste in questo riconoscerdi in cose, uomini, riti che non gli sono mai appartenuti veramente, ma di cui si sente parte, probabilmente per averli sentiti e vissuti da ragazzo in seconda persona.

24/10/2021
E’ significativo quello che dichiara Proust nell’intervista a Le Temps del 1913:
“La Recherche non è in alcun modo un’opera di ragionamento… anche i suoi più piccoli elementi mi sono stati forniti dalla mia sensibilità…
Io li ho prima scorti al fondo di me stesso, senza comprenderli, e facendo tanta fatica a convertirli in qualcosa di intelligibile come se fossero stati estranei al mondo dell’intelligenza al pari, come dire, di un motivo musicale”.
Per questo la Recherche non è un’opera d’arte, o meglio non è un’opera di arte esperenziale ma un’opera rappresentativa,  cioè descrittiva.
Questo tentativo infatti è riuscito, e P. ha trasformato qualcosa che somigliava a una musica in un parlato, quello che era frutto di intuizione in un prodotto di ragionamento,  riuscendo così a cogliere, dopo estenuanti analisi, il farsi della memoria involontaria. Ma non suscita in noi alcun evento/effetto simile, come ci succede, per esempio, leggendo una poesia. Non ci fa uscire dal tempo ordinario dell’intelligenza (perché non ha un ritmo- vedi), ma anzi ci costringe all’interno della sua gabbia. Ci fa anche perdere in essa, costruendo una gabbia a forma di labirinto, vagando all’interno del quale abbiamo l’illusione di trovare quella porta che si apra sbattendoci contro,  ma che in realtà non può aprirsi perché non è all’interno del labirito dell’intelligenza che si trova.
(25.12.21)

24.10.21

Se la natura si rappresenta  propriamente (ordinariamente) nella sua dote (nel suo aspetto) più debole, allora quando si rappresenta nella sua dote (nel suo aspetto) più forte il segno (la luce della vita e il fenomeno) è = 0.

Quindi quando si manifestano in tutto il loro significato la vita e il fenomeno, e cioè nel loro apparire (che è il loro significato ultimo),  non si manifesta l’originario, il fondamento di ogni natura.

Da cui deriva che l’originario non è percepibile, in quanto può manifestarsi, e dunque può essere percepito, solo in assenza della vita.

Esso tuttavia è intuibile – questa è la tesi di H. ed è anche la base della mia ricerca (che anche se giungesse ad essere mera raccolta e catalogazione di testi sarebbe per me soddisfazione suprema) – nel momento in cui, attraverso un eccesso di compartecipazione, causato da vari fattori, ma anche dai segni dell’arte, si annulla il soggetto di cui si è titolari, o, secondo la mia tesi, si percepisce il nostro essere in quanto estensione di tempo, e quindi anche in questo caso come annichilimento del soggetto che vive nel presente, e aderendo, per la durata di un tempo incalcolabile a causa della sua brevità e della  sua intensità, alla Totalità, divenendo cioè per un tempo infinitesimale ma infinito uno dei tutti che costituiscono l’Uno.

Da notare, come ulteriore motivo di necessario approfondimento,  la contraddizione in termini che Holderlin volontariamente pone in essere quando parla di ogni totalità. A beneficio dei suoi dotti amici e dei suoi maestri (Fichte, Schelling, Hegel, Schiller, Goethe…) che la sua grandezza, per proprio limite o per semplice timore e tornaconto, o non avevano capito, o appunto facevano finta di non capire. Nell’un caso o nell’altro, e man mano che la reale grandezza della statura di Holderlin viene svelata dalla storia, la loro non può che risultarne pesantemente sminuita.

28/10/2021
Definita seconda terza e quarta parte di Atlante (par. 9) . Ancora preliminari. Poi si entrerà nel merito con Cezanne ecc.
Seconda parte: il divenire. A seguire Holderlin.
Eraclito
Stoici
Holderlin
poesia
Si affaccia all’orizzonte la figura possente di Dante.

31.10.21
Nota 27 di Reitani al Frammento di Hyperione, p. 1301
Testo:
Mio Bellarmin1 Se potessi farti condividere pienamente l’esperienza ineffabile che vissi in quell’istante! (27) Dov’èrano finite le pene della mia vita, la notte e la sua povertà? Dove la sua misera natura mortale?
Un simile attimo di liberazione è certamente quanto di più sublime e felice la Natura inesauribile racchiuda in sé!  Esso compensa gli eoni della nostra vita vegetativa! La mia vita terrena era morta, il tempo era come sospeso, e il mio spirito, liberato e risorto, percepiva la sua affinità e riconosceva la sua origine.
Nota:
In Amore e individualità Herder scrive che il momento più alto dell’unione degli spiriti è quello in cui l’amante vede l’amata, che rimanda a una comune preesistenza: “Il massimo grado dell’estasi io lo vedo (…) nel primo felice trovarsi, nel  dolce attimo, superiore a ogni descrizione, in cui entrambi gli amanti si accorgono che si amano. (…) Se esiste un attimo di celeste delizia e di pura unione di esseri corporei qui sulla terra, è questo. (…)  In esso godiamo, a ristroso,   ciò che a lungo abbiamo cercato e non osammo confessare a noi stessi, in esso godiamo in anticipo tutte le gioie del futuro,  non presagendole, ma possedendole, anzi, se così si può dire, più che possedendole.

Rif.: l’amore che ci fa vivere la nostra vera essenza, portandoci fuori dal tempo.

31/10/21
Interpretazione del frammento di Holderlin “Il significato delle tragedie…”

F. Holderlin
Il significato delle tragedie
Il significato delle tragedie lo si comprende nel modo più facile partendo dal paradosso. Tutto  ciò che è originario infatti, essendo ogni facoltà  (aspetto) ripartita giustamente ed equamente, non appare davvero nella sua forza originaria, ma propriamente solo nella sua debolezza, sicché (così che) la luce della vita e il fenomeno fanno propriamente parte della debolezza di ogni totalità.

L’originario dunque non appare nella sua forza originaria, non può apparire nella sua forza originaria, essendo questa il perfetto equilibrio (essendo ogni facoltà  (aspetto) ripartita giustamente ed equamente), giacchè solo nel manifestarsi di una debolezza può esprimersi una forza, solo per opposizione a un negativo può manifestarsi un positivo (vedi altrove), e ciò presuppone il venir meno di un equilibrio che invece nell’originario è sempre presente.

L’originario dunque non appare nella sua forza originaria ma solo nella sua debolezza, cioè nello sfrangiarsi dei suoi aspetti periferici (si potrebbe dire con ardita e interessante metafora: nella sua sprezzatura), che sono la luce della vita e il fenomeno, cioè appunto l’apparire.

La luce della vita e il fenomeno sono debolezze di ogni totalità: ogni vita, dal filo d’erba all’uomo, nel suo apparire come fenomeno è una manifestazione di debolezza della Totalità, che è il principio vitale. Ma è anche il modo in cui la Totalità si manifesta. Cioè la Totalità si manifesta a noi attraverso la sua sprezzatura.

Ora nel tragico, il segno è in se stesso insignificante, inefficace, mentre l’originario si manifesta direttamente.

La contraddizione tragica consiste nel manifestarsi direttamente dell’originario attraverso il percepire come  insignificanti i segni con cui ordinariamente si manifesta, cioè la luce della vita e il fenomeno, quindi: la vita e la realtà.

L’originario può apparire infatti soltanto nella sua debolezza;
in quanto però il segno in se stesso
(attraverso cui l’originario appare, cioè la luce della vita e il fenomeno) è posto = 0 come insignificante, 
allora anche l’originario, il fondamento celato di ogni natura, può rappresentarsi.

Dunque solo nel momento in cui si percepiscono la vita e la realtà come =0, cioè come esistenti privi di significato e dunque esistenti a-soggettivi, dunque per noi inesistenti, il fondamento celato di ogni natura può manifestarsi.

15.11.21
Sul nichilismo arcaico:
da Bloch, FR, p. 34
Salomone, Ecclesiaste; tradotto da Lutero col titolo: Il predicatore Salomone.
Troviamo in questo testo la frase “tutto è vanità” in cui risuona  chiaramente l’influenza dello scetticismo e del materialismo greco.  Nel capitolo III, vesretti 19-21, è detto: “Che la sorte dé mortali è quella delle bestie; è una sorte identica; come muoiono gli uni, così muoiono le altre; hanno un medesimo soffio;  e l’uomo non ha superiorità veruna sulla bestia; ché tutto è vanità; tutti vanno nel medesimo luogo; tutti vengon dalla polvere e tutti tornano alla polvere.  Chi sa se il soffio dei mortali sale in alto e se il soffio della bestia scende in basso sulla terra?”
Continua Bloch:
La reazione degli uomini all’idea della caducità  non assumeva necessariamente un carattere liberatorio, tanto è vero che neppure la religione ebraica arcaica contemplava l’immortalità.  Le scritture più antiche parlano di Scheol, termine che indica qualcosa di molto simile alla nostra incoscienza (l’immanenza? NdC).
La fede nell’immmortalità individuale fece la sua comparsa molto tardi, con il profeta Daniele,  e anche allora esclusivamente all’insegna della resa dei conti e della giustizia: i cattivi dovevano sopravvivere per scontare il loro castigo e i buoni per assaporare il trionfo.
Soltanto in seguito la sopravvivenza, da strumento “giudiziario” divenne il perno di tutta la macchina ideologica della Chiesa di Pietro.

14.11.2021
Il percorso del divenire: Eraclito, Platone, Aritotele, Atoici, umanisti, Bruno, Holderlin. Fin qui.

15.11.21
E. Bloch: Filosofia del Rinascimento
cap.2
Marsilio Ficino 1433/1499.
Marsilio Ficino rinnovò le idee neoplatoniche, soprattutto l’idea del Lumen originario da cui è scaturito il mondo, che ha generato e illuminato il cosmo, operando rispetto a Plotino un inversione di giudizio rispetto alla gerarchia tra rapporti terreni e ultraterreni.
In Ficino l’Aldiquà è ancora illuninato dall’Aldilà,  ma allo stesso modo in cui una lampada di alabastro splende in virtù dell’invisibile luce che sta al suo interno e dalla quale possiamo tuttavia prescindere, perché la luminosità è più bella della luce stessa.
Così, lo splendore emanato dal Lumen originario è più importante del Lumen stesso, è l’alone, è il bello.
Il sacro, superiore, misterioso ed “estraneo” Aldilà si manifesta come il Bello nel mondo terreno.
In Pico della Mirandola lo sguardo si svolge ancor più decisamente all’uomo, il quale conquista la sua precisa autonomia. (…)
L’uomo è posto al centro dell’universo, affinché gli sia più facile – afferma Pico –  guardarsi intorno e vedere cosa c’è nel mondo.
Il mondo è fatto della sua stessa carne e del suo stesso sangue, dimodocché l’uomo non avverte più l’angoscia della “assenza di dimora”, la paaura e l’estraneità.
Il mondo ridiventa pagano, e l’uomo riacquista la dignità  greca della della figura eretta, in luogo del ripiegamento ocntrito, della linea curva e spezzata delle figure gotiche genuflesse. Nella sua “Oratio de dignitate hominis” Pico dice: ““Gli animalii traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro,  e gli spiriti superiori sono fin dal principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili forme di vita”.
Il fatto che solo l’uomo non sia compiuto, che la sua esistenza sia in divenire, in questo consiste la sua dignità.
L’uomo ha e non ha,  nel suo avere c’è un non avere, perciò deve aspirare all’avere, ma nel suo non avere c’è un avere, perciò può aspirare alla luce.
In polemica cin Platone: ciò che è percepibile dai sensi vale più dell’Aldilà delle idee, la creatura più del creatore: essa traslumina il Creatore nel concetto.
Le forze celesti salgono e scendono,  il mondo è pieno di forze che fluiscono dall’alto verso il basso e dal basso verso  l’alto.
Con Francesco Patrizzi ci troviamo non soltanto di fronte alla rivificazione dell’universo, né solo di fronte alla perdita di peso del Creatore rispetto alla creatura, bensì anche all’attribuzione al principio supremo di un nome che non era più risuonato dall’epoca di Parmenide: il nome di Hen Kai Pan.
Il nome significa non solo la panteistica organicità universale del mondo,  ma anche il fatto che non esiste nient’altro che l’uno e il tutto, l’unotutto che Patrizzi chiama Unomnia.
L’Unomnia è l’unico Lumen originario che riempie  l’infinito spazio cosmico. Non c’è materia morta, bensì in tuttospira il soffio vitale panteistico, il soffio di divina immanenza della vita. In questo contesto non interrotto da alcuna trascendenza non c’è posto per i miracoli e non esistono alri infiniti al di fuori del soffio del Pneuma.
Rivalutazione di Aristotele.
Pomponazzi rinnovò lo studio di Aritotele. Con la sua opera principale, De immortalitate animae, Pomponazzi nega la sopravvivenza individuale, e così anche il destino paradisiaco e infernale dell’anima umana.  Vibrando in questo modo un durissimo colpo ala potere ecclesiastico, che era il potere di rimettere i peccati. La chiesa fondava il suo potere sul terrore della trascendenza, che torturò gli uomini fino al XVIII secolo. Secondo l’originale aristotelico tuttavia l’anima è l’entelechia (il compiersi) del corpo, e il trapassare del corpo ne liquida la sussistenza. In Aristotele lo spirito dell’umanità sopravvive, ma non a livello personale, ma solo come nostra parte migliore.
Ricordi e destini personali svaniscono con la morte, noi non contiamo per il nostro fugace passaggio nella vita, né veniamo quindo premiati per i nostri meriti personali.
Importanza di Ficino: con lui per la prima volta “la luminosità è più bella della luce stessa”; cioè il creato è più bello del creatore, ovvero il “creatore si manifesta attraverso il bello nel mondo terreno”.
Dunque il creato non è tutto bello; ed è  nella bellezza che il creatore si manifesta, perché la bellezza è “la luminosità che deriva dalla luce originaria”. (Ma com’è possibile che dal creatore derivino parti del creato non belle? Solo ammettendo che il creato si sviluppi autonomamente, relegando il ruolo del creatore al solo ruolo di  Lumen originario.)
E’ questa comunque la rivoluzione che sta alla base della “scoperta” dell’armonia universale. Ed è una rivoluzione perché fino ad allora il bello e la natura erano considerati luogo del diavolo (il bello che suscita il desiderio dunque causa il peccato).
“L’uomo prende consapevolezza dell’Aldiquà, diviene conscio delle forze meravigliose che governano il mondo” (Bloch).

Con Pico poi il mondo diventa stessa carne e stesso sangue dell’uomo, lasciando così intravedere la possibilità anche per l’uomo di partecipare alla bellezza, di ricongiungersi con Dio.  Pico per primo teorizza il divenire in senso neoplatonico: tu solo uomo hai uno sviluppo, ti puoi elevare.
“Gli animalii traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro,  e gli spiriti superiori sono fin dal principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili forme di vita”.
Verso cosa si eleva l’uomo? Verso Dio? Non più. Verso l’Unomnia, l’Uno e Tutto di Patrizzi, che per primo riporta in auge il concetto di ev kai pan.
Infine Pomponazzi, smontando l’interpretazione scolastica di Aristotele, delinea il concetto di divenire come è giunto fino a noi.
“L’anima è l’entelechia (Aristotelico: la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo) del corpo, e il trapassare del corpo ne liquida la sussistenza. Certo, in Aristotele lo spirito generale dell’umanità sopravvive, ma non a livello personale,  bensì come nostra parte migliore. Ricordi e destino personasle svaniscono con la morte, noi non contiamo per  il nostro fugace passaggio nella vita, né veniamo quindi premiati per i nostri meriti peresonali.
Egli negava non solo l’immortalità personale,  ma anche quella della parte attiva e generale dell’anima di cui Avicenna e Averroe avevano sottolineato la centralità, sviluppando la dottrina aristotelica.
 Per i due pensatori arabi l’umanità è un albero, su cui si avvicendano senza posa le foglie e, come le foglie tornano in autunno nell’albero, così al momento della morte gli uomini rientrano nell’umanità generale. Pomponazzi respinge come mistica questa concezione e vede la morte come un ritorno non tanto all’umanità generale, quanto nella materia generale.
Anche per Avicenna e Averroè tuttavia nell’immagine dell’albero imperituro era implicita l’idea del tutto omnicomprensivo, dell’eterna materia. Per essi la meteria non era semplice cera per l’impronta delle forme, bensì la forma stessa faceva parte della materia, vista come fondamento originario di tutte le cose. Così concepita la materia diventa essa stessa dator formarum, matrice delle forma e capace quindi di trarre dal suo grembo, senza l’ausilio di una forma trascendente, tutti i fenomeni del mondo, destinati poi a far ritorno alla materia.

21.11.21
Ogni immagine, che sia prodotta dagli uomini con segni, colori, ma anche parole, o che sia solo pensiero, o ancora che sia prodotta dagli dei (riflessi, ombre, sogni) è sempre un chiamare in presenza qualcosa che è assente. Così sono i ricordi e le raffigurazioni pittoriche, o le immagini che ci mandano gli dei, nelle quali ciò è ancora più evidente perché tali figure (eidolon) non sono solo simili a ciò di cui sono l’immagine, ma ne richiamano anche l’essenza, con la voce, con le parole, con i gesti; sono, in qualche modo, una loro presenza, anche se nel momento in cui Achille cerca di abbracciare Patroclo, quello stesso Patroclo che pure gli sta parlando – non ci riesce, essendo egli contemporaneamente presente ma assente, in quanto morto.
Ogni immagine è sempre copia, riproduzione di qualcosa che esiste, differenza. Essa istituisce sempre una distanza.  Per riprodurre l’ampiezza del reale infatti abbiamo necessità di effettuare una sintesi a posteriori delle immagini parziali, cioè dei frammenti dello spazio che ci sta davanti, che riceviamo in continuazione attraverso l’apertura dell’occhio. Per questo il vedere è sempre una elaborazione mentale, ed essendo la mente il risultato di una formazione culturale, il vedere è sempre una operazione culturale e dunque, nell’atto stesso, interpretativa.
A differenza degli altri sensi, che sono im-mediati, nel senso che non richiedono una mediazione, un processo di elaborazione, ma vengono percepiti per via diretta (odore, suono, tatto),  la visione è una attività di sintesi che presuppone la necessità di una analisi preventiva. Il sostrato culturale che costituisce la mente, cioè che è la mente elaborativa,  interviene in entrambe le fasi, selezionando (su una base culturale) le immagini che faranno parte della sintesi, e sintetizzandole, appunto, secondo uno schema precostituito in modo da ottenere un risultato aspettato, cioè che si inserisce nell’ambito delle esperienze catalogate e quindi gestibili. Quando diciamo che vediamo solo ciò che vogliamo vedere, o sentiamo – per analogia – solo quello che vogliamo sentire, diciamo esattamente questo.
Non si può distinguere l’occhio, lo strumento ottico, dal cervello, lo strumento interpretativo. Dunque il senso vero non è “la vista”, ma “la visione”, cioè la capacità di ricostruire in tempo reale sinteticamente e artificialmente ciò che ci sta davanti.
Per questo l’atto del vedere, che in virtù della prevalenza che ha acquisito tra le attività dell’essere, anche per causa delle protesi tecnologiche, è ormai l’atto stesso del vivere, cioè dell’essere in vita, si costituisce, nel momento stesso in cui si pone in essere, come alienazione, distacco, duplicazione, presa di distanza dal reale, cioè da quello che veramente esiste.
E, coincidendo quindi  la visione con l’essenza stessa dell’essere, ne discende che la vita è, nel suo costituirsi come principium individuationis, qualcosa che viene a mancare. Segno/immagine, essa stessa, di un’assenza.

23.11.21
M. Ficino – Treccani
Nella sua massima opera, la Teologia Platonica, egli tentò di svolgere il suo concetto fondamentale dell’identità perfetta della filosofia con la religione. Il problenma dell’infinito e del finito fu per lui, come per il Cusano,  il problema principale della religione e quindi della filosofia. Egli notava che l’uomo non differisce dagli animali se non per la religione. Ma la religione è lo stesso infinito che è in noi. Questo concetto importa la divinizzazione dell’uomo, ma nel senso che non è Dio che deifica l’uomo, bensì è l’uomo che si deifica. Di qui la rappresentazione dell’anima razionale come l’unità di finito e di infinito, di eterno e di temporale. “Le cose che sono sopra l’anima razionale sono solamente eterne; quelle che sono sotto lei sono solamente temporali; e l’anima razionale è parte eterna, parte temporale. Quest’anima imita Iddio con l’unità, gli Angeli con l’intelletto, la specie prorpia con la ragione,  gli animali bruti col senso, le piante col nutrimento,  le cose che mancano di vita con l’essere.  E’ adunque l’anima dell’uomo in un certo modo tutte le cose”.
Da cui deriva quell’altro concetto ardito che Dio non per altro fine diventò uomo, se non perché l’uomo “qualche volta, in qualche modo, diventasse  Dio”. Per F. la conoscenza di noi stessi importa la conoscenza del divino che è in noi. Per questa autocoscienza noi non solo intendiamo noi stessi, ma anche  le altre cose e Dio stesso.
Ma se l’uomo è il compendio di tutto l’universo, è naturale che egli cerchi di diventare tutto, e di comprendere ed esperimentare in sé tutte le vite, e se si sforza di diventare Dio egli è progresso infinito.

F. parla di tre guide della nostra vita: la ragione, l’esperienza e l’autorità, ma in coclusione l’unica guida, a cui si riducono le altre due, è l’esperienza. Ma l’amore si celebra in grado eminente nella scienza divina che è la filosofia,perché solo il filosofo possiede una mente divina.
La creatività umana per F. consiste nel fatto che  la mente dell’uomo, quando attinge qualche vero, non vede, ma fa il vero,  come Dio stesso, e allora la mente che possiede l’idea diviene la stessa verità di quella cosa che per una siffatta idea è stata creata.
In Dio sono le forme sostanziali,  che costituiscono gli esemplari e  le cause di tutte le cose, ma Dio,  intendendo e volendo se stesso, sa e crea tutte le cose.

26.11.21
Holderlin, La giovinezza di H., 1795
contemporaneo alla “Stesura metrica” che in esso rifluisce.

p. 224
Dopo un po’ mi chiese cosa pensassi degli uomini incontrati durante le mie peregrinazioni. “Più bestiali che divini” replicai brusco e severo com’ero. “Oh, se solo fossero umani!” rispose lui con serietà e affetto.  Lo pregai di spiegarsi.
“ E’ vero” iniziò allora “la misura con cui lo spirito dell’uomo giudica le cose è sconfinata, e così deve essere! Dobbiamo custodire puro e sacro l’ideale di tutto il visibile, e il nostro impulso di plasmare secondo il divino che è in noi ciò che è informe (il divino che è in noi – Ficino, Bruno) a sottomettere allo spirito che domina in noi la Natura che gli si oppone, quest’impulso mai deve appagarsi a metà del cammino; eppure, quanto più faticosa è la lotta, tanto più bisogna temere che il combattente ferito getti via indignato le armi divine,  si consegni prigioniero al destino, rinneghi la ragione e si trasformi in un animale, o ancora, esacerbato dal contrasto, devasti quel che occorrerebbe proteggere, distrugga ciò che è pacifico insieme a ciò che è ostile, combatta la Natura per puro desiderio di lotta e non per volontà di pace, rinneghi la sua umanità, annienti ogni bisogno innocente che lo univa ad altri spiriti. Ah! Che il mondo intorno a lui diventi un deserto  ed egli cada in rovina nella solitudine pià cupa.”
(Profezia di se stesso! Questo è esattamente quello che gli accadrà nel breve volgere di dieci anni. Infondo la sua follia, come quella di Nietzsche non è stata altro che un “consegnarsi progioniero ad destino”).

Vedi Il facitore de le forme

Fui colpito; anch’egli sembrava turbato.
“Non possiamo negarlo” riprese con tono nuovamente sereno, “nella stessa lotta con la Natura contiamo sulla sua docilità. E perché non dovremmo? Il nostro spirito non incontra forse uno spirito benevolo e fraterno in tutto ciò che esiste? E quello che si rivolge contro di noi in armi, non è un buon maestro, celato dietro lo scudo? (…) La bellezza ha un senso nascosto. Sappi decifrare per te il suo sorriso, Giacché così si manifesta al nostro spirito quello spirito eterno che mai lo abbandona. In ciò che è più piccolo si rivela il massimo. Il perfetto archetipo dell’arminia lo incontriamo nei sereni moti del cuore, si manifesta qui, in presenza di questo fanciullo. – Non hai mai sentito sussurrare le melodie del destino? – Le sue dissonanze significano lo stesso.
(…) Lo so, è il bisogno che ci spinge ad attribuire alla Natura perennemente mutevole un’affinità con ciò che in noi è immortale. (…) E sul limite del finito che si fonda la fede; (non sulla ragione) per questo essa è comune a tutto quanto sa di aver fine.
(…)
Quando il nostro spirito si smarrì nel suo libero volo divino e dall’etere discese in terra, quando l’abbondanza si unì col bisogno, vi fu l’amore.. Questo accadde nel giorno in cui nacque Afrodite. In quel giorno, quando ebbe origine per noi la bellezza del mondo, iniziò anche la povertà della vita. Se fossimo stati un tempo privi di qualsiasi mancanza e liberi da ogni limite, certo non sarebbe stata vana le perdita del bastare a se stessi, privilegio dei puri spiriti. Noi abbiamo barattato il sentimento della vita, la lucida coscienza, con la serenità imperturbabile degli dei. (nota: la nascita dell’amore, ovvero del desiderio, spinge l’uomo a ricercare qualcosa fuori di sé, ma lo porta anche a confrontarsi con i propri limiti. In quanto sacrificio dell’essere sufficienti a se stessi, condizione equiparabile alla “serenità imperturbabile” degli dei, il desiderio è dunque doloroso.)
Cerca di immaginare lo spirito puro, se ci riesci! Dal momento che non si interessa della materia, per lui non esiste alcun mondo, né sorge e tramonta alcun sole;  egli è tutto, e perciò non è niente per sé. Non sente la mancanza di nulla perché non può desiderare; non soffre perché non vive.  (…) Dunque, noi percepiamo le barriere del nostro essere, e la nostra forza soffocata si rivolta smaniosa contro le sue catene, lo spirito brama di tornare nella limpidezza dell’etere. Pure vi è in noi qualcosa che ci fa sopportare volentieri le catene; se infatti lo spirito non fosse ostacolato da nessun limite non avremmo percezione né di noi né degli altri. Ma non percepire se stessi è la morte.  La miseria del finito è indissolubilmente congiunta in noi  con l’abbondanza del divino.
(verificare la traduzione della parola “abbondanza”, che non pare appropriata. Meglio, per esempio, “ricchezza”).
Non potremo mai negare il nostro impulso a espanderci, a liberarci, sarebbe bestiale. Ma neppure possiamo sottrarci sdegnosamente all’impulso di ricevere, di accettare dei limiti. Non sarebbe umano, uccideremmo noi stessi. Il conflitto tra impulsi, che nessuno può evitare, si concilia in Amore, figlio di Abbondanza e Bisogno. L’Amore tende continuamente al sommo, all’eccelso, volge il suo sguardo in alto, la sua meta è la perfezione poiché sua madre, l’Abbondanza, è di stirpe divina. Eppure raccoglie anche le bacche dai rovi,  e le spighe dal campo di stoppie della vita,  e se in una giornata afosa una creatura benevola gli offre da bere non rifiuta la brocca di coccio, poiché suo padre è il Bisogno. (…)
Se la verità che hai dentro di te ti viene incontro sotto forma di bellezza accoglila con riconoscenza, poiché hai bisogno dell’aiuto della natura.

(Qui H. dichiara la sua visione del divenire, che è quella originaria di Eraclito, dell’unità dei contrasti in una entità che da questa unità (come processo) è costituita.)

(nota: riferimento a Gli artisti, di Shiller; Nei versi di S. però l’incontro con la bellezza precede, gettandone le basi, la conoscenza del vero. “Ciò che qui percepimmo come bellezza/ ci verrà incontro un giorno come verità).

(…) Nel suo dolore abbandona ciò che ama, si affeziona a una cosa o a un’altra della vita,  il più delle volte senza neppure scegliere, sempre pieno di speranza e ogni volta deluso;  spesso torna anche nel suo mondo di idee, , o ritrova con amaro pentimento quella ricchezza con cui una volta glorificava il mondo, s’insuperbisce, e allora prova solo odio e disprezzo;  spesso il dolore della prima delusione lo annienta, allora l’uomo va errando senza casa, stanco e senza speranze, sembra tranquillo soltanto perché non vive più.
(…) Questa è la grandezza dell’uomo, che nulla gli basta in eterno.  Essa si palesa nell’insufficenza della tua forza. (…) Per noi è impossibile avere coscienza di ciò che è senza imperfezione, così  come è impossibile crearlo.
(…) Tu porti in te il seme dell’infinito! Preservalo nella miseria della vita!
… La Natura non vuole neanche che  dinanzi alle sue tempeste ci si rifugi nel regno dei pensieri,  lieti di smemorarci della realtà nel silenzioso regno del possibile.
(…) Appagata si mantiene sempre la Natura al sicuro nei suoi limiti: la pianta rimane fedele alla madre terra,  l’uccello costruisce la sua casa trai rami oscuri e si nutre delle bacche che vi trova; appagata è la Natura,  e la semplicità della sua vita non si disperde mai, poiché essa non muove pretese  al di sopra della sua povertà. Appagato nella sua eterna pienezza è lo spirito, privo di ogni difetto, e nella perfezione non vi è alcun mutamento. L’uomo invece non è mai appagato. Poiché egli brama la ricchezza della divinità, mentre deve nutrirsi della  povertà della Natura. Non maledire se l’animo mai pago passa frettolosamente da una cosa all’altra nel mondo sensibile! Esso spera di trovare l’infinito: il torrente vaga attraverso i rovi in cerca del padre Oceano. Non maledire neppure se lo spirito dell’uomo, dimentico di se stesso, si smarrisce oltre i suoi confini nel labirinto dell’inconoscibile,  e si solleva temerario oltre il finito. Ha sete  di realizzarsi. I torrenti indomiti non strariperebbero dalle loro sponde se non li gonfiassero le acque del cielo.”

In questo passo Holderlin riprende quali letteralmente un passo di Pico della Mirandola, già citato da Bloch (vedi):
“Gli animali traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro,  e gli spiriti superiori sono fin dal principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili forme di vita”. A conferma di quanto scrive Bloch stesso sull’influenza degli umanisti sulla filosofia del tardo settecento in Germania.
Evidente inoltre il riferimento al “folle volo” dell’Ulisse dantesco.

p. 232
Tu vedi cosa ti sta dinnanzi. Ma non ti lasaciar confondere! Guarda il lume del cielo! Ha forse bisogno d’un fuioco esterno per brillare e riscaldare? Ha bisogno di ringraziamento per fare del bene?  Se la terra è rannuvolata di foschia e non accoglie i suoi limpidi raggi, è forse più debole la sua luminosità? Sii così anche tu.  Pensa e agisci come devi, senza guardarti intorno; e quando nel tuo retto cammino senti alle spalle il biasimo meschino della gente meschina, allora immagina davvero quel povero persiano che fece frustare l’Oceano disubbidiente! Diventare come quegli uomini magnifici che vivevano un tempo è il tuo pensiero più caro. Preservalo! Non ti scoraggiare. Non ti accontentare mai a metà strada! Non ti soffermare sulle miserie! Conserva la calma e aspetta finchè giungerà il tuo tempo!  Vivi in comunione con i tuoi eroi! Difficilmente ne troverai presto di simili tra i vivi. Abbi cura di te giovane anima! Tu appartieni a un altro mondo. Non occuparti troppo di quello in cui vivi, fino a quando non giungerà il tuo tempo e potrai agire. Nutri il tuo cuore con la storia dei giorni migliori, non cercare nulla tra quelli del presente! Quel poco che essi possono darti non è, almeno ra, niente per te.

27.11.21
G. De Ruggiero
Platone, p. 291
3. Avviamento alla dialettica.
(rif. al divenire, come movimento del pensiero)

Per P. la dialettica è l’aspetto formale dell’attività del filosofare, cioè il procedimento euristico delle dottrine filosofiche.
( Treccani:
procedimento euristico: 
nei diversi settori della matematica, locuzione che indica genericamente la ricerca della soluzione di un problema o la scoperta di una proprietà attraverso tentativi, che non sono tuttavia del tutto ingenui o casuali, ma sono mirati e si avvalgono delle conoscenze pregresse del ricercatore in materia ( euristica).
eurìstico agg. [der. del gr. εὑρίσκω «trovare, scoprire»] (pl. m. –ci). – Nel linguaggio scient., detto di ipotesi che viene assunta precipuamente come idea direttrice nella ricerca dei fatti, e del metodo stesso di ricerca così condotta: mezzo e., in senso lato, mezzo di ricerca. In partic., in matematica, procedimento e., qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.).

Quando P. dice nel Sofista che pensiero e discorso sono la stessa cosa, con la sola differenza che il dialogo interiore dell’anima con se stessa, senza voce, si chiama pensiero, mentre ciò che dal pensiero si comunica nella voce si chiama discorso, egli definisce, senza nominarla, la dialettica come l’attività discorsiva della mente.
Se l’uomo avessa la capacità di intuire immediatamente e nella sua purezza il vero,  senza il grave lavoro di discernerlo a poco a poco dalla massa delle falsità e delle apparenze, non vi sarebbe alcuna attività dialettica, ma un’apprensione  diretta del pensiero, una conquista di preziosi risultati senza l’onere delle ricerche.
(collegamento con il ragionamento sulla differenza tra vista/visione e gli altri sensi: la ricerca continua potrebbe solo essere lavoro di unione dei frammenti percepiti dalla vista).
Ma l’organismo  dello spirito umano è tale, che pensiero è tutt’uno con discorso,  cioè graduale apprendimento del vero, lavoro assiduo d’indagine e di cernita.
(necessario per la limititatezza dello strumento ottico)
Il pensiero ha sempre presente il suo nemico: il falso, l’apparente, l’irreale; epperò gl’incombe il compito di discutere e vagliare continuamente la sua opera, (…) Di qui il carattere ritmico della sua attività, che è un andare e riandare, un progredire e un riflettersi, un affermare e un negare, come momento di una più fondata affermazione.
Questo vale a spiegarci la struttura dialogica delle opere di Platone, nelle quali l’intimo colloquio dell’anima con se stessa, cioè il pensiero, si estrinseca – e si dà forma –  del dialogo, nell’evidenza dei discorsi.

Se l’attività discorsiva della mente ha il suo valore in ciò, che il pensiero non ha il possesso immediato della verità, ma deve faticosamente ricercarla, se ne deduce che filosofo non è il beato possessore della sapienza: nessuno filosofa tra gli dei, cioè tra coloro a cui si palesa la verità nella sua immediatezza.
(dunque gli dei, per restare al discorso di sopra, sono solo entità che vedeno come sentono, come odorano, come toccano; cioè la loro vista è omnicomprendente, tal che non richiede l’elaborazione di immagini frammentarie, come avviene per l’uomo. Essi vedono tutto insieme e completamente, e dunque sanno che tutto quello che vedono è il tutto, dunque è vero, perché se fosse falso non sarebbe il tutto, ma solo una parte.)
Così come per ragioni opposte nessuno filosofa tra gli ignoranti.
Il filosofo quindi è un essere intermedio tra sapiente e ignorante, a cui l’ignoranza dà la spinta alla ricerca, e la sapienza la meta, l’indirizzo al suo movinento. Questa medietas è la causa della sua attività: essa è la sua irrequietazza,  quella divina irrequietezza che lo fa scontento del sapere che possiede e sempre bisognoso di nuovo sapere e della più perfetta (possibile) adeguazione del proprio essere all’ideale della sapienza, che è la meta mai raggiunta dei suoi sforzi.
(collegamento con i limiti di Holderlin)
…  Ora, qual è il carattere di quella identità, che vince il contrasto delle opinioni, componendole in un tutto? Essa è relazione, riferimento dei contrari uno all’altro, unificazione mentale della loro pluralità. Quindi è essenzialmente concetto.

29.11.21 Relazione.
L’obiettivo dunque è definire la nostra vera forma, diversa da quella apparente che abbiamo costruito, e simile a quei giganti che Proust aveva vista nelle ultima pagine della sua vita. Esseri smisurati, con i piedi nel passato e la testa nel futuro.
Noi possiamo essere consapevoli della nostra vera forma, cioè di quella forma che ci consente di essere presenti sia nel presente che nel passato, solo attraverso la memoria involontaria (Proust, Bergson, Pavese…) o anche per mezzo dell’arte (io). Più specificamente attraverso la musica e i suoi derivati (poesia, architettura). Perché la musica è un tempo  di natura differente. Il tempo ordinario istituisce una successione, un andare sempre avanti superando ciò che si è appena raggiunto. La musica (la poesia, l’architettura) istituisce, E’, un tempo circolare, un tempo che torna da dove era partito, cioè un tempo in cui ciò che si muove torna da dove si era mosso, e in questo modo tiene insieme tutto, tutto lega, leghein.
Il divenire  dunque non è l’andare oltre i propri limiti, il farsi dio, l’elevarsi, ma è, nel suo significato originario, come Eraclito l’aveva intuito e Holderlin l’aveva codificato, la “tensione retrograda”,  l’essere spinto indietro mentre si va avanti, l’essere dentro e fuori, soggetto e oggetto, uno e tutto; cioè il compiere due movimenti opposti nel medesimo tempo, essere e vivere due stati diversi dell’essere nel medesmo tempo.
Più precisamente, il divenire inteso come tempo circolare è l’espediente che utilizziamo per sopperire alla nostra incapacità di concepire la compresenza di stati, movimenti opposti, che è la vera forma in cui esiste il reale, e dunque esistiamo anche noi.
Dunque la nostra vera essenza non esiste sul piano materiale, nella dimensione della materia e della necessità, che è il mondo rappresentato; ma esiste solo nella dimensione parallella che instauriamo nel momento stesso in cui, concependo noi stessi, instauriamo una distanza tra noi e l’oggetto dando vità alla rappresentazione della realtà e creando allo stesso tempo un interno nel quale ci rifugiamo. Cioè il mondo in cui vive colui che rappresenta, colui che compie l’azione di rappresentare, cioè di esistere.

1.12.21
Il Tutto è necessariamente vero, perché se contenesse qualcosa di falso non potrebbe essere tutto, mancando sempre il vero.
E se non fosse vero significa che dovrebbe esistere qualcosa oltre al tutto che sia vero, il che è impossibile.
Che il tutto sia vero significa che  vero è solo il tutto. Cioè che non può esistere una verità parziale, ma solo la verità per sé di una parte, che è non-verità per il tutto.
Significa cioè che una parte non può conoscere il vero, ma solo chi può percepire e comprendere il tutto può conoscere il vero.
Ma il vero non è qualcosa di misterioso, o qualcosa che salva.
E’ solo la somma di ogni non-verità parziale. La somma delle necessità di tutto ciò che esiste, perche la verità non-verità di ogni cosa non è che la sua necessità.
Se consideriamo l’essere come un Tutto, cioe per quella molteplicità di aspetti quale in effetti è,  risulta per analogia che la verità di ogni singolo aspetto dell’ essere (cioè la percezione della realtà che ha quel singolo aspetto) è una non-verità, corrispondente alla necessità di quel singolo aspetto. Esiste cioè la realtà dell’aspetto triste, la realtà dell’aspetto felice, di quello che ha fretta, di quello contemplativo, di quello che ha mal di stomaco, e sono tutte verità parziali, cioè verità di una parte, dunque non-verità, nel senso che sono tutte verità una diversa dall’altra, il che è una cosa che non si può dire, essendo la verità necessariamente  una. E dunque  questa verità, cioè la percezione della realtà come essa è veramente, non può che essere la somma  delle non-verità di ogni singolo aspetto che siamo. Il che significa che la verità, cioè la realtà, non è per noi accessibile, non essendo in grado noi, per l’ordinario, di avere coscienza unitaria della molteplicità dei nostri stessi aspetti. L’unica verità cui possiamo aspirare è una non-verità parziale, diversa per ogni nostro singolo aspetto.
Questo è anche il motivo per cui siamo portati a cercare – e spesso ahimè, a trovare – la verità fuori di noi.

3.12.21
E dunque ci voleva il vecchio prof. De Ruggiero per farmi capire Eraclito e Parmenide. La catastrofe italiana del dopoguerra è ben rappresentata dal successo editoriale e scolastico dell’Abbagnano. Uno dei pochi libri – tanti, in verità – di cui si può con certezza affermare che dopo averlo letto se ne sa meno di quanto se ne sapesse prima.

Rispetto a Eraclito: con una semplicità quasi disarmante De Ruggiero spiega il punto fondamentale del suo pensiero, che è l’originale intuizione del divenire, travisata da Platone in poi e tale rimasta: il divenire è l’unità dei contrari, che ineriscono un unico essere – non la loro identità – che non significa nulla!
E’ ovvio che l’idea del divenire fondata sulla identità dei contrari è una idea balorda: chi può accettare e condividere il fatto che la notte e il giorno siano la stessa cosa! Nessuno sano di mente.
Ma Eraclito non diceva questo. La sua originale intuizione è stata travisata con lo scopo preciso di renderla irrazionale, folle, insensata. Allo scopo di instaurare quella visione teleologica della vita necessaria al mantenimento dei privilegi di classe.
L’idea di Eraclito era  cosa completamente diversa:  la notte e il giorno sono (da contrari, cioè differenti) uniti in un essere solo e unico; fanno parte di un unico essere  (che è il giorno). Come il vecchio e il giovane, come il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente. Sono aspetti di un unico essere.
Così anche la forma della vita cambia, diventando essa quell’essere in cui il passato e il presente coesistono. Questa è la declinazione corretta del divenire, e in questa declinazione la permanenza del passato appare del tutto “naturale”.
De Ruggiero:
“Unità dei contrari, non identità di essi, e, tanto meno, dei contratìddittori: tale è il senso e il limite della dialettica eraclitea. Nota: la confusione è stata fatta da Hegel, che prendendo alla lettera alcune parole di Eraclito, ha identificato la dialettica eraclitea con la propria”.
Scrive Colli nella presentazione della sua edizione di Eraclito:
“Tutto il pensiero che viene dopo (i presocratici) dipende in qualche modo dal pensiero di quei sapienti. Sarebbe però un errore voler recuperare la sapienza greca attraverso quel che ne ha detto la filosofia posteriore: riguardo a tali parole arcaiche, molte opinioni  ancor oggi autorevoli – ma del tutto fuorvianti – derivano dalle falsificazioni aristoteliche di quel pensiero, magari riprese ed elaborate dalla storiografia hegeliana”.

Tale falsificazione ha consentito l’affermazione dell’idea del divenire come successione degli stati dell’ente, e l’instaurazione di un tempo lineare al posto del tempo circolare che scaturiva dall’idea originaria. E il conseguente potere di gestione del futuro, cioè del destino delle anime (Bloch).
Questa è la pietra falsa su cui è stata fondata la Chiesa, cioè l’Occidente.

4.12.21

Holderlin
Lettera al fratello, 17/4/1795
(…)
Vedo che avrei da dire molte cose ancora, ma mi interrompo, perché vorrei comunicarTi inoltre, per quanto sia possibile in poche parole, una delle peculiarità principali della filosofia fichtiana.
“C’è nell’uomo un tendere verso l’infinito, una attività che gli rende impossibile ogni confine come confine perenne,  impossibile ogni stasi,  e cerca invece di farsi sempre più ampia, libera e indipendente: questa attività, per suo impulso infinita, è limitata;  l’attività illimitata, per suo impulso infinita, è necessaria nella natura di un essere che abbia coscienza (di un Io, come Fichte si esprime),  ma anche la limitazione di questa attività è necessaria in un essere che abbia coscienza,  perché se l’attività non fosse limitata, se non fosse imperfetta, quell’attività sarebbe tutto,  e fuori di lei non sarebbe nulla, se dunque la nostra attività non incontrasse resistenza dall’esterno,  fuori di noi non sarebbe nulla, non sapremmo di nulla, non avremmo coscienza; se nulla ci fosse contro, non ci sarebbe per noi oggetto;  ma così come alla coscienza sono necessarie la limitazione, la resistenza e il dolore causato dalla resistenza, altrettanto necessario è il tendere verso l’infinito, un’attività, per impulso sconfinata,  nell’essere che abbia coscienza, perché se non tendessimo a essere infiniti liberi da ogni limite,  non sentiremmo neppure che quaklcosa si oppone a quel tendere, dunque di nuovo non sentiremmo nulla di diverso da noi, non sapremmo nulla, non avremmo coscienza”.  – Ho cercato di essere più chiaro possibile, nella brevità con cui ho dovuto esprimermi.
(nota: non si tratta di una citazione letterale, ma di  un riassunto della terza parte della Dottrina della scienza che era stata pubblicata solo agli  inizi di Aprile di quell’anno).

4.12.21
12.12.21 integrazioni.

Materiali sul divenire
ERACLITO


De Ruggiero
pag. 112

Eraclito è il creatore della dialettica greca, come esemplificazione  di una legge di contrasto e di armonia che domina tutta la realtà.
Da questo puto di vista si spiega il suo disprezzo pere tutto il sapere precedente che, a suo giudizio, vagava sulla suerficie delle cose senza penetrarne l’intimo sifnificato.
“La polimatia, cioè l’avere conoscenza di molte cose,  non insegna a ragionare. Altrimenti l’avrebbe insegnato a Esiodo, a Pitagora, a Senofonte e a Ecateo”.
La sua dialettica ricerca l’accordo nei contrasti, l’unità nel vario, la permanenza nel mutamento. Il tratto specifico della sua filosofia è proprio nella determinazione che il divenire si svolge tra i contrari e si alimenta nella loro lotta incessante.

La guerra (ma si può dire: l’azione di contrasto) è madre, regina e principio di tutte le cose. Una continua vicissitudine di vita e di morte forma il ritmo della realtà: il fuoco vive della morte della terra, l’aria della morte del fuoco, l’acqua della morte dell’aria, la terra della morte dell’acqua.

(Assunto fondamentale: assumiamo che i sapienti parlassero per metafore. Cosa plausibilssima e anzi evidente in tantissimi casi. Fuori dalla metafora quindi il passo precedente può essere letto in questo modo:
“Una continua vicissitudine di forze tra loro contrastanti  forma il ritmo della realtà”. Ma questa vicissitudine di forze contrastanti è tale – cioè istituisce un ritmo – solo ai nostri occhi,  solo cioè agli occhi di chi può cogliere, a causa dei propri limiti, la complessità e pluralità di relazioni che compongono il reale attraverso la griglia interpretativa causa-effetto. Cioè agli occhi dichinon può cogliere la sua reale essenza, la sua sostanziale unità nella permanenza.
L’unità della permanenza è esattamente ciò che esiste, e che possdiamo solo vedere  come pluralità nel divenire.)

Questa azione contrastante ha la sua radice nella opposizione qualitativa che è negli esseri: fuoco e acqua,  tenebre e luce, giorno e notte, inverno e estate, abbondanza e penuria, sveglio e dormiente, giovane e vecchio, umido e secco, sano e malato, unisono e dissono, essere e non essere; queste e infinite altre coppie di opposti presenta la realtà, nella sua spontanea polarizzazione.

Ma la contrarietà non basterebbe per sé sola a determinare il conflitto, se i contrari, in forza della loro natura, tendessero a distaccarsi l’uno dall’altro e a vivere isolati; bisogna dunque aggiungere alla contrarietà l’unità e la comunanza di natura, che avvicini i contrari e li spinga l’uno contro l’altro. (Fr 76). E questo in realtà si osserva nel mondo. Giorno e notte sono una e medesima cosa cioè uno stesso essere che ora è chiaro, ora è oscuro.

Uno e identico è il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente,  il giovane e il vecchio, in quanto che nel suo muoversi l’uno divien l’altro, e l’altro a sua volta l’uno. Bisogna però notare che, nei citati frammenti,  le espressioni verbali sorpassano la portata del pensiero che vi è racchiuso. Eraclito sembra affermare l’identità dei contrari, ma, di fatto, egli ne afferma solo l’unità. Giorno e notte, giovane e vecchio, non sono per lui la stessa cosa, ma cose opposte; e non si convertono uno nell’altro, bensì ineriscono nello stesso essere, creando per questo il contrasto (essendo cose opposte).
L’unità è nell’ente da cui si diramano e di cui ognuno vorrebbe essere espressione unica e totale; per esempio, nella vita, che è gioventù e vecchiezza, e diviene teatro del contrasto tra le due forze che tentano di sopraffarsi a Vicenza.
Unità dei contrari, non identità di essi, e tantomeno dei contraddittori (nota: la confusione è stata fatta da Hegel, che prendendo alla lettera alcune parole di Eraclito, ha identificato la dialettica eraclitea con la propria).

Tutto ciò che nel mondo avviene, si fa per tensioni opposte, come nella lira e nell’arco; v’è dunque un’intima concordia nell’apparente discordia, un’armonia segreta che vince la disarminia dei contrasti.  (fr 8). 
In ultima istanza, c’è una razionalità intima delle cose, che si dissimula alla vista ma si attua nel profondo, perché “la natura ama celarsi”.

(Tale armonia è appunto l’unità dell’essere, che si rivela nell’unità dei contrasti, vivo-morto, giorno-notte. Ma Eraclito non può che risolvere questa unità attraverso uno spostamento temporale, inventando appunto il divenire.  Dice infatti che giorno e notte sono una e medesima cosa, cioè uno stesso essere che ora è chiaro e ora è scuro; Ma questo essere quando è chiaro non può essere scuro, e quando è scuro non può essere chiaro. L’unità dunque non è instrinsera ma esteriore. E’ cioè un essere unitario ma formato da due parti distinte. Altra cosa è l’essere che, essendo unità intrinseca, è chiaro e scuro, giorno e notte nello stesso tempo. Solo questo è uno, e questa è la forma della realtà vera, che, come è evidente non possiamo concepire sulla base degli strumenti interpretativi che abbiamo fin qui utilizzato.)


Noi ci lasciamo colpire dalla parvenze esterne,  secondo le quali la lotta è sempre distruzione e dissipazione di forze, e immaginiamo come uno stato felice il dominio incontrastato del solo termine positivo: una giustizia senza ingiustizia, una verità senza errore ecc. Ma se questo stato potesse realizzarsi esse sarebbero soggetto a inerzia e a dissipazione; ciò che le alimenta è l’antitesi, che continuamente rinasce, dell’ingiustizia, dell’errore ecc.  E’ proprio qui la razionalità che si cela nella più riposta natura degli esseri, e che Eraclito eleva a dignità di Dio e di Logo.
(vedi Holderlin, Giovinezza di Hyperion, lettera 89 sulla filosofia di Fichte ecc.)
E’ una realtà sola infatti, uno stesso Dio, che accoglie in sé i contrari ed esprime la loro identica natura e insieme la ragione della lotta.

(Qui si rivela il limite del ragionamento. Dire che se non ci fossa una controparte negativa non potrebbe esistere la parte positiva, che si costituisce come soggetto in opposizione a un oggetto; dire cioè che un soggetto può darsi solo in opposizione ad un oggetto significa operare una scissione dell’essere necessaria ma arbitraria. Necessaria per l’impossibilità di affermare il principio di costraddizione che costraddistingue l’essenza del reale, cioè che A=B, perché A e B sono intrinsecamente uniti; ma arbitraria appunto perché non vera, cioè non esistente nella realtà, ma solo nella realtà interpretata.)

La genialità di Eraclito si rivela in questa intuizione profonda dell’uno nei più, dell’essere nel divenire, e nel presentimento del significato razionale e mentale di questa unità e realtà. La legge non ha la stabilità inerte e sterile di una natura materiale;  essa è un rapporto tra le cose, è un ordine, una proporzione, una armonia; quindi ha una realtà d’ordine  ideale e mentale.
(Collegamento con l’Umanesimo e il Rinascimento)
La sua stabilità è quella di un pensiero eterno che domina il mondo; in virtù di essa, un raggio dell’intelligenza brilla nella natura, e la vita delle creature ha un significato divino.

(Quello che De Ruggiero non coglie è quindi il carattere fittizio di questa unità, che è appunto unione di parti distinte, ma non unione intrinseca, in un unico essere, cioé in un unica sostanza, di stati differenti.)

6.12.21 Relazione
segue la relazione del 29 11.
Il divenire – cioè il mutamento di stato di un ente – è lo schema interpretativo che utilizziamo per interfacciarci con la realtà. Realtà – questa è la tesi – che è costituita dalla compresenza di diversi stati dell’ente, che solo per nostra difficoltà  si manifestano in successione, cioè in divenire.
La realtà è in permanenza pluralità di aspetti dell’essere che noi possiamo cogliere solo instaurando tra gli stessi aspetti una successione.
Semplificando: non possiamo vedere una persona triste e felice nel medesimo istante. Dunque la vedremo cambiare, e da triste che era la vedremo diventare felice. Ma in realtà quella persona è sempre triste e felice nello stesso tempo, nel senso che è quell’essere che è triste e felice. (vedi appendice del 10.12.21)
Noi non possiamo concepire la possibilità di compiere due movimenti opposti nello stesso tempo. Eraclito è stato il primo a intuire che in realtà è proprio questo che avviene.
Perché l’essere è sempre la relazionedi forze contrastanti, di stati diuversi. Se non ci fossero stati diversi e forze contrastanti non esisterebbe l’essere, che la loro unione, la loro relazione. Questo è il divenire di Eraclito e di Holderlin.
In sostanza ci sono due modi diversi di intendere il divenire: il primo, quello di Eraclito, quello originario, istituisce un tempo circolare, cioè un movimento in avanti e in-dietro, un movimento di allontanamento da uno stato e un successivo movimento di ritorno allo stato da cui ci si è allontanati. Questo tempo circolare è un tempo che riavvolgendosi su se stesso tiene insieme – in presenza – tutti gli aspetti che ha attraversato; il secondo, quello derivato dal primo ma modificato nell’essenza del significato, da Platone prima, ma soprattutto da Aristotele e definitivamente da Hegel, istituisce un tempo lineare, un movimento continuo in avanti che dimentica quello che si lascia dietro (le macerie dell’Angelo della Storia), funzionale ad una concezione teleologica della vita, al raggiungimento di un fine – la salvezza dell’anima o il mantenimento dei livelli occupazionali. Ma questo tempo lineare, che non è naturale, instaura una realtà artificiale, costringendo la vita stessa in un mondo che non le appartiene.

In questo senso “il divenire”, così come la tradizione del pensiero occidentale l’ha codificato, è il primo strumento ideologico della storia.

9.12.21
Eraclito, Gompers, Pensatori, p. 100
La grande originalità di E. non consiste nella sua dottrina circa la materia originaria, e nemmeno nella sua dottrina circa la natura in generale, ma piuttosto nell’avere egli per primo tesuto fra la vita della natura e quella dello spirito una trama di rapporti che dopo non è stata più spezzata.

La forma materiale che a lui sembra ottimamente corrispondere alla essenza stessa del processo della vita universale … è quella stessa che mai presenta l’aspetto della quiete, o anche di un movimento lento, e che appare il principio del calore vitale negli esseri organici superiori, e per conseguenza il principio stesso della animazione: il fuoco. Esso è l’elemento che a tutto dà vita e tutto distrugge:
“Questo ordine sommo di tutte le cose (cioè il mondo) non l’ha creato nessuno degli Dei, come nessuno degli uomini, ma senpre fù, è e sarà un eternamente vivente fuoco, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne”.

Per lui esso (il fuoco) è anche il principio della intelligenza universale, la norma, che si rende cosciente, di ogni esistenza; esso è tale che “non vuole essere chiamato Zeus” giacchè non è nessun essere individuo e che tuttavia “vuole essere chiamato così” perché è il supremo principio del mondo.
Costruzione e distruzione, distruzione e construzione: questa è la legge che si estende a ogni sfera della vita e della natura. Anche il cosmo, sorto dal fuoco primordiale, deve ad esso fare ritorno (!). Ciò con non altro fine di quello che il processo di differenziazione abbia nuovamente inizio, per pervenire ad un medesimo risultato finale.
La vastità di questa veduta accosta Eraclito ai maggiori scienziati dei nostri tempi.

Alla materia E. non attribuisce solo il mutamento continuo della forma e delle proprietà; egli la considera altresì in perpetuo movimento nello spazio. Tutto ciò che vive è in una vicenda di continua scomposizione e di rinnavamento.  Da ciò scaturisce la dottrina del fluire delle cose. Quando il nostro occhio percepisce qualche cosa di permanente, ciò non è che mera apparenza; ogni cosa, in realtà, è in continua trasformazione.

Le impressioni olfattive, e anche quelle visive sono prodotte da particelle materiali che incessantemente si distaccano dagli oggetti.
Quella di E. è una concezione della  natura che concorda mirabilmente con le teorie della fisica moderna, al punto che un antico ragguaglio intorno alla dottrina eraclitea concorda parola per parola con  una moderna sintetica enunciazione di queste teorie:
Aristotele: “Ci sono alcuni che che ritengono non esservi già  alcune cose che si muovo ed altre no, ma che tutte si muovono di continuo, sebbene questo movimento si sottragga alla nostra percezione”.
Lewes, Growe, Spencer: “La scienza odierna tiene per certo  che le particelle materiali siano in continuo movimento… sebbene questo movimento si sottragga alla nostra percezione”.

Col riconoscimento dell’esistenza di movimenti invisibili veniva abbattuto un muro che impediva di penetrare i segreti della natura, anche in virtù di una seconda visione: l’assunzione della esistenza di corpuscoli non solo invisibili, ma altresì indistruttibili e immutabili, di cui si costituisce ogni sostanza e che permangono sempre i medesimi in qual si voglia mutamento di forma delle masse corporee: cioè la grande conquista degli atomisti.

10.12.21
Appendice alla Relazione del 6.12.21
Si riprende dalla  nota.

– Ma in realtà egli è triste e felice nello stesso tempo. Nel senso che è quell’essere che è triste e felice.

Quindi non nel senso che è triste ora e felice dopo, ma che è triste e felice insieme. Questo è possibile perché un essere è, si pensa, ha consapevolezza di sé, sempre in maniera parziale; mai nella complessità di ciò che è veramente.
Io posso percepirmi non, solo in un momento preciso della mia evoluzione, del mio perenne mutamento, ma, solo in un aspetto preciso e limitato della complessità degli aspetti che sono. Posso vedere, e rendere manifesto, solo uno dei molti aspetti che sono. Ma gli altri esistono comunque, ed esistono contemporaneamente a quello che ho evidenziato astraendolo, il quale con il peso della presenza finisce per rappresentare erroneamente la totalità di ciò che sono.
Per questo, proprio mentre sono triste, proprio in questo preciso momento, io sono comunque quello che è anche felice, che è anche distratto, che è anche interessato a una cosa particolare, che è entusiata, che è annoiato, che è spaventato, che è fiducioso, che non si fida, che ha speranza, che s’illude, che si deprime, che prova imbarazzo, che si piace, che prova rabbia, che è comprensivo, che si preoccupa, che è sereno. Non potendo pensarmi in tutte queste e chissà quante altre cose insieme, per un limite strutturale del mio sistema di elaborazione dei dati, ho avuto necessità di inventare il divenire, il cambiamento,  giustificando la pluralità dei miei aspetti con il loro apparire in successione. Ma questo è solo uno schema di lettura, una griglia interpretativa, che serve appunto a gestire la complessità dell’essere con uno strumento funzionalmente limitato.

Dunque non posso cogliermi nella mia complessità e interezza perché la mia mente è uno strumento limitato nelle possibilità.
E’ possibile che  non sia sempre stato così.
La mia mente, nella attuale fase evolutiva, è uno strumento limitato perché e destinata prevalentemente alla codificazione dei dati proverienti dall’apparato ottico. Il quale è esso per primo limitato, in quanto capace di cogliere solo quello che ha davanti. Deve muoversi (girare la testa) per cogliere quello che sta accanto a ciò che gli sta davanti, e questo implica uno spazio temporale che istituisce una frammentazione della visione e una successione nella percezione del reale, che già come successione di segnali arriva al cervello, che dunque come successione di vedute lo codifica. La nostra mente elabora una immagine complessa per successione di immagini frammentate.  E’ già insito in questo processo la necessità del divenire.

Probabilmente in un tempo passato in cui i sensi erano tutti allo stesso modo valenti la nostra mente aveva la capacità di elaborare  segnali multidirezionali restituendo una percezione (non più solo visione) del reale più compessa.


E cosa sarebbe per esempio se fossi dotato di un apparato ottico formato da una moltitudine di occhi che mi consentisse di vedere (cioè di percepire il dato im-mediato, cioè senza mediazione) non ciò che mi sta davanti ma ciò che sta intorno a me in una sfera percettiva; cioè di vedere nello stesso istante ciò che mi sta davanti, dietro, in alto, in basso, a destra, a sinistra e in ogni singolo punto del guscio sferico di percezione al centro del quale sono situato.
Se quindi la mia mente fosse in grado di cogliere nell’istante  la totalità di ciò che la circonda in ogni direzione. In fondo è solo un problema di quantità, non di qualità. Dunque potrebbe essere possibile, e anzi forse presto lo sarà.

Una mente in grado di cogliere la molteplicità e la complessità del reale con uno sguardo, che non sarebbe più lo sguardo al quale siamo abituati ma sarebbe piuttosto una espansione inflattiva dell’essere, pargonabile cioè alla fase inflattiva che segue il big bang , avrebbe probabilmente anche la capacità di cogliersi nella sua interezza. Sarebbe quindi sempre tutto ciò che è, senza aver bisogno di far finta di cambiare.

In mancanza di ciò, come avremmo potuto cogliere l’unità dell’essere senza il divenire? L’unità dell’essere (nella molteplicità dei suoi aspetti) che conduce Parmenide alla contraddizione della negazione della molteplicità,  degradata e posta nella dimensone delle opinioni, viene interpretata da Eraclito nel nenso del divenire, e in questo modo risolta.
Cioè Eraclito risolve, attraverso il divenire, quindi attraverso il perenne cambiamento delle cose,  l’impossibilità per il nostro limitato intelletto di comprendere l’essere nella sua unità sempre presente.
Il divenire quindi è, per noi, l’unica forma possibile in cui possiamo cogliere l’unità dell’essere. E il lavoro di Cézanne sulla Montagna, che è il lavoro di una vita intera, cioè è quella vita nella sua essenza,  è il tentativo di ricondurre la molteplicità all’unità, o di rappresentare la molteplicità dell’unità. Scriveva A. Vollard:

12.12.21
Materiali su Cézanne
Doran, Cezanne, p. 9
A. Vollard:
“Nel mio ritratto ci sono, sopra la mano, due piccoli punti dove la tela non è coperta. Lo feci notare a Cézanne:  “Se la mia seduta pomeridiana al Louvre è buona”, mi rispose, “forse domani troverò il tono giusto per tappare quei bianchi. Cerchi di capire, Vollard,  se io ci mettessi qualcosa a caso, sarei costretto a riprendere da capo tutto il quadro partendo da questo punto”.”

25.21.11
Il presente sono i miei pensieri. E lo sono (presente) anche quelli pensati in passato e annotati. Leggendoli ridiventano presente. Questa è la prova semplice del fatto che il tempo non esiste, o meglio, che non esiste differenza tra passato e presente, e per conseguenza neanche tra presente e futuro. Essendo i miei pensieri di ieri, riletti e ripensati oggi, presente a tutti gli effetti, e presente di domani, cioè futuro.

26.12.21
Materiali su Cézanne
Doran, Cezanne
Borely (1902)
– Mostrarle dei tentativi? Ahimé, benché già vecchio, sono ancora agli inizi. Tuttavia comincio a capire, se così si può dire, io comincio a capire.

– Ho cercato per tanto tempo: si, cerco ancora; sono a questo punto, alla mia età! Non si stupisca dei miei discorsi sconnessi, ho qualche vuoto.

– Com’è difficile dipingere bene! Come volgersi con semplicità verso la natura? Guardi, da quest’albero a noi c’è uno spazio, un’atmosfera, d’accordo; ma poi c’è questo tronco, palpabile, resistente, un corpo… Vedere come chi è appena nato!

– Ora la nostra vista è un po’ stanca, ingannata dal ricordo di mille immagini. E poi i musei, i quadri dei musei! E le esposizioni! … Non vediamo più la natura, rivediamo i quadri. Riuscire a vedere l’opera di Dio! Questo io perseguo.

Lettera a Bernard
– Io procedo molto lentamente. La natura mi si presenta terribilmente complessa e i progressi da compiere sono incessanti.
L’arte si rivolge a un numero eccessivamente esiguo di individui.

L. Lauguier (1901-2)
Aforismi di Cézanne
XII. Per l’artista, vedere è immaginare, e immaginare è comporre.
XIII. Perché l’artista non registra le proprie emozioni come l’uccello modula il suo canto: egli compone. (in risposta a ciò che dice Monet: “Io dipingo come l’uccello canta”.
XV. L’arte è una religione. Il suo scopo è l’elevazione del pensiero.
XVI. Chi non ama l’assoluto (la perfezione) si accontenta di una tranquilla mediocrità.
XXIV. La ricerca del nuovo e dell’originale è un bisogno artificiale che mal dissimula la banalità e l’assenza di temperamento.
(frammenti eraclitei?)
XXV. La linea e il modellato non esistono affatto.  Il disegno è un rapporto di contrasti o più semplicemente il rapporto tra due tonalità, il bianco e il nero. XXX. Contrasti e rapporti di toni, ecco il segreto del disegno e del modellato.
XXXI. La natura è in profondità. Fra il pittore e il suo modello si interpone un piano: l’atmosfera. I corpi visti nello spazio sono tutti convessi.
XXXII. L’atmosfera forma lo sfondo immutabile sul cui schermo si vengono a comporre tutti i contrasti di colore, tutte le variazioni di luce.
XXXIII. Si può dunque affermare che dipingere è contrastare.
XXXIV. Non esistono né una pittura chiara né una pittura scura, ma semplicemente rapporti di tonalità. Quando queste sono messe in modo giusto, l’armonia si stabilisce dal sola.
XXXVI. L’artista non distingue direttamente tutti i rapporti: li sente.
XLI. …Dipingere non è copiare servilmente l’oggettività: è cogliere un’armonia tra molti rapporti, e trasporli in una propria gamma sviluppandoli secondo una logica nuova e originale. (traduzione dubbia)
Da Bernard (1904-1906) pag. 66
“Avevamo appeso alla parete  una piccola natura morta di cézanne che avevo acquistato a Parigi da almeno 15 anni. Gliela mostra. “E’ proprio brutta”, disse. “E sua – risposi – e io la trovo decisamente bella”.  “Dunque questo ammirano adesso a Parigi? – replicò – Ebbene, il resto deve essere molto mediocre!” A Cézanne non piaceva che gli si parlasse di lui. (…) Non c’era affettazione nel suo modo di fare, solo la certezza che quanto aveva fatto fino ad allora non era che l’inizio di ciò che egli avrebbe prodotto, se fosse vissuto ancora a lungo. “Faccio qualche progresso ogni giorno – mi diceva – questo è l’essenziale”.
(…) Parecchie volte rimasi interdetto per ciò che mi mostrava affermando che stava progredendo, perché lo trovavo inferiore a ciò che avevo visto in precedenza. Si sarebbe visto con chiarezza quando fosse arrivato alla conclusione del lavoro, ma raramente ci arrivava. Siccome aveva un modo di lavorare molto lento, spesso accadeva che il suo quadro restasse interrotto nel bel mezzo;  ho visto molti paesaggi che non erano abbozzi, non erano studi,  ma solo gamme di colori iniziate e che il tempo aveva interrotto.  C’era una quantità di motif, di cui non era neppure coperta integralmente la tela.

29.12.21
Cominciati oggi gli studi di metrica, necessari per avvalorare e contestualizzare una delle idee di base che costituiscono la mia ricerca: e cioè che il verso istituisce una dimensione temporale differente da quella istituita dal parlare ordinario, che è  la dimensione del tempo in cui tutto torna. Nel senso che attraverso l’esposizione del ritmo del verso il tempo torna dove era partito, tenendo così insieme tutto quello che nel suo farsi è avvenuto.
Questo tempo ciclico è l’Eterno Ritorno, che non è il ritorno del passato, ma il ritorno dei pensieri e dei sentimenti – cioè di tutto il sentito – del passato, e non è neanche ritorno, perché i pensieri e il sentito del passato non sono mai andati via;
ed è anche l’eternità come l’intendeva Spinoza, cioè la pienezza della vita;
ed è, infine, quello che voleva dire Holderlin, quando diceva che poeticamente abita l’uomo.  E cioè che l’uomo abita solo in un tempo ciclico, cioè abita solo un tempo in cui tutto (sottoforma di pensieri e sentimenti) torna.
Tempo ciclico che è, e può essere solo il tempo del verso, cioè il tempo istituito istituito dal verso, e in questo senso l’abitare può essere solo poetico: cioè abitare poeticamente significa darsi le condizioni per  permanere nel tempo ciclico, che è il tempo reale dell’essere.
Questo oltre al tempo del verso è anche il tempo della musica, anzi lo è prioritariamente, nel senso che dalla musica tutto discende, sia il verso, che è appunto un pensare sotto forma di musica, che l’architettura, cioè un organismo edilizio conformato secondo misure e proporzioni armoniche ricavate dalla musica, nel quale ogni elemento entra in risonanza con gli altri, costringendo appunto il tempo a tornare sempre da dove era partito, e rappresentando in questo modo plasticamente l’unita del Tuttto. Questo è il Duomo di Pavia; questo sono le Cappelle Medicee. Ma questo è anche, fatte le debite proporzioni, la Robie House, o questo era, per altra via e con altri mezzi, Casa Miller. Naturalmente  non ogni casa può essere una architettura. Ma ognuno di noi,  dal momento in cui inconsapevolmente si costituisce come soggetto,  comincia a costruire la propria casa interiore, che è l’unico vero luogo in cui il soggetto vive, indipendentemente dal luogo fisico in cui materialmente si trova. Abitare poeticamente dunque significa acquisire questa consapevolezza, cioè significa cominciare ad abitare nella propria casa interiore.
Tuttavia delle condizioni materiali devono darsi, e quando queste si perdono tutto diventa più difficile. Ogni casa infatti, pur non essendo una architetttura, dovrebbe, per la sua conformazione (spazi fisici dedicati all’inutile, cioè metriquadri non redditizi, oggi inconcepibili), e per la sua permeabilità (permanenza delle storie nelle incrostazioni dell’intonaco e nei graffi del pavimento, oggi inconcepibili),  consentire quella stratificazione dei giorni trascorsi che, essendo appunto visibile nel presente sottoforma di trasformazione (ingiallimento, invecchiamento)  della materia, conferisce al presente stesso una diversa consistenza, trasformandolo in quella dimensione del reale che non è statico e vuoto permanere ma parvenza di altro, che è o che è stato e che appunto attraverso quella parvenza permane. Trasformando cioè il presente nella permanenza di ciò che solo apparentemente è passato.
Bisogna cioè che la casa possa invecchiare, e questo non è più possibile, non solo perche non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (tutto sia lucido e pulito: questa è l’etica del modernismo);
bisogna che la casa contenga spazi all’apparenza inutili, ma che si riveleranno preziosi per contenere (e nascondere) “scatole dei bottoni”, e questo non è più possibile e non solo perché non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (nessun centimetro deve essere sprecato!);
ma semplicemente perché nel moderno modello sociale conformato sulle esigenze del moderno modello produttivo non esiste più la casa, ma esistono solo alloggi, come già nel 1945 Adorno aveva già detto, e vengono i brividi a pensare a quanto oltre, rispetto ad allora, siamo andati; cioè non esiste più la famiglia, quell’organismo sociale che può nascere solo per conseguenza (e in virtù) della possibilità per un nucleo di persone di permanere stabilmente in un luogo.
L’abitare poetico, e quindi la possibilità di esperire il tempo reale dell’essere non è più possibile appunto perché non è più possibile l’abitare, che etimologicamente significa avere un abito, cioè un abitudine, cioè una abitazione, che è la condizione in cui si ha un’abitudine: un darsi le condizioni per cui si manifesti una abitudine: un avere frequestazione di sé: dunque un “avere se stessi”. Cioè non si può essere pienamente, dunque essere nella sua pienezza (l’eternità di Spinoza), se non si ha se stessi. La lingua esprime con immediatezza quello che pareva impossibile da definire e invece è del tutto evidente. Perché se non si ha se stessi , non si è di se stessi, ma di qualcun altro. Dunque schiavi.

Macioce, La metrica italiana:
“Il verso è l’unità elementare della poesia; il suo ritmo, in origine, era legato a quello della musica, a cui la poesia si accompagnava, ma poi ha acquistato la sua autonomia. Il suo nome (dal latino vèrtere = voltare) deriva dall’uso di scriverlo andando a capo e indica anche un ritorno ciclico del ritmo.”

29.12.21

Da Zeller, Eraclito.

Volendo definire l’essenza di una cosa si deve distinguere “fra ciò che appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartega solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata relazione.” Zeller sta parlando di come eraclito non si ponga neanche il problema di spiegarsi come sia possibile che in uno stesso oggetto convivano stati opposti. Egli spiega questa posizione adducendo il fatto che al tempo di Eraclito ancora la logica non era sviluppata. Ma allora Parmenide?
In realtà Eraclito non tenta di spiegarsi il problema perché per lui è un fatto normale che in uno stesso oggetto convivano tensioni opposte. Come lo è per noi oggi, o meglio come dovrebbe essere per noi oggi. E quindi, ciò che appartiene a una cosa in sé, e ciò che appartiene a una cosa in relazione ad un’altra sono sempre appartenenze della cosa, che le mostra in relazione al contesto, e che quindi appare diversa in relazione al contesto mostrando ciò che il contesto richiede. Lo stesso vale per ciò che le appartiene contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, essendo la successione delle competenze solo una successione di risposte, e quindi una successione di mostramenti di diversi aspetti di sé. E vale anche, per gli stessi motivi fra ciò che le spetta in senso assoluto e ciò le tocchi in una determinata relazione.

La portata delle affermazioni e delle proposizioni di Eraclito è rivoluzionaria ancora oggi. Dire che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini distinguono tra giusto e sbagliato è di una radicalità a tutt’oggi non accettabile. Significa infatti dire che ogni cosa è giusta al suo posto.
Mi chiedo: Nietzsche, che arrivò a dire le stesse cose dopo una serie di interminabili battaglie, conosceva Eraclito? Avrebbe dovuto, vista la data delle prime traduzioni tedesche. E come è possibile che non ne faccia cenno?

3.1.22
L’espressione di quel che esiste è un compito infinito.

(Cézanne)

6.1.22
De Ruggiero
II. I Sofisti.
(…) La rapida  ascensione democratica nel 5° secolo ha per effetto la radicale rielaborazione e trasformazione delle basi stesse della vita, e particolarmente della vita pubblica. Ormai il costime e l’autorità non valgono più a dare un fondamento stabile alla costituzione e alla funzione dei pubblici poteri, ma sorgono principii e criteri nuovi, in conformità dei nuovi ordinamenti. Se, con l’avvento della democrazia, spetta al popolo, riunito nelle assemblee, di decretar le leggi, è certo che queste non possono più trarre il loro prestigio dalla tradizione e dal costume, e quindi in ultima istanza dalla divinità, del cui volere sono depositarie; ma dall’arbitrio stesso degli uomini, contemperato dalle necessità della coesistenza civile. Così l’individuo che, nell’antico regime, era schiavo di un potere trascendente, ora comincia a sentire la propria autonomia e libertà, la propria efficienza umana e immanente nelle cose; e quindi instaura quel senso umanistico della vita, che prima era paralizzato da una trascendenza invincibile. Questa infatti vigeva non soltanto nel principio informatore dell’antica civiltà; essa non era una formula filosofica astratta (come l’interpretazione moderna del termine potrebbe far supporre); ma era incorporata nella sostanza stessa delle leggi e delle norme, di cui eclissava ogni significato umano. Essa infatti si manifestava nella legge, come supremazia, della parola o della formula,  anteposta allo spirito, o anzi divenuta per sé sola spirito; mutare il rito, mutare la formula non era concesso agli uomini, perché né rito né formukla erano sorti per opera loro, ma soltanto per opera divina, e sarebbe stata empietà abominevole disfare quel che gli dei avevano fatto.  Ma acquistando una coscienza nuova della legge – e l’acquistano solo quando essi fanno la legge –  gli uomini spezzano la rigida trascendenza della parola; questa non è più la parola detta e fissata per sempre, ma l’espressione mutevole e contingente del proprio pensiero, il mezzo per far prevalere la propria opinione nei comizi, la vera forza dell’individuo di fronte alle masse.

(Dunque è da duemilacinquecento anni che la parola non significa più nulla! Prima era la parola di dio, segno trascendente della sua esistenza. Ora è parola di chi grida più forte, o di chi è più abile a parlare. Quindi Nietzsche non ha ucciso nessuno. Dio era morto da tempo).

La parola esce dal tempio e invade la piazza; da privilegio dei sacerdoti diviene conquista delle scuole oratorie, e da formale in senso aristocratico diviene formale, direi quasi, in senso democratico, come forma per se stessa coltivata per rivestire e abellire qualsiasi contenuto, e anzi come mezzo quasi estrinseco perpotenziare ogni contenuto di pensiero. I nuovi maestri della parola sono i sofisti.
(…)
Così, negato al diritto il fondamento naturale della autorità e della tradizione, che ne sono la vera forza, resta, come sua unica fonte,  la convenzione degli uomini; come unico fine, l’utilità dei più forti.
Convenzionale è il diritto, non solo come diritto privato ma anche come diritto pubblico e punitivo; il meccanismo della votazione e promulgazione delle leggi annulla, con la sua spiegazione apparente, ogni ragione ideale del diritto e delle leggi, che è insitra nell’idea stessa e non già nelle sue esteriori manifestazioni. Quindi, in ultima istanza, l’equità e la giustizia travolte anch’esse nel vortice dell’apparenza, assumono il carattere di un arbitrio convenuto dalle maggioranze: “ciò che a ciascuna città pare giusto e bello, tale è per essa”.

7.1.22
Fine dell’Atlante. Marco Aurelio.
Tutto può toglierci la morte tranne quello che non abbiamo mai avuto; quello che non siamo.  Ed è questa la nostra ricchezza e la nostra salvezza!  Perché se siamo ciò che non abbiamo, o se abbiamo ciò che non siamo, la morte non può toglierci nulla.

06.2.22
Dunque il divenire potrebbe essere per Eraclito l’essere che è tutto ma che mostra sempre aspetti diversi di se?

Zeller: Ma l’errore fondamentale della maniera dominante di rappresentarsi le cose consiste, secondo E. in ciò: che essa attribuisce alle cose una stabilità dell’essere e quindi un valore che ad esse non compete, invece di veder in esse solo le fuggevoli apparenze di un’essenza che tutte le genera e le riprende in sé,  e si mantiene come l’unica permanente nel cambiamento incessante. (il cambiamento delle cose è solo dunque fuggevole apparenza, cioe un mostrare sempre aspetti diversi dell’unica essenza che tutto comprende, cioè è il fatto di poter vedere noi, per nostri limiti, solo un aspetto e soltanto uno per volta della totalità dell’essere.)

In verità non c’è nulla di permanente al di fuori di essa nel mondo ma tutto è coinvoltto in un mutamento ininterrotto17 (dunque solo l’essenza è permanente, ma viene percepita da noi nella forma della mutevolezza degli aspetti) come una corrente nella quale sempre nuove onde scacciano le anteriori18; e che con ciò E. non abbia affermato solo la transitorietà di tutti gli esseri particolari, ma dichiarato che ogni persistenza durevole di una cosa  è un’illusione, ci è espresso, oltre che da tutti gli altri nostri testimoni, a partir da Platone e Aristotele, anche da Eraclito stesso nel (50) modo più inequivoco19.

(questa è la radicale inversione del pensiero di Eraclito, che invece considerando il cambiamento come divenire degli aspetti fuggevoli  affermava la permanenza dell’essere che tutto in se contiene! Esattamente come Pamenide)


Niente resta ciò che è, tutto trapassa nel suo contrario, tutto proviene da tutto, tutto è tutto. Il giorno è ora più breve, ora più lungo, e così anche la notte; il caldo e l’umidità si scambiano; il sole è ora più vicino ora più lontano. Il visibile trapassa nell’invisibile e l’invisibile nella visibilità; l’uno entra nel posto dell’altro, l’uno perisce per opera dell’altro; il grande si nutre del piccolo, il piccolo del grande. Anche riguardo all’uomo, la natura al tempo stesso gli prende certe parti ed altre glie ne dà; lo fa più grande in quanto glie le dà e più piccolo in quanto (53) glie ne prende; e le due cose avvengono insieme20.

(54) Giorno e notte sono la stessa cosa21, ossia un unico essere che ora è luminoso, ora è oscuro22;  salutare e funesto23, sopra e sotto24, principio e fine25, mortale (61) e immortale26 sono la stessa cosa.  (qui Eraclito dice chiaramente che esiste un essere unico che contiene tutti gli opposti)
Malattia e salute, fame e sazietà, fatica e riposo coincidono; la divinità è giorno e notte, estate e inverno, guerra e pace, abbondanza e scarsità; tutto è uno, tutto diventa tutto27.
Dall’essere vivente proviene il morto, e dal morto il vivente, dal giovane il vecchio e dal vecchio il giovane, dal desto il dormiente e dal dormiente il desto; la corrente della generazione e del trapasso non si arresta mai; l’argilla di cui son fatte tutte le cose viene modellata in sempre  nuove forme28. Su questo incessante movimento si fonda tutta la vita e il sentimento della vita29; solo in esso consiste essenzialmente l’esistenza delle cose.
Ma questo movimento è solo apparente, rispetto all’essenza che tutto contiene.

Mentre dunque Parmenide nega il divenire per tener fermo il concetto dell’essere nella sua purezza, Eraclito viceversa nega l’essere per non derogare alla legge del divenire. Mentre quegli dichiara la rappresentazione del cangiamento e del movimento una illusione dei sensi, questi dichiara tale la rappresentazione dell’essere permanente; mentre quegli trova fondamentalmente errata  la comune maniera di pensare in quanto ammette il nascere e il perire, questi giunge a una conclusione altrettanto sfavorevole fondandosi sulle ragioni opposte.

L’inversione interpretativa quindi con Zeller è compiuta.

Sul presente.
Zeller: se tutto si cambia ed esiste solo in questo cangiamento, allora tutto è un che di mezzo tra due opposti, e quale che sia il punto che si possa prendere nel flusso del divenire, sempre si ha solo un punto di passaggio e di confine, nel quale si toccano proprietà e stati opposti.
Questo è il presente. Posto cioè che il cangiamento sia solo percezione forzata delle diversità degli aspetti uno per volta, tale cangiamento (apparente) continuo prococa comunque un flusso del divenire che si manifesta nel presente, (il cambiamento degli aspetti), cioè il presente  è un che di mezzo tra due opposti, il modo nel quale si toccano proprietà e stati opposti, che sono tali secondo l’interpretazione corrente, ma che in realtà sono aspetti diversi dello stesso essere.

Tutta la vita della natura è un avvicendarsi ininterrotto di stati e fenomeni opposti, ed ogni cosa singola è, o meglio diviene ciò che è, soltanto attraverso un inesauribile insorgere di opposizioni, fra le quali essa medesima sta nel mezzo.
L’inesauribile mostrarsi delle opposizioni non è che il nostro modo di percepire l’essere attraverso apparenti inesauribili opposizioni che in realtà sono la nostra possibilità di percepire un ente che è tutto in sé, che contiene tutte le opposizioni ma che noi possiamo cogliere per via logica solo come successione delle stesse e dunque come soggetto ad un perenne mutamento.

06.02.22
Il divenire è il sogno dell’assenza, di ciò che non possiammo essere.
E’ il nostro sogno dell’universo.
Sempre andando avanti nella ricerca aumenta la confusione, perché quello che avevo scritto alla luce dei nuovi progressi deve essere riscritto. E piani sempre differenti e nuovi si creano, cioè luoghi di relazione tra idee, che prima non esistevano e che a loro volta danno vita,  cioè nei quali si formano, idee diverse.

Questa è l’impossibilità di riuscire a tenere insieme tutto, l’annuncio della tragedia.
Dunque è  la morte la tragedia? Il perdere tutto? No, la tragedia è la vita, perché Tutto l’abbiamo già perso, e nella sua assenza e nel suo ricordo dobbiamo vivere.
La tragedia è consapevolezza:  Cézanne: “La vita è spaventosa”.

Allora cos’è propriamente tragico? Il fatto di poter sentire un senso di appartenenza alla natura, ad ogni cosa sulla terra, cioè alla Terra, e di poterlo sentire solo nel monento in cui da essa ci si distacca, diventando Soggetto.

Cioè percepire un senso di appartenenza solo nel momento in cui si crea una distanza tra il Sé che si sente di essere e il Tutto a cui si vorrebbe appartenere. Solo nel momento in cui non se ne fa più parte. Senso che fino a quando si faceva parte del Tutto, ma inconsapevolmente, non si avvertiva.
Il fatto tragico dunque consiste nel desiderare di essere ciò che si era ma non si è più, né si può tornare ad essere.
E solo attraverso l’arte, per il tempo breve del godimento estetico, o nel breve tempo della memoria involontaria, si può provare di nuovo questo senso di appartenenza. Passando poi tutta la vita ad evocarlo.

Questo discorso, cioè questa sequenza di pensieri, si sovrappone e si confonde al discorso sul passato. Ma solo apparentemente.
Pensare infatti il passato come continua presenza di ciò che  è accaduto, significa considerare noi stessi come totalità vivente (nel senso di ancora in presenza)  di tutto ciò che abbiamo fatto e provato. E quindi come permanente potenzialità di tutto.
Riusciamo ad avere questa consapevolezza per il tempo breve della memoria involontaria, o nel ricordo puro stimolato dai segni dell’arte. Gli stessi segni che sono capaci di farci provare ancora quel senso di appartenenza al Tutto (che sentiamo in quanto l’abbiamo perduto).  In quel preciso momento colleghiamo noi stessi al Tutto, e lo facciamo istituendo un piano temporale idoneo, il piano temporale nel quale noi siamo noi stessi nel nostro Tutto e nel Tutto di cui facciamo parte! Due enti qualsiasi infatti possono entrare in relazione solo se condividono lo stesso piano dimensionale. Che però è un piano temporale –ecco la differenza che mette in difficoltà la mente logica – essendo il tempo lo spazio della relazione (cioè una relazione non avviene in un luogo, ma in un tempo).  La nostra essenza cioè condivide lo stesso piano temporale del Tutto, e solo quando riusciamo a portarci (grazie ai segni) dentro quel piano riusciamo ad avere cognizione della nostra essenza e insieme dell’essenza del Tutto. Perché la nostra essenza e l’essenza del Tutto sono la stessa cosa: dissolvimento nella relazione di tutto con tutto. Dissolvimento assoluto nella conoscenza assoluta.
Essere Tutto e quindi Tutto sapere perché Tutto si accoglie, e da Tutto ci si lascia attraversare, non avendo più alcun Sé che dal Tutto ci divide.

Dunque avere consapevolezza della nostra essenza (l’interezza della nostra vita nella sua reale dimensione temporale in cui il passato è sempre presente e ogni futuro è sempre possibile),  significa avere consapevolezza di essere parte del Tutto che in ogni momento accade, cioè si manifesta, tutto intero nel momento particolare, un universo in un attimo.  
Sempre Cézanne: “C’è un minuto del mondo che passa. Bisogna dipingerlo nella sua realtà.”
Significa cioè avere consapevolezza, in quanto se ne è parte, del fluire della vita. Noi, in quanto fluire del nostro tempo passato nel nostro tempo futuro, siamo fluire, cioè movimento di relazione, del Tutto nel Tutto. Cioè del venire in essere della vita. Che propriamente un venire non è, perche non proviene da un luogo altro, ma è semplicemente il farsi; il farsi continuo della vita.

I due discorsi, quello sul passato e quello sul Tutto, dunque non possono confondersi,  semplicemente perché non sono due. Ma sono uno e lo stesso.

7.2.22
L’armonia per Zeller Moldolfo Eraclito è unione degli opposti che dall’Uno derivano  e nell’Uno confluiscono.
Per me invece Armonia è il modo di rapportarsi (composizione) di forme (enti) che mattendoli in relazione li cambia facendoli diventare segni -> simboli di qualcos’altro. Cioè le cose messe in relazione con Armonia cambiano la loro stessa natura diventando qualcosa che va oltre ciò che erano prima.

Armonia (Treccani)
E’ una delle due inseparabili manifestazioni della tonalità, cioè dell’ordine dei rapporti fra suoni di varia altezza. Quando i suoni si combinano simultaneamente ha luogo l’armonia; invece quando si combinano in successione ha luogo la melodia.  Perciò l’armonia è la scienza delle combinazioni musicali simultanee. C’è chi vi scorge i suoni combinati in ordine di spazio, ovvero di combinazione verticale, mentre nella melodia is suoni si presentano in ordine di tempo,  o di combinazione orizzontale. In pratica, spesso armonia vale accordo,  ossia singola combinazione di suoni contemporanei.
( che producono un suono diverso da quello che i signoli suoni, singolarmente suonati, producono. Per qesto i singoli suoni si trasformano diventando, insieme agli altri, cioè nella relazione con altri, cosa diversa.)

Composizione (musica) Treccani
Se, genericamente, comporre significa, come si trova scritto in tutti i lessici, mettere insieme, comporre musica vorrà dunque dire mettere insieme suoni differenti. Non però, un suono sopra l’altro, ma uno di seguito all’altro; ché, infatti, un accordo da sé (un accordo, che è appunto la risultante e l’effetto di più suoni posti uno sull’altro) non dice ancora nulla, e non acquista valore, significato,  espressione, se non in rapporto  all’accordo che lo precede e, quando non sia stato un accordo conclusivo, a quello che lo segue.
Comporre musica è dunque mettere insieme suoni differenti, siano essi multpli, cioè accordi, o singoli; armonia, cioè, o melodia.

Allo stesso modo, in un verso il modo degli accenti produce una armonia che fa suonare le parole insieme facendole diventare qualcos’altro, cioè poesia. Mentre il parlare discorsivo è paragonabile alla melodia, cioè a una sequenza di suoni disposti uno dopo l’altro, in successione. L’armonia è l’accordo, il suono è il canto. Il canto è il tempo ordinario, l’accordo è il tempo che tiene insieme cose diverse.

8.2.22
Perdere la vita non significa smettere di vivere, ma vivere lasciando che la vita si perda. Quanta essenza vitale dissipata in esseri che di umano non hanno più nulla, neanche la sostanza!

15.2.22
Ognuno dovrebbe avere un posto in cui stare, il proprio posto. Ma se dedichi la tua vita a costruire o a mantenere il posto in cui stare, il tuo stare sarà servito solo a quello.
Il mio stare è sempre stato uno stare in cerca di qualcos’altro che il dato mediato (da qualcuno o da qualcosa): cioè il dato im-mediato,  che però non si può dire così, perché se è im-mediato non può essere dato (da qualcuno o qualcosa che – appunto – operi una mediazione), ma può solo darsi, senza interposizione di nulla, e cioè non solo dell’aria, per esempio,  ma neanche della più piccola frazione di spazio o di tempo. Quindi l’oggetto della ricerca, dello stare nella ricerca, è ciò che si dà senza mediazione. Ma ciò che può darsi senza mediazione è solo ciò che si ha.
Inoltre niente può darsi che non venga compreso. Cioè la cosa (l’ente) si può dare (un ente può darsi) solo nella misura in cui la nostra sensibilità è in grado di coglierla. Un ente può dare di sé solo ciò che la nostra sensibilità è in grado di cogliere. Quindi lo stare in cerca non è di qualcosa che è fuori di noi, ma di quello che noi possiamo cogliere di ogni cosa. Di quello che di ogni cosa possiamo sapere; e lo possiamo sapere perché già lo siamo.
La ricerca quindi è ricerca del limite della nostra potenzialità. Cioè: del limite della nostra anima.
Ma il limite dell’anima, per quante strade tu possa percorrere, non lo puoi trovare, tanto profondo esso è, dice Eraclito.  Mentre Lao Tzu dice che per conoscerlo non devi guardare fuori dalla finestra, o uscire fuori dalla porta. Perché tanto più lontano vai tanto meno puoi sapere. Entrambi dicono la stessa cosa.
Dicono cioè che il limite dell’anima non si può trovare, semplicemente perché non esiste.  Il limite è lì dove sei arrivato, ma è un limite che domani supererai, per portarlo oltre. Non c’è un limite fisico dunque alla potenzialità, cioè alla capacità di conoscenza dell’essere delle cose, ma solo una necessità; cioè la necessità, ad un certo momento, di dover interrompere il lavoro. Non concluderlo, quindi, perché non c’è alcun traguardo da raggiungere, ma interromperlo, per sopraggiunta necessità. Si tratta quindi di compiere un lavoro che non può avere un esito, il che rappresenta una aporia, una contraddizione in termini, la contraddizione fondamentale, perché ogni lavoro è finalizzato al raggiungimento di uno scopo. Ma è una contraddizione solo apparente, è la falsa contraddizione dell’Occidente, quella contraddizione, cioè su cui l’Occidente fonda il suo dominio. Perché  invero anche questo lavoro, apparentemente inconcludente, cioè che non può raggiungere una conclusione, invece ha uno scopo preciso: che non è appunto quello di concluderlo, cioè di raggiungere l’obbiettivo che ci si era prefissati, di raggiungere un traguardo; ma il suo esatto contrario: cioè quello di portare tale traguardo sempre più avanti. Spingere il confine tra ciò che ci è noto e ciò che rimane oscuro, sempre più in là.
Se stare, cioè esistere, dunque significa non stare in cerca del limite della tua anima, ma portarlo sempre più in là nella direzione della cognizione, della apprensione, del fare proprio, di essa, non puoi avere una casa, perché hai bisogno di muoverti.
Hai bisogno cioè di seguire ogni più piccola traccia, aprire ogni porta che si svela, che si manifesta, che appare;  percorrere ogni direzione che anche soltanto si mostri in nuce, cioè nel suo farsi. Anzi, è proprio percorrendola che la direzione si forma, e quindi coglierne il getto vitale e farlo crescere. Solo in questo modo, cioè esperendo ogni più piccola possibilità di esperienza, facendo vivere e crescere ogni più piccola forma del tempo, dandole spazio, puoi portare più in là il limite della tua anima, cioè puoi portarti più avanti – ma non nel senso di oltre, oltre il punto cui già eri giunto; bensì nel senso di “qualcos’altro” rispetto a quello che già eri. E quindi, essendo tutto ciò che puoi conoscere già parte di te, conoscere qualcos’altro di quello che sei.
Per questo non puoi avere una casa, che sarebbe una casa che ogni giorno dovrebbe essere ampliata, ristrutturata, cambiata nella forma e nei colori, per adeguarsi a quello che ogni giorno diventi, che è qualcos’altro rispetto a quello che il giorno precedente eri.
Un ricovero per le tue cose, un luogo di silenzio, di luce e di ombra.  Solo questo ti serve. Una condizione, cioè, nella quale fare crescere la casa che sei; quella casa dalla quale la tua anima, che sempre spingi avanti, può muovere.

16.02.22

23.02.22

LIMITI DEL BERGSONISMO


Bergson, Il pensiero e il movente.
p.6:
Fummo in effetti molto colpiti dalla  constatazione che il tempo reale sfugga alle scienze  matematiche. Poiché la sua essenza consiste nel passare, nessuna delle sue parti è ancora lì quando un’altra si presenta. La sovrapposizione di una parte sull’altra in vista della misura è dunque impossibile, inimmaginabile, inconcepibile.
Non c’è dubbio che un elemento convenzionale rientri in ogni misura, ed è raro che due grandezze considerate uguali, siano direttamente sovrapponibili fra loro. Occorre, inoltre, che la sovrapposizione sia possibile per uno dei loro aspetti o dei loro effetti, il quale conservi qualche cosa d’esse: questo effetto, questo aspetto, sono allora ciò che si misura. Ma, nel caso del tempo, l’idea della sovrapposizione implicherebbe un’assurdità,  perché ogni effetto della durata che fosse sovrapponibile a se stesso, e per conseguenza misurabile, avrebbe per essenza di non durare.

(Qui il discorso perde un po’ in efficacia. Ho pensato, per esplicarlo meglio, a questo esempio: non posso misurare l’effetto dello spostamento di una mano in un secondo. Cioè non posso misurare lo spazio esistente (la distanza) tra la posizione iniziale della mano e la sua posizione finale, dopo un secondo; perché quando la mano è nella posizione finale non è più nella posizione iniziale, dunque non ho alcun riferimento spaziale che posso utilizzare per prendere la misura. Fissare un segno, nella posizione iniziale della mano, per confrontarlo e quindi misurarlo con la posizione finale della mano significa operare una alterazione nella dimensione dell’esperienza, una discontinuità nel flusso temporale (interrompendolo nei due momenti) che nella realtà non esiste, proprio perché la mano non può essere dove era prima, essendo dove è ora. Misurare gli effetti di ciò che nella durata esiste, cioè di ciò che esiste nel mondo reale, ci conduce su un piano inesistente, virtuale, cioè mentale, esistente solo nella nostra mente. E tuttavia è per noi inevitabile, essendo noi votati, creati per l’operatività.
Non bisogna dimenticare la differenza tra il mutamento dell’essere come lo intende Bergson, e il mutamento dell’aspetto dell’essere, come lo intendo io)

Noi sapevamo bene che la durata si misura mediante la traiettoria di un mobile e che il tempo matematico è una linea; ma non avevamao ancora considerato che questa operazione è in contrasto radicale con tutte le altre operazioni di misura, perchèù essa non si realizza su di un aspetto o un effetto rappresentativo di ciò che si vuole misurare, ma su qualche cosa che l’esclude. La linea che si misura è immobile, il tempo è mobilità. La linea è qualcosa di fatto, il tempo è ciò che si fa, ed anche ciò che fa che tutto si faccia.
Giammai la misura del tempo attinge la durata in quanto durata: viene contato soltanto un certo numero di estremità d’intervalli, o di momenti,  cioè tutto sommato degli arresti virtuali del tempo.

Il ruolo della scienza (ma forse si dovrebbe intendere scienza come attività del conoscere, come intelligenza)  è di prevedere. Del mondo materiale essa estrae e considera ciò che è suscettibile di ripetersi e di essere caklcolato, dunque ciò che non dura. Non fa altro, così, che seguire la direzione del senso comune, il quale è un inizio di scienza: correntemente, quando parliamo del tempo, noi pensiamo alla misura della durata, piuttosto che alla durata stessa. Ma questa durata, che la scienza elimina, che è difficile concepire ed esprimere, la si sente e la si vive.
(perché è difficile concepirla ed esprimerla? Perché è diventato difficile concepirla ed esprimerla?)
Cos’è la durata per una coscienza che vuole viverla senza misurarla? E come se ne può avere cognizione? Bisogna che la coscienza prenda se stessa come oggetto. E questo è quello che comunemente si definisce “vita interiore”.
Ben presto individuammo l’insufficienza della concezione associazionistica dello spirito. Questa concezione, comune allora alla maggiorparte dei filosofi e degli psicologi, era l’effetto di una ricomposizione artificiale della vita cosciente.

Che la scienza positiva si fosse disinteressata della durata, niente di più naturale, pensavamo: la sua funzione, forse, è precisamente di strutturarci un mondo in cui possiamo, in vista dell’azione, ignorare gli effetti del tempo (: sarebbe stato più corretto dire: ignorare la natura del tempo.)
Ma la filosofia di Spencer, dottrina dell’evoluzione, fatta per seguire il reale nella sua mobilità, nella sua maturazione interiore, come aveva potuto ignorare il mutamento stesso?
(Limiti della filosofia dell’ottocento, e non solo di quella di Spencer)
Passando in rassegna i sistemi  constatavamo che i filosofi non se ne erano affatto occupati. Nel corso della storia della filosofia tempo e spazio sono considerati allo stesso rango e trattati come cose dello stesso genere. Si studia lo spazio, se ne determina la natura e la funzione, poi si estendono al tempo le conclusioni ottenute. La teoria dello spazio e quella del tempo si rimandano così reciprocamente. Per passare dall’una all’atra è bastato cambiare una parola: si è sostituito giustapposizione con succesione.
(questo passaggio è fondamentale: non viene colta da B.  la possibilità, l’intuizione alla quale pure si era avvicinato: basta estendere in concetto di giustapposizione al tempo, e non allo spazio, per concepire la natura reale del tempo, e quindi del passato. Cioè la concezione che è alla base della mia ricerca. Il tempo non passa, ma ogni avanzare del tempo si affianca a quello già presente, in una giustapposizione che non ammette direzioni, ma solo estensione. Tutto l’equivoco nasce dall’assimilare gli stati della coscienza al tempo, pensare cioè che gli stati della coscienza si succedano come le giornate, o la varie fasi della giornata; pensare cioè che la coscienza segua il percorso del sole. Ma come il sole sta sempre fermo, allo stesso modo la coscienza non passa, non evolve nel senso del mutamento. Semplicemente, come la terra, gira su se stessa.
I nostri cambiamenti, quello che noi percepiamo come nostro cambiamento, é come il movimento apparente del sole e delle stelle: siamo noi che mostriamo (portiamo fuori) aspetti sempre diversi di noi ma che fanno tutti parte di noi, aspetti diversi della molteplicità di aspetti che siamo e che conteniamo. Siamo noi che, girando su noi stessi, cioè portando fuori ciò che la condizione esterna richiama, ci mostriamo agli altri sempre diversi, sembriamo cambiare.)

Dalla durata reale ci si è distolti sistematicamente.  Esaminando le dottrine ci sembrò che il linguaggio vi avesse giocato un grande ruolo. La durata si  esprime sempre come estensione. I termini che designano il tempo sono mutuati dalla lingua dello spazio. Quando evochiamo il tempo, è lo spazio che risponde all’appello. La metafisica ha voluto conformarsi alle abitudini del linguaggio, le quali a loro volta si regolano su quelle del senso comune.

( : è vero che il linguaggio costringe il pensiero entro ambiti che gli impediscono di cogliere la reale essenza del tempo, ma non al livello segnico, rispetto cioè alla capacità delle singole parole di richiamare, dare vita, definire, l’oggetto che nominano , ma al livello della capacità di percezione. La parola estensione è adatta a definire la durata, come la parola permanenza è adatta a definire la natura del tempo. E’ la percezione fondata sulla selezione e sull’associazione di fenomeni simili e unidirezionali, mutuata dal linguaggio, che impedisce di percepire la reale essenza del tempo. )

Ci apparve che una delle funzioni dell’intelletto era proprio quella di nascondere la durata, sia nel movimento che nel mutamento.
Rispetto al movimento l’intelligenza non prende in considerazione che  una serie di posizioni: prima rintraccia un punto, poi un altro, poi un altro ancora. Si obbietta all’intelletto che tra questi punti succede pur sempre qualcosa? Subito esso inserisce nuove posizioni, e così di seguito indefinitamente.

Se noi insistiamo, fa sì che la mobilità, sospinta in intervalli sempre più ristretti man mano che aumenta il numero delle posizioni considerate, arretri, si allontani, sparisca nell’infinitamente piccolo. La nostra azione non si esercita vantaggiosamente che su punti fissi: è dunque la fissità che la nostra intelligenza cerca; essa si domanda dove il mobile è, per dove passa.

Da qui a non vedere nel movimento che una serie di posizioni, non vi è che un passo; la durata del movimento si decomporrà allora in “momenti” corrispondenti a ciascuna delle posizioni. Ma i momenti del tempo, e le posizioni del mobile, non sono che istantanee prese dal nostro intelletto sulla continuità del movimento e della durata.  Con queste vedute giust’apposte si ottiene un succedaneo pratico del tempo e del movimento che si piega alle esigenze del linguaggio, in attesa di prestarsi a quelle del calcolo; ma non si ha che una ricomposizione artificiale. Il tempo e il movimento sono altra cosa.
Diremo altrettanto del mutamento.
L’intelletto lo decompone in stati successivi e distinti considerati invariabili.

Come non vedere tuttavia che l’essenza della durata è di scorrere, e che affiancare immobilità a immobilità non porterà mai a nulla che duri? Ciò che è reale non sono gli stati, semplici istantanee prese da noi, ancora una volta, nel corso del mutamento; è al contrario il flusso, è la continuità della transizione, è il mutamento stesso. Questo muta,mento è indivisibile, e anche sostanziale. Se la nostra intelligenza si ostina a considerarlo inconsistente, è perché esaa lo ha sostituito con una serie di stati giustapposti; ma questa molteplicità è artificiale, e artificiale è anche l’unità che vi viene ristabilita.
Non vi è qui se non unaspinta inisterrotta di mutamento – di un mutamento sempre aderente a se stesso in una durata che si prolubnga senza fine.


La metafisica data dal giorno in cui Zenone ‘Elea segnalò le contraddizioni inerenti al movimento e al mutamento, così come se li rappresenta la nostra intelligenza. Lo sforzo principale dei filosofi antichi e moderni mirò a superare e ad aggirare queste difficoltà sollevate dalla rappresentaqzione intellettuale del movimento e del cambiamento attraverso uno lavoro intellettuale sempre più sottile.  E’ così che la metafisica fu condotta a cercare la realtà delle cose al di sopra (al di fuori) del tempo, al di là di ciò che si muove e muta, al di fuori, quindi di ciò che i nostri sensi e la nostra coscienza percepiscono.

(una metafisica vera quindi deve cercare la realtà delle cose al di qua di ciò che i nostri sensi e la nostra coscienza  percepiscono, cioè cercando dentro di noi (e non fuori) la vera essenza delle cose.)

Da allora in poi essa non poteva più essere che una sistemazione più o meno artificiale dei concetti, una costruzione ipotetica. Pretendeva oltrepassare l’esperienza; non faceva in realtà che sostituire all’esperienza mobile e piena, suscettibile di un approfondimento crescente, e perciò gravida di rivelazioni, un estratto pietrificato, disseccato, svuotato, un sistema di idee generali astratte, tratte dalla stessa esperienza o piuttposto dai suoi strati superficiali.
Tanto varrebbe dissertare sull’involucro da cui si libererà la farfalla e pretendere che la farfalla che vola, che muta, che vive, trovi la sua ragion d’essere e il suo compimento nella immutabilità della membrana.  Distacchiamo, al contrario, l’involucro. Risvegliamo la crisalide. Restituiamo al movimento la sua mobilità, al mutamento la sua fluidità, al tempo la sua durata.  Può darsi, così, che i grandi problemi irrisolti restino sulla membrana.  Essi non riguardavano né il movimento né il mutamento né il tempo, ma solamente l’involucro concettuale che noi prendevamo, sbagliando, per questi ultimi. La metafisica diventerà allora l’esperienza stessa. La durata si rivelerà per quello che è, reazione continua, zampillio ininterrotto di novità.

02.03.22
Bergson riprende Eraclito e ne riafferma l’importanza, la verità, sull’imbroglio razionalista dell’occidente. La differenza sostanziale consiste nel fatto che B. ritiene che l’Essere muta continuamente. Io invece ritengo che l’Essere mostri continuamente aspetti diversi di sé.
L’armonia è l’Essere che si pensa nella sua pienezza.

In Eraclito l’armonia non è un fatto estetico, non è una regola attraverso la quale si compongono stati diversi dell’Essere nell’Unità.
Per  Eraclito la ricomposizione di tutte le cose è una conseguenza del flusso cosmico, è una legge di natura per la quale ogni cosa si scompone nei suoi elementi e in questo modo torna a far parte del Tutto.

05.03.22
Sulla natura dell’Essere
Eraclito – Zeller
8. Il principio di contraddizione.
(p. 123)Per queste affermazioni, Aristotele ed i suoi commentatori accusano Eraclito di negare il principio di contradizione 63;  autori moderni invece lo lodano d’aver riconosciuto per primo l’unità dei contrari e l’identità di essere e non essere, e d’averne fatto il fondamento del suo sistema 64. Se non che non è esattamente giusta né l’una cosa né l’altra – né che vi si vegga un difetto, né che vi si vegga un pregio.
Il principio di contraddizione sarebbe oppugnato da Eraclito solo nel caso che egli affermasse  che le determinazioni opposte possano convenire allo stesso soggetto non solo al tempo stesso, ma anche sotto lo stesso rapporto.
Ma egli non afferma questo: osserva bensì che un unico  e stesso essere assume le forme più opposte e che in ogni cosa sono congiunte le più opposte condizioni e proprietà, fra le quali essa si libra come alcun che in divenire;  ma non dice che esse qualità opposte gli convengano sotto un unico e stesso rapporto, e non lo dice senza dubbio perché non s’è ancora affatto chiesto come si comporti a tale riguardo questa determinazione che , a nostra scienza, fu presa in esame solo da Platone ed Aristotele 65.
Ma d’altra parte egli ha parlato altrettanto poco dell’unità degli opposti, dell’unità di essere e non essere in questa forma universale, ed essa non discende neppure così direttamente dalle sue sentenze;  poiché c’è la sua differenza fra il dire che un solo e stesso essere sia luminoso e oscuro, giorno e notte, ed un solo e medesimo processo siano il nascere e il perire, etc., e il dire invece che fra giorno e notte, essere e non essere come tali non ci sia alcuna differenza; in altre parole, affermare la coesistenza degli opposti nello stesso soggetto, oppure la loro identità. Solo la prima affermazione risulta dagli esempi che Eraclito per conto suo adduce, ed egli non aveva neppure alcun motivo per andare più oltre, perché non si occupava di logica speculativa ma di fisica 66.
Solo non si dovrà perciò attenuare la sua proposizione 67 supponendo che egli debba aver detto soltanto “la stessa cosa mostra o contemporaneamente, se è posta in relazione con parecchie altre in una volta, o successivamente, se è posta di fronte sempre a una cosa sola, ma variabile, proprietà assai diverse”. Non lo si dovrà quindi neppur erigere a fondatore della dottrina della “relatività delle qualità” 68. Eraclito dice bensì (vedi sotto) che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini ritengono giusta una cosa e ingiusta un’altra; ma egli non vuole con ciò dichiarare che la differenza fra giusto e ingiusto abbia un valore puramente relativo, bensì vuole opporre la sapienza divina alla ristretta visione umana, che non s’accorge che tutto nel mondo è buono al suo posto 69. Egli osserva anche che ciò che è salutare per l’uno è fatale per l’altro (vedi sopra); ma ciò che ne conclude non è la proposizione che l’azione salutare o rovinosa di una cosa indichi un’unica e sola relazione di essa con le altre cose, ma l’opposto, cioè che la cosa sia in sé stessa entrambe le cose, salutare e distruttiva al tempo stesso 70.
Anzi, è proprio caratteristico del nostro filosofo e della mancanza di tecnica logica, di cui egli non è il solo esempio al suo tempo 71, il fatto che egli rimanga fermo al pensiero generale che ogni cosa abbia in sé proprietà opposte e non si proponga invece ancora il problema sotto quali condizioni e in qual senso sia possibile questa coesistenza degli opposti, e quindi neanche arrivi a rispondervi con la distinzione fra ciò che appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartenga solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata relazione.

(discutibile interpretazione d Zeller: “non si dovrà perciò attenuare la sua proposizione 67 supponendo che egli debba aver detto soltanto “la stessa cosa mostra, o contemporaneamente, se è posta in relazione con parecchie altre in una volta, o successivamente, se è posta di fronte sempre a una cosa sola, ma variabile, proprietà assai diverse.
Non lo si dovrà quindi neppur erigere a fondatore della dottrina della “relatività delle qualità” “

Forse invece si!  Le motivazioni addotte da Zeller per non erigerlo a fondatore della dottrina della relatività delle qualità non sono così pregnanti: “Eraclito dice bensì che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini ritengono giusta una cosa e ingiusta un’altra; ma egli non vuole con ciò dichiarare che la differenza fra giusto e ingiusto abbia un valore puramente relativo, bensì vuole opporre la sapienza divina alla ristretta visione umana, che non s’accorge che tutto nel mondo è buono al suo posto”,  ma questo non sembra essere pertinente al discorso della relatività delle qualità. Poi si contraddice: “Egli osserva anche che ciò che è salutare per l’uno è fatale per l’altro (vedi sopra); ma ciò che ne conclude non è la proposizione che l’azione salutare o rovinosa di una cosa indichi un’unica e sola relazione di essa con le altre cose, ma l’opposto, cioè che la cosa sia in sé stessa entrambe le cose, salutare e distruttiva al tempo stesso 70.”
Quindi la cosa ha qualità diverse, ovvero mostra di avere qualità diverse perché diversi enti colgono di essa diversi aspetti.
Zeller ritiene che Eraclito
 rimanga fermo al pensiero generale che ogni cosa abbia in sé proprietà opposte e non si proponga invece ancora il problema sotto quali condizioni e in qual senso sia possibile questa coesistenza degli opposti, e questo perché egli non si occupa di logica ma di fisica. Zeller, cioè ritiene Eraclito un fisico, interpretazione smentita dalle ricerche posteriori (vedi la nota 65 di M.).
Forse Eraclito non si pone il problema perché non lo ritiene un problema. Come egli stesso dice di seguito Eraclito infatti non fa differenza fra
ciò che appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartenga solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata relazione. Perché quello  che appartiene a una cosa in sé stessa è ciò (è la stessa cosa di ciò) che le appartiene solo (cioè di volta in volta, e perciò ogni volta in maniera apparentemente diversa)in relazione ad un’altra; e ciò che le appartiene contemporaneamente è la stessa cosa di ciò che successivamente (in successione) mostra; e ciò che le tocca in una determinata relazione non è che ciò che del suo assoluto l’altra parte riesce a cogliere.
Sembrerebbe che anche per Eraclito l’essere sia Uno e immutabile, come per Parmenide. E allo stesso modo: per Parmenide i cambiamenti che si manifestano attraverso il divenire sono “interpretazione”, sono ciò quello che della cosa ognuno vede; per Eraclito sono diversi aspetti dello stesso ente che si mostrano in momenti differenti.
Sia in Parmenide che in Eraclito l’unità dell’Essere che si manifesta attraverso il divenire, e quindi il confluire del tutto nell’uno che sempre è, rimane un fatto fisico, una regola generale della Natura.
Questo si vede particolarmente in Eraclito, per il quale l’armonia non è un fatto estetico, non è una regola attraverso la quale stati diversi di un ente si  possono comporre in una unità,  ma piuttosto una necessità di natura, in virtù della quale ogni cosa fluendo, cioè compiendo il suo percorso, si scompone nei suoi elementi (il fuoco che diventa acqua che diventa terra, che torna ad essere acqua e diventa di nuovo fuoco) e in questo farsi torna a far parte del tutto.)

9. L’armonia.
(127) Ma per quanto sia necessario che tutto si dissolva in opposti, altrettanto necessario è che gli opposti tornino a riunirsi nell’unità, poiché ciò che più è opposto nasce dall’uno e medesimo, è un essere unico che nel corso delle sue mutazioni procrea gli opposti e torna a distruggerli, che in tutte le cose genera se stesso e nel gioco delle azioni contrastanti conserva il tutto come uno 72. In quanto si separa da (133) sé, si unifica con se stesso 73;  dalla lotta (opposizione!) nasce l’esistenza, dalla opposizione la connessione, dalla disuguaglianza l’accordo; dal tutto viene l’Uno 74; tutto si sottomette alla divinità per l’accordo della totalità; anche il disuguale si unifica qui  a produrre l’uguaglianza; anche ciò che appare un male agli uomini è per essi un bene 75; e da tutto risulta quella occulta armonia del cosmo, alla quale non può essere paragonata la bellezza del visibile 76. Questa è la legge divina, alla quale tutto è sottoposto 77, la Dike di cui nulla al (140) mondo può infrangere il decreto 78, il destino o la necessità (145) da cui tutto è dominato 79.

Nota 72.
Approfondimento del frammento 67 D
Dio e le opposizioni in D 67.
Le molte discussioni già svolte e tuttora in corso su questo framnento sono giustificate dall’importanza che gli va riconosciuta nell’espressione del pensiero Eracliteo. Esso determina infatti il rapporto tra l’Uno  (Dio) e la molteplicità (serie degli opposti), indicando in Dio la fonte da cui si dispiegano tutte le opposizioni e al tempo stesso il centro in cui tutte rifluiscono a unità e si identificano mutuamente: anticipazione del rapporto complicatio ed explicatio che fra Dio e la realtà unversale affermeranno nel rinascimento  Niccolò da Cusa e Giordano Bruno. (M.)

Resta il fatto che l’armonia così intesa non ha nulla a che fare con la regola armonica. E’ solo una metafora per indicare la necessità che tutto si ricongiunga nell’uno.

Sul  Logos eracliteo vedi la nota di Mondolfo pp. 152-161.

06.03.22
Zorzi, Proemio
Ora, poiché è assai esiguo il numero degli illuminati in grado di cogliere quella luce fulgida, ritengo che quanti desiderano ricevere l’illuminazione debbano essere guidati attraverso i sentieri che predispongono alla percezione della luce suprema. Questi sentieri conducono, senza dubbio, attraverso le realtà visibili alle realtà invisibili di Dio, per mezzo di un legame armonico di affinità, che esse intrattengono reciprocamente, in consonanza perfetta.

10.3.22
Il duplice aspetto tragico dell’essere:  non poter concepire la complessità dei propri aspetti nello stesso tempo, dunque non potersi cogliere nella propria essenza, ma solo in maniera parziale, attraverso apparenti cambiamenti di stato;
non poter vivere, analogamente, la complessità degli aspetti del reale, che corrispondono alla complessità degli aspetti dell’essere, nel senso che si chiamano l’uno con l’altro, uno produce/induce l’altro reciprocamente;
ma dover esperire ogni aspetto singolarmente, doverne esperire cioè uno per volta, e poterne esperire uno soltanto, dovendo quindi  operare delle scelte laddove non ci sarebbe bisogno di scegliere;
dover scegliere e quindi dover assumere un abito tra gli infiniti che siamo, rinunciando a frequentare gli altri.

12.03.22
Bergson, Pensiero e movente, Olschki,  p. 12:
“… Essi non sembrano farsi alcuna idea di un’azione che sia interamente nuova e che non preesista in alcun modo alla sua realizzazione, neanche sottoforma del puro possibile.”
Essi sono i filosofi, anche quelli che ammettono il libero arbitrio, ma confinato tra possibilità date. Mentre per Bergson  la realtà dell’Essere, cioè ciò che ogni Essere è veramente, è continua creazione di azioni interamente nuove proprio perché è una realtà che deriva, viene prodotta,  dal continuo mutamento, dalla continua evoluzione dell’essere, concepito come un flusso continuo di essenza che dal passato plasma il futuro attraverso l’interazione col presente, e le cui fasi continuamente si compenetrano in una crescita interiore.
E tuttavia la faccenda è più complicata; perché mentre Bergson considerava il passato come parte del flusso di qualcosa che comunque era già compiuto e definito, il passato in realtà è sì compiuto, ma non definito, nel senso di concluso; esso permane, sempre in fieri, cioè sempre nel formarsi dell’azione. Qualsiasi cosa fatta nel passato cioè rimane nel suo farsi,  proprio come se ancora la stessimo facendo. Questa permanenza comporta una continua rielaborazione e riedizione  dello stesso gesto, sempre tuttavia mutato dal mutare delle condizioni di contorno, che ne causano una sempre diversa interpretazione. In questo senso si può dire a ragion veduta che il passato cambia.
Quello che ho fatto in un qualsiasi momento del passato, che già non avevo capito bene cosa fosse nel momento in cui l’ho fatto, col passare del tempo, e col mutare delle condizioni, e quindi col cambiare del pensiero nelle cose pensate e nel modo di pensarle, cambia  per conseguenza esso stesso nella sua propria natura, e cioè anche nel suo aspetto materiale, diventando cosa diversa da ciò che era quando è stata compiuta.
Il fatto che il passato cambi esso stesso produce una moltiplicazione di piani di relazione tra le cose, le azioni, i sentimenti, i pensieri, per cui succede che il futuro non è più prodotto, esito, delle infinite possibilità di combinazione di cose accadute nel passato, quanto piuttosto di cose accadute nel passato che cambiano continuamente,  instaurando in questo modo diversi piani dimensionali corrispondenti ad ogni cambiamento, in cui le stesse combinazioni producono effetti diversi. Una immanenza di piani dimensionali alternativi, che esistono tutti contemporaneamente e che mutano e continuano a moltiplicarsi senza sosta, al variare di ogni singolo aspetto.

Questo può produrre non soltanto azioni interamente nuove,  ma nuove anche oltre ogni nostra possibile previsione, perché non derivanti dalla relazione tra aspetti noti e definiti, ma tra aspetti che mutano in  maniera evidentemente per noi non registrabile al livello quantitativo. Ma solo al livello della differenza qualitativa, dello scarto di tono rispetto a ciò che è noto, di cui abbiamo fatto o pensato esperienza. Ponendoci così nella condizione di rilevare la presenza di cose che prima non esistevano; creando quindi le condizioni perché accadano (cioè possiamo cogliere) cose intrinsecamente nuove. Non nuove combinazioni di cose già date, ma cose nuove nella propria natura.

E tuttavia e anche vero che l’Essere in realtà non cambia, non muta mai.
Che i continui cambiamenti di cui facciamo esperienza sono in realtà aspetti diversi dello stesso Essere, cioè aspetti diversi che l’essere mostra di sé in relazione al mutare delle condizioni esterne.
Che il divenire non è che lo strumento di pensiero che abbiamo messo a punto per gestire l’unità e la completezza dell’Essere,  che non possiamo cogliere, perché non possiamo concepire il fatto che stati differenti di tensione coesistano, cioè esistano nello stesso Essere nello stesso tempo, cosa che in realtà accade: si pensi al fotone. Abbiamo necessità quindi di istaurare una successione fittizia.

Sembra esistere quindi una contraddizione tra l’essere che continuamente muta, dando vita a forme radicalmente nuove di sé, e l’Essere, lo stesso Essere, che però non cambia mai, essendo tali apparenti cambiamenti solo il nostro modo di rappresentarcene la complessità e la pienezza, l’interezza.
Tale contraddizione può essere risolta ammettendo che ogni forma nuova, pur risultante dalla combinazione di relazioni nuove che si instaurano tra cose nuove, tuttavia deriva sempre da un originario sostrato rappresentato da ciò che l’Essere è, è stato, potrebbe essere,  potrebbe essere stato, avrebbe potuto essere,  avrebbe potuto essere stato. Cioè comunque da aspetti dello stesso Essere, che quindi, anche cambiando, rimane sempre uguale a se stesso.
Ma la contraddizione in realtà è solo apparente, e deriva dal fatto che la questione è malposta. E’ sbagliato infatti dire che l’Essere è immutabile, perché esso, come abbiamo visto, muta in continuazione, pur non cambiando la sua natura,  e questo perché è nella sua natura di mutare, essendo la sua natura di instaurare un tempo esteso, nel quale dunque il mutamento è  inevitabile; ma è un mutare che non cambia la sua natura, perché in qualsivoglia modo potrà mutare, non potrà che rimanere comunque all’interno delle sue potenzialità, cioè nell’ambito delle sue necessità. Rimarrà sempre comunque L’Essere che è. Bisogna quindi dire che lo stesso Essere muta in continuazione negli aspetti secondari, secondari in quando nati dalle relazioni di  aspetti primi; i quali invece non possono mutare, essendo gli aspetti che ne costituiscono l’essenza.

Ma è vero anche che tali cambiamenti degli aspetti secondari sono cosa differente rispetto ai cambiamenti apparenti di stato. Tali cambiamenti apparenti sono, come prima detto, interfacce differenti dello stesso soggetto, che dunque, in questo senso, cioè a questo livello di relazione, non muta, ma mostra solo parti differenti, visioni parziali di quell’unità che è. I cambiamenti degli aspetti secondari sono invece cambiamenti a tutti gli effetti, prodotti dalle continue, nel senso di permanenti, relazioni in essere tra diversi aspetti dell’Essere, e dalle conbinazioni da queste prodotte. E’ su questo piano che il divenire comunemente inteso esiste, e dispiega le conseguenze del suo esistere. Ed è su questo piano che il divenire è reale. Ma diversamente da come viene comunemente inteso, quello che il divenire dell’Essere produce non è cambiamento, bensì crescita. Il termine infatti è stato usato in maniera impropria. Per Eraclito il divenire è l’esito (che produce un  cambiamento) dello scontro tra forze, enti , stati opposti. Ma l’Essere non diviene in quanto esito di uno scontro tra opposti. L’Essere diviene nel senso di una crescita, cioè aggiunge  quello che è diventato oggi a quello che era ieri. Non produce in questo modo qualcosa di nuovo, ma  accresce, aumenta, quello che già era.
Pensare la complessità dell’Essere dunque significa cominciare a distinguere tra l’aspetto primario che ne costituisce l’Essenza, che è ciò che l’Essere sempre è stato e sempre è; colui che corrisponde al suo nome; aspetti secondari che nascono dalle diverse combinazioni che derivano dalle relazioni tra l’aspetto primario e tutto ciò che esiste e ci circonda così come noi lo percepiamo e lo circoscriviamo, e quindi in buona sostanza

dalla relazione e dalle conseguenze che questa produce, dell’aspetto primario con ogni nostra azione, percezione, interpretazione, con ogni nostro pensiero, dunque con ogni singolo secondo della nostra esistenza; aspetti secondari che quindi mutano in continuazione, costituendo il flusso perenne dell’esistenza; e che quindi possiamo definire ciò che dell’essere muta, nel senso – come dicevamo prima – che si accresce;  e infine i mutamenti apparenti, che appunto non sono veri mutamenti, ma semplicemente interfacce diverse che l’Essere mostra, o meglio prodotte dall’incontro tra determinati aspetti dell’Essere e determinate condizioni esterne.
Tutti questi aspetti coesistono, cioè sono sempre presenti. Per questo si può dire che l’Essere sempre diviene, ma mai muta.

L’essere  dunque è colui che risponde quando si chiama il suo nome, cioè quando viene nominato; ed è quindi colui che nomina. E’ ciò che si comunica nella sua lingua, cioè ciò che di sé comunica. L’essere comunica nella lingua ciò che di sé può essere comunicato.
Ma il suo aspetto primario  non corrisponde a ciò che viene comunicato; perché l’Essere nella sua assoluta interezza  è qualcosa di più di quello che si può comunicare, non solo di quello che è comunicabile, ma soprattutto di quello che si vuole comunicare.
L’Essere nel suo aspetto primario è ciò che non vuole essere comunicato, che non vuole essere nomiato e non vuole nominare, perché in questa distanza egli è: egli è questa distanza.

L’Essere nel suo aspetto primario è dunque la distanza che egli con la sua presenza pone rispetto all’altro da sé, a ciò che egli non è.
Egli cioè si manifesta nella distanza che pone tra sé e tutto ciò che è altro da sé, che da sé è fuori.
Perché non vuole comunicare?  Perché per comunicare deve portrare fuori una parte di sé, e portandola fuori la perde. Questo è il senso dell’indovinello  che i ragazzi posero a Omero e che Omero non seppe risolvere: quello che prendiamo lo perdiamo; quello che non prendiamo lo portiamo con noi.
Per questo egli comunica solo ciò che è secondario, cioè ciò che deriva dall’esperienza, dunque qualcosa che nasce dopo aver portato fuori qualcosa.
Questo voleva dire Platone quando, nella settima lettera, diceva che  con la scrittura si trasmette solo ciò che non è importante: quando si vedono cose scritte di qualcuno, si deve concludere che queste non erano per l’autore la cosa più seria; e che queste cose più serie riposano nella sua parte più bella.
Il che va inteso in senso più generale: l’Essere non comunica ciò che per lui è veramente importante. L’Essere dunque è ciò che non si comunica.




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