APPUNTI
Gli appunti sono ordinati partendo dai più vecchi per arrivare agli ultimi. In questo modo si può andare avanti guardando indietro.
Sono continuamente aggiornati, sia nel passato che nel futuro.
23/10/2013
Un corpo celeste “galleggia” nel vuoto perché si costituisce come un centro di
forze da esso stesso generate che in senso centripeto convergono verso il suo
nucleo. Così il presente esiste perché si costituisce come centro di tutte le
cose successe che da tutte le direzioni possibili (passati e futuri) convergono
verso il suo esserci in questo momento, cosa che noi chiamiamo
“presente”.
11/10/2013
La tecnica per sé non serve a nulla: esiste solo per servire un’idea. E’
facilmente imparabile, ma soprattutto è intercambiabile, perché solo l’idea è
importante. Infatti la stessa idea può essere resa con tecniche diverse, quando
non con diverse forme artistiche.
Una poesia può essere un dipinto, che può essere una architettura, che può
essere una musica.
10/10/2013
Riflessioni sul Paradiso Terrestre.
Intanto il valore del mito, come rappresentazione paradigmatica della vita,
valida per popoli divesi e tempi diversi, capace cioè di porsi al di fuori
della cultura di una sinfgola società per assumere valore universale. Poi il
senso della mela.
La mela non è il frutto proibito, né il simbolo della conoscenza, come pensavo
un tempo. Ma è lo svilimento della vita
umana ad opera del capitale, dell’economia industriale, del consumo fine a se
stesso, del commercio, di tutte quelle attività insomma che ci hanno condotto
al punto in cui siamo, cioè ad essere schiavi ora come siamo sempre stati. La
mela è l’Occidente; il Paradiso Terrestre è la possibilità di un modo diverso
di vivere in Occidente – Michelangelo.
24/09/13
Se avessi il tempo di fare tutti i disegni che voglio fare non avrei voglia di
farne alcuno.
8/8/13
Agrigento (?)
La scrittura e la sovrascrittura.
La scrittura è il testo base. La sovrascrittura è un testo applicato, – sovrapposto, affiancato, mescolato – al testo base che aggiungendo e sottraendo qualcosa ne consente differenti interpretazioni. Il risultato è una scrittura aumentata.
Nella Casa Miller ciò viene messo in pratica in maniera esemplare. La scrittura è la divisione dell’ambiente più grande in due aree distinte, una di studio, con una scrivania e un mobile libreria, e una di soggiorno, con il tappeto che costituisce l’area della discussione e i divani. Questo è il testo base: una unica stanza è divisa in due ambienti che hanno lo stesso peso, e possono essere usati uno per volta. Il percorso curvilineo della lampada appesa al soffitto, che può scorrere da un ambiente all’altro, fino a sparire nel disimpegno, istituisce delle relazioni differenti tra gli stessi ambienti, e consente una esperienza che va oltre il fatto fisico dei due ambienti. Posizionata sul tavolo, o sui divani, darà più peso e importanza all’una o all’altra delle due zone, ne cambierà le dimensioni, ingrandendo l’una e rimpicciolendo l’altra. Posizionata in corrispondenza del soggetto ne faciliterà l’isolamento; posta sul lato opposto gli consentirà di vivere lo spazio della stanza per intero, oltre la sua reale dimensione. E’ come se il suo percorso fosse disegnato su un foglio di carta lucida e applicato sul disegno della stanza, indicando in questo modo la possibilità di modificarne lo stato e la dimensione.
Allo stesso modo possiamo considerare il presente come il risultato della lettura di diversi fogli di carta lucida sovrapposti. In questo senso il presente è solo una delle letture possibili del testo sovrascritto.
Fine Luglio,
2013, Milano
– Cos’è un giardino?
– Uno dei mezzi a disposizione dell’uomo per accedere al Grande Risveglio – ovvero
alla conoscenza della realtà che sta oltre il sogno.
Abbiamo cominciato a usare le immagini quasi per gioco, con divertimento e
meraviglia. Chi ci ha detto che siamo capaci di usarle? Non sapevamo, quando
abbiamo iniziato, l’immenso potere che stavamo per liberare, un potere
incontrollabile, che stravolge la mente dell’uomo e lo conduce alla follia.
Esiste una realtà oltre il sogno. C’è la realtà che percepiamo e interpretiamo
col pensiero. C’è il sogno, che è una realtà alterata perché percepita e interpretata
con pensieri che si formano secondo regole altre, o senza regole. E infine c’è la realtà oltre il sogno, quel
luogo dell’universo in cui i pensieri e le forme coincidono.
(Il che significa che sei quello che vedi. Dunque sei tutto. Nota
10/2021)
24/07/2013
Milano.
I miei ricordi non sono complementi di arredo.
24.6.14
15.6..2014
La narrazione della pluralità di direzioni è inescrivibilità del fluire del
presente.
15.6.2014
Se anche il fatto di dire che la grandi narrazioni hanno esaurito il loro
compito, e il riconoscerle come narrazioni – cioè come interpretazioni
ideologiche funzionali al conseguimento di uno scopo – si costituisce esso
stesso come narrazione, funzionale a configurare nuovi assetti di consumo, significa che una narrazione vale l’altra.
Posto cioè che anche il racconto della mancanza di narrazioni – e dunque
dell’esistenza di un universo caotico e casuale in cui la realtà è
inevitabilmente una visione antropomorfica del reale, che quindi
sfugge ad ogni criterio di qualificazione – si configura come strumento
ideologico funzionale ad una nuova ed avanzata fase del capitalismo, non più
“neo”, ma a questo punto “ultra”, giunti dove siamo, non potendo resuscitare
Dio, possiamo almeno pensare a buon diritto che proporzioni e rapporti
dimensionali armonici possano avere valore simbolico e rimandare ad una
moralità dell’essere nel mondo, che anche se solo culturale, cioè
convenzionale, tuttavia illumina l’oscurità quantistica di una luce che
nient’altro può produrre.
E quindi, potendo scegliere tra la narrazione del Guggenheim di Gehry e quella
della Rotonda di Palladio scegliamo quest’ultima, che ci parla di un mondo che
al pari dell’altro non esiste, ma della cui bellezza, se esistesse, non
potremmo che andare fieri. (modifica 2017)
09.08.15
Come si manifesta una poetica minimalista:
(Il racconto del minimalismo: dalle case dei contadini alla casa di Eumeo, a Loos)
1) Presenza di arredi essenziali, nella funzione e nella forma.
2) Utilizzo di materiali naturali o composti con materie prime di origine naturale e con tecniche tradizionali.
3)Evitare il pensiero ridondante, quando cioè il pensiero ritorna sul suo “oggetto” ripetute volte, ogni volta aggiungendo qualcosa e facendogli perdere in questo modo immediatezza.
L’immediatezza ci ricorda/richiama la necessità, e la necessità la naturalità.
Questo processo si può in altro modo chiamare “retorico”, cioè un parlare che diventa fine a se stesso. Cioè un applicarsi che, perso di vista il fine per cui si aplicava, diventa piacere di effettuare una prestazione.
Il piacere di effettuare una prestazione deve essere identificato con il buon esito dell’adoperarsi, non con lo svolgimento della prestazione in sé.
L’Ulisse dantesco (Cacciari), sapendo di cercare cosa irraggiungibile, cercava per cercare – e non per trovare.
Cercare per cercare significa perdere di vista il fine e concentrarsi sul fare, sul mezzo, che in origine aveva lo scopo di trovare.
Cercare per cercare succede quando l’oggetto della ricerca è posto oltre la possibilità di trovarlo.
Dunque cercare solo quello che si può trovare? Ma se fatti non fummo a viver come bruti?
Differenza di atteggiamento tra il cercare quello che si può trovare e il cercare quello che si sa di non poter trovare.
Cercare qualcosa che si sa di non poter trovare significa sfidare la natura, voler andare oltre noi stessi, oltre i nostri limiti, considerati come imposizione.
Perché desidero superare i miei limiti? Perché li considero limiti.
Cioè: non accetto la mia debolezza, l’ambito ristretto nel quale i miei sensi possono operare, l’insufficienza della capacità analitica del mio pensiero, il degradamento progressivo del corpo, non accetto il fatto di non capire quello che mi circonda. Ma perché?
Perché sono pazzo. Perché voglio sapere il perché e il per come di tutte le cose, e tutte le cose voglio vivere, voglio essere io.
Ma cos’è uno che vuole sapere una cosa sapendo di non poterla capire?
E’ uno che ha una spinta. Che ha un’impulso (vedi dagli umanisti a Holderlin, Schiller, i romantici, Nietzsche).
Questa spinta a superare il limite è la scintilla di Dio (Ficino). E’ cioè una spinta a innalzarci (Holderlin), a diventare qualcos’altro. Illusi dalla capacità di poter potenziare i mostri mezzi e i nostri strumenti di ricerca grazie alla tecnica, pensiamo che nulla può sfuggire, nulla può nascondersi alla nostra sete di sapere.
E’ inevitabile che questo essere, smisurato nelle forme, nelle dimensioni e nelle conoscenze arriverà al punto di conoscere tutto ciò che è possibile conoscere.
Non avrà più limti, e dunque non avrà più se stesso: Holderlin: è nel confronto col limite che acquisisci consapevolezza di te. Non avendo più limiti semplicemente non sarà.
Ma anche:
Uno che sa tutto ciò che si può sapere è uno che sa se stesso.
Sapere se stessi significa sapere come si è stati creati, come si è nati.
Sapere – cioè – che si è nati da una necessità.
Allora che succede quando Dio scopre di essere figlio di una banale necessità, come un filo d’erba, come un fuoco che si accende, un legno che brucia e diventa carbone, un vento che si alza, un’ape che si posa su un fiore?
Dunque questo essere avrà percorso una strada lunga milioni di anni e avrà illuminato tutto l’oscuro del possibile per capire alla fine che non è diverso da una formica o da un filo d’erba.
E probabilmente tornerà nella sua vuota capanna, a dormire su una pelle di capra gettata su un mucchio di paglia, come il porcaio Eumeo (che era Re), perché una capanna vuota e un mucchio di paglia sono la stessa cosa dell’universo. E’ il bicchiere di vino offerto a Ulisse che fa la differenza.
10.08.15
Ma vieni, entriamo nella capanna,
vecchio; e dopo anche tu,
saziato di pane e di vino il tuo cuore,
dimmi di dove arrivi, e quanti affanni sopporti.
Detto così lo guidò nella capanna il porcaio glorioso,
lo face antrare e sedere, e ammucchiò molte frasche,
e sopra stese la pelle vellosa d’una capra selvatica,
– il suo giaciglio – ampia e folta.
Godette Odisseo che così
l’accogliesse, e disse parola, gli
disse:
Zeus ti dia, ospite, e gli altri dei immortali, quello che più desideri, perché
m’accogli benigno.
E tu ricambiando, Eumeo porcaio,
dicesti:
Straniero, non è mio costume, venga pure uno più malconcio di te, trattar male
gli ospiti: tutti da parte di Zeus vengono gli ospiti e i poveri.
Chi è Eumeo? E’
il Dio che è tornato nella casa vuota. Che, essendo stato Dio, è tornato ad
essere uomo. Com’è la sua casa? E’ una capanna, dove egli ammucchia frasche
sulla terra, e sulle frasche stende una pelle di pecora, e questo è il suo
giaciglio. Egli era figlio di un Re, ora è il servo più fedele di Odisseo.
“E’ un personaggio virtuoso e modesto, pago della sua vita, nonostante egli
abbia sangue reale nelle vene. Quello che più desidera egli già ce l’ha: vive
per prendersi cura dei suoi maiali.”
Accoglie Odisseo come accoglierebbe qualsiasi ospite e povero, perché Zeus li
manda, cioè la necessità. Lo fa perché sa che necessità è egli stesso, che
nient’altro che necessità è il suo essere. Egli si sa prendere cura del suo
ospite: lo fa entrare nella capanna e lo fa sedere su un giaciglio di frasche
ricoperte da una pelle di pecora, gli dà
pane e vino per saziare il suo cuore, non il suo stomaco!, così che Odisseo
potra dirgli da dove arriva e quanti affanni sopporta, cioè potrà trovare
ascolto. Eumeo – Re che vive in una capanna –
sa come essere felice e come rendere felice l’uomo: dandogli ascolto, e
facendo in modo che l’uomo senta accettato il suo parlare.
Questo spettacolo di amore e bellezza, al quale tutti vorremmo
partecipare, si compie con l’aiuto di
pochi strumenti:
1) una capanna:
cioè un luogo chiuso, un luogo in cui l’esterno è chiuso fuori, in cui
l’esterno, la realtà in cui tutti siamo immersi e siamo sempre presenti, viene
lasciato fuori. Ci si distacca dall’esterno dando vita a un’interno. Ci si
sottrae all ‘Ente, all’essere supremo (che mai tramonta – Eraclito – creando un
luogo particolare, nascosto all’esterno – che è il vero Dio. L’io è l’interno;
Dio è l’esterno.
In questa capanna non c’è che un giaciglio, non serve nient’altro. Serve essa
stessa, che essendo un involucro costituisce uno spazio diverso, uno spazio
soggettivo all’interno dello spazio oggettivo, che altrimenti non potrebbe
esistere, dando così modo al soggetto di costituirsi.
Il soggetto si costituisce non visto.
(Danilo Dolci: ognuno cresce solo se sognato – ma non visto!)
L’uomo come entità pensante e consapevole si costituisce nel passaggio
dall’esterno ad un interno; nel momento in cui si concepisce come involucro.
2) Il pane e il
vino per saziare il cuore: cioè la necessità che consente l’empatia, nel
momento in cui, saziato lo stomaco, il cuore (l’atteggiamento non utilitarista
dell’essere) può esistere e
manifestarsi. Il vino è la bevanda degli dei, perché ha questa valenza: scioglie il pensiero
dalla catena della necessità di essere funzionale a qualcosa. E’ uno strumento
di annullamento di necessità. Grazie al vino, il cervello può funzionare senza
essere produttivo. Il cervello che può funzionare per qualcosa di diverso dalla
produttività, cioè dal predisporre le condizioni utili e necessarie per la
propria sopravvivenza, crea il mondo culturale.
Funziona in maniera innaturale, non pensa a come placare la fame ma si fa
domande inutili del tipo: “chi sono io”?
Ulisse è colui che si fa domande inutili, che sa di farsi domande inutili e
tuttavia non si rassegna; l’uomo che
immagina è colui il cui pensiero è libero dalla necessità.
Eumeo, che era Re e sapeva tutto, sceglie di essere un porcaio perché sa che
domandare è inutile.
13.8.15
Perché Benjamin si rammarica della perdita dell’esperienza? Perché intuisce che
si tratta di un cambiamento epocale: la conoscenza non è più verificabile
dall’esperienza. Cioè: la conoscenza si evolve così rapidamente che non c’è il
tempo di raccontarla e metterla alla prova, farne esperienza: è già superata.
Una conoscenza che si evolve così rapidamente da non poter essere raccontata e
diventare esperienza è una conoscenza che perde ogni connotato di verità.
La conoscenza è così in avanzamento
che non riesce a raccontare se stessa e quindi non riesce a diventare verità, e
ciò nonostante si impone col beneficio di
inventario, salvo errori ed omissioni
che nessuno avrà il tempo di verificare.
La verità in questo modo viene degradata a “verità del momento”, valida solo qui e ora, con l’avvertenza che cambiate
le condizioni in essere non si può garantirne la validità.
Questo significa che è possibile che esistanto nello stesso tempo verità
diverse e contraddittorie, ma tutte plausibili, nessuna avendo superato il
vaglio dell’esperienza.
La conoscenza a sua volta, perso il legame diretto con la verità, non è più un
valore, non ha più una connotazione morale, ma diventa mero strumento al
servizio di scopi particolari.
Ma la verità è necessaria; e se non potrà più essere ricercata attraverso la
conoscenza lo sarà con altri mezzi. Per questo lo sviluppo scientifico – non più
veritiero – favorisce (anzicchè inibire, come ci si aspetterebbe) il fiorire
della spiritualità, la permanenza delle religioni. Si tornerà a considerare la
scienza come si considerava la magia, riportando la verità oltre l’uomo, dove
del resto era sempre stata, tranne che per pochi poveri pazzi.
11.10.15
Il cielo è tutto uguale.
Ma il cielo che guardo da dentro il cortile è diverso dal cielo che c’è fuori.
22.03.2015/2021
L’essere non è definibile perché è colui che definisce.
L’essere definisce – e si determina –
creando relazioni tra frammenti. (Deleuze su Whitman pag. 83).
La natura non è forma, ma processo di relazionalità, il che si può anche
scrivere così:
l’Essere non è forma, ma processo di relazionalità,
e soprattutto così:
l’Architettura non è forma ma processo di relazionalità.
“Cogli l’attimo”, significa esattamente l’opposto di quel che si crede. Significa “Cogli l’attimo che ti consente di vivere il passato”.
E tuttavia l’
“attimo” si coglie raramente: ma lo si
progetta, si attende, si racconta.
Questo significa vivere nell’estensione del tempo. Vivere il tempo in senso
spaziale, che è la qualità prima dell’essenza e la natura dell’esperienza.
Nonché il senso dell’architettura.
Una vita è una struttura, istituisce un
tempo e uno spazio, cioè una vita dà uno spazio nel quale si possono svolgere
le conseguenze di qualcosa nel tempo necessario al loro esaurirsi come azione. Quindi
è spazio e tempo nello stesso manifestarsi, spazio per un tempo (in cui si
manifesta un azione e se ne svolgono le conseguenze) e tempo di uno spazio
(cioè durata dello svolgersi delle conseguenze dell’azione nello spazio nato,
fino al loro esaurirsi).
Una vita dunque è la possibilità di unire due dimensioni in un’esperienza.
Una vita dunque è una dimensione unica, non vista né udita prima, nella quale
uno spazio e un tempo mai prima visti né uditi vivono.
L’azione è un avvio, un gesto che si ripete infinite volte.
Il senso è l’esperienza, cioè la possibilità di unire tempo e spazio creando
una dimensione terza, che non esisteva prima e non esisterà dopo.
Cioè il senso è nel darsi della vita in sé come dimensione nuova nella quale
accogliere lo stesso gesto di sempre.
20.03.2015
L’essere non è definibile, non perché non sappiamo cos’è, ma perché non è
racchiudibile in un concetto, nel senso che non si può descriverne i suoi
miliardi di stati, modi, sfaccettature e possibilità in una visione
monotemporale. L’essere è una dimensione differente. Sarebbe come voler
descrivere il mondo, o il mare, e racchiuderlo in un concetto.
Movimento del
Tempo.
Il movimento in avanti del tempo è solo un’illusione ottica causata dal moto di
rotazione della terra, che produce una serie di albe e tramonti interpretabili
come successione solo perché si ritiene automaticamente l’io (la terra) fermo al
centro dell’universo. Ma al di fuori di tale giostra il tempo è la condizione
statica dell’essere unitario che in esso si dispiega, espandendosi senza
direzione e contraendosi senza centro. E questo è il significato autentico del
divenire.
2018
01/05/2018
Che cos’è conoscere? Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di
familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da
noi considerato un enigma, un problema. Smussamento del sentimento del
nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra
più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo
istinto di colui che conosce, mentre naturalmente per il fatto che si sia
trovata la regola niente ancora è “conosciuto”!
– Di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la
regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviative, credono che
si sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza
intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola,
perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura
dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza.
La regolarità addormenta l’istinto che interroga (cioè che teme): “spiegare”,
ossia mostrare una regola dell’accadere. Credere alla “legge” significa credere
alla pericolosità dell’arbitrario. La buona volontà di credere
alle leggi ha portato al trionfo della scienza (specialmente nelle epoche
democratiche).
(F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885/87, 5 – 10)
16/09/2018
C’è un solo Dio, il più grande fra gli dei e gli uomini, che non somiglia agli
uomini né per il corpo né per il pensiero; egli infatti resta sempre fermo
nello stesso luogo senza muoversi affatto, tutto intero vede, tutto intero
pensa, tutto intero sente e senza fatica governa tutte le cose con la forza
della sua mente.
Pini e cipressi fiancheggiano i larghi sentieri. Là sotto giacciono uomini
morti da tempo: nera, nera, la lunga notte li avvolge…
Giù nel profondo, sotto alle Gialle Sorgenti, migliaia d’anni giacciono senza svegliarsi.
Luce e buio si alternano all’infinito, gli anni svaniscono come rugiada al
mattino. E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul
vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi lunghi cieli sopra il New
Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile
enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che
corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a
quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo, nella terra dove lasciano
piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio
è Winnie Puh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue
fioche scintille sulla prateria proprio prima della notte fonda che benedice la
terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime
spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il
desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean
Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre, che mai
trovammo, penso a Dean Moriarty.
(Senofane (580 aC), Dinastia dei Han (206 aC. – 220 dC), Jack Kerouac
(1955))
Gli angeli non lasciano tracce, essendo entità immateriali, ma attraverso segni materiali si manifestano.
Così, lo Studio n. 8 op. 28 di Chopin, per esempio, è un angelo; come “Ancora
sulla strada di Zenna” di Sereni, o come
lo spazio ascendente del Bramante nel Duomo di Pavia, o il divenire plastico di
Michelangelo nel ricetto della Biblioteca Laurenziana. Se gli dei sono l’Egoità dell’Aorgico, che vuole incontrarsi
con gli uomini che tendono al Superamento dell’Organico per riconfluire
nell’Universale (Holderlin), avendo bisogno gli uni degli altri per diventare
quello che sono, gli uni per sentire, gli altri per durare, gli angeli sono lo spazio in mezzo tra gli
dei e gli uomini, necessario affinché
gli uni e gli altri possano esistere. Ma non sono opere d’arte, perché l’uomo è
solo lo strumento che esegue. Sono strutture armoniche
2020
L’atto stesso del pensare si costituisce come
pre-giudizio, in quanto nel momento stesso in cui si forma, il pensiero
istituisce il soggetto, e dunque una visione distorta del reale.
Com’è possibile infatti, si chiede Holderlin nella cruciale lettera a Hegel del
26 Gennaio 1795, immaginare un Io assoluto, se quest’Io, per definizione, non
piò ammettere un oggetto fuori di sé, e quindi non può avere coscienza, giacché
una coscienza non può esistere senza una distinzione tra soggetto e oggetto?
(Reitani, Holderlin, XXVI)
(30.10.21)
2020
Da E. Bloch
Filosofia del rinascimento
(…) La grande esplosione della filosofia del
Rinasciento si ha con Giordano Bruno., il grande cantore dell’infinità cosmica,
il primo a tentare di dipingere l’immanenza con i colori della maestà e del mistero che il medioevo aveva riservato al mondo
dell’Aldilà.
(… vita di Bruno …) E quando sul rogo, questo luogo così adeguato all’amore
cristinano, gli fu avvicinata la croce,
volse il capo dall’altra parte.
(…)
B. scrisse dunque satire, poemi didattici,
dialoghi. Nella sua opera
principale, Dialoghi de la causa,
principio e uno, riprende soprattutto la forma del dialogo platonico. Il
dialogo platonico è una forma straordinariamente felice di mutamento riuscito
in solido: non è infatti il mero recipiente di un contenuto autonomamente
esistente, bensì la forma genuina del procedere dialogico-dialettico del
pensiero platonico. Si tratta di un caso eccezionale, che non traova riscontri
né prima né dopo, probabilmente neppure
dei dialoghi aristotelici che sono andati perduti.. E neppure presso Bruno, nel
quale il dialogo è l’abito di cui si rivestono idee che il portavoce ha già
comunque, per altre vie trovato. La forma dialogica ha qui tuttavia una grande
vivacità, in quanto vi fanno la propria comparsa quei titpi fortemente
caratterizzati che entreranno a far parte del secolare patrimonio della
Commedia dell’arte. (verificare l’ipotesi di Bloch sulla particolarità del
dialogo platonico)
(…)
Un altro scritto più schiettamente metafisico è
il De maximo et minimo.
Abbiamo poi la ricerca sul De triplici
minimo, il trilplice minimo costituito da punto, atomo e monade; e ancora Dell’infinito universo e mondi. Ma al
centro del suo pensiero ci sono i Dialoghi de la causa ecc.
Come si è già visto alle sue origini la filosofia del Rinascimento riprende
l’Hen Kai Pan di Parmenide, che si presenta come affermazione di una radicale
“mondanità” negatrice di ogni forma di trascendenza. Nell’Unotutto pulsa la
stessa vita che è in noi. La tempesta è in noi come respiro, i fiumi sono le
vene, le rocce le ossa, il cervello è
nube, cielo, firmamento. Questa concezione esprime un profondo radicamento
nell’Aldiquà: luna, valle e pietra vengono salutati come fratelli carnali
Questo senso di profonda affinità emergeva già nel Cantico di San
Francesco, ma i filosofi del
Rinascimento non hanno più bisogno di un padre comune per sentirsi legati
fraternamente alle creature. Il nesso tra creatore e creatura duviene allora un
puro residuo linguistico, etimologico, e la creatura acquista preminenza sul
suo stesso creatore. (ma Bloch non spiega perché!)
Il rapporto con la conoscenza.
Bruno si affida alla percezione, al mondo quale si dà dal punto di vista
sensibile. Ma con tutto il suo amore per la ricca profusione del nondo, egli è
consapevole della ristretta liitatezza della percezione, soprattutto nella
nostra forma individuale. La parvenza esterna, benché sia il punto di partenza
della conoscenza, non esaurisce neppure il contenuto di ciò che viene
immediatamente visto, e tanto meno – quindi – di ciò che non si vede e non si
sente, non si gusta e non viene percepito con i sensi.
In questo modo B. evade dal carcere della nostra sensibilità individuale, rifiutando decisamente che la nostra
esperienza umana sia l’unica esistente al mondo. Credere che non esistano più
pianeti di quelli da noi conosciuti sarebbe altrettanto folle, afferma un suo
celebre passo, quanto pensare che non esistano più uccelli di quanti se ne
vedono guardando un pezzetto di cileo da una feritoia.
2019
Spazio, temporalità e alienazione.
(Il tutto è alquanto approssimativo.)
Esiste un tempo esteriore, fisiologico, inerente ai cambiamenti di stato che si verificano negli enti, causati da variazioni di equilibri interni, o da alterazioni indotte da agenti esterni, forze, atomi, particelle, cose come l’ossidazione, per esempio, o l’azione dell’acqua sulla pietra, o lo sviluppo e il dispiegarsi nello spazio di un organismo vivente, dalla sua composizione per aggregazione di molecole, la sua nascita come coscienza, la sua crescita come accumulazione di cellule e di esperienze, la sua morte come malfunzionamento e disgregazione.
Il tempo dunque non esiste come fatto oggettivo e reale, esiste solo in quanto funzione del soggetto, cioè il soggetto produce sequenze di eventi e questo istituisce il tempo. Il tempo dunque è conseguenza dello svolgersi biologico della vita. E’ la vita che produce tempo.
E’ un tempo
legato al compiersi di cicli, al succedersi delle stagioni che diventa
successione di ricorrenze. E viene segnato dall’ombra dell’albero alto che gira
sul fianco della collina, o dallo spostare il sole il luogo del suo tramonto.
Questo tempo esteriore trova corrispondenza nel tempo interiore che ogni ente istituisce secondo la sua natura, forma
e dimensione. Così un fiore è una settimana o un mese, una farfalla è un giorno, il Sole è 5
miliardi di anni.
Nel senso che il tempo è sempre un compimento, un percorso tra un inizio e una
fine.
Considerare questo svolgimento nella sua interezza, vuol dire considerarlo
sempre nella sua complessità, e in questo modo diciamo che il tempo dell’uomo è
una vita, nel senso che non c’è sovrapposizione tra passato, presente e
fututro, ma ogni giorno passato persiste nella considerazione diventando dunque
presente, e determinando la qualità del futuro.
Questo è il modo attraverso cui l’uomo può avere coscienza di sé.
Diverso è
vivere solo per il presente, e così vivere ogni giorno come se fosse il primo e
l’ultimo, senza tener conto di quanto è successo ieri, e senza predisporre apprestamenti per il domani.
Questo modo di concepire lo svolgersi della propria vita (che non è il tempo ma
è fuori dal tempo, cioè senza tempo) è il modo naturale dell’animale, e non
consente la formasione di una coscienza di sé come soggettività, perché non produce
storia.
In questo senso l’animale non conosce la morte, perché la morte è la perdita
della consepevolessa, della soggettività, del passato, non della vita.
Cosa determina
questa scelta, se di scelta può parlarsi? Cioè può uno scegliere se adottare un
modo oppure l’altro, o piuttosto tale scelta non è conseguenza di qualità
dell’essere, qualità di pensiero,
studio, influenze esterne? Il dato oggettivo è che la gran parte degli uomini
ha sempre vissuto seguendo la seconda via, cioè quella della mancanza di
coscienza di sé, e che (o per il motivo che: su questo aspetto bisognerà
indagare meglio) su questo si basa l’ordine economico (cioè sociale)
dell’occidente.
Un altro dato oggettivo è che l’ordine economico / sociale dell’occidente è
stato sempre considerato e definito modernità.
E questo, (per quello che sappiamo, nel senso che non sappiamo niente del
prima) da Omero in poi.
Il libro di Eraclito ( 500 AC) infatti è la prima critica della modernità che si conosca.
2020
Il senso di appagamento che si
prova perdendosi nel silenzio della natura. Forse è la Natura l’altro sé,
l’altra parte che sempre si cerca e non si trova, perché – forse – si cerca nel
modo sbagliato. Forse infatti l’altro me che sempre cerco, l’altra parte che
sola può completarmi e placare la mie sete perenne, e che ho sempre pensato
dovesse essere una domma, forse invece non lo è; forse l’altra parte è il
mondo, Madre Natura, dal quale –come specie ed in quanto soggetto – mi sono
allontanato.
Ed è nella condizione del nomade (senza casa) che tale raporto può
manifestarsi, perché l’atto di possedere una casa, anche in mezzo alla natura,
istituisce il soggetto. E il soggetto è la fine del rapporto col mondo.
Ci sono persone, e io sono una di queste, che vivono il distacco dalla terra come un trauma, una violenza.
21.8.20
Il Peso del
cuore.
Gli Egiziani vengono giudicati
nel modo che segue. Il cuore del defunto viene pesato dal dio Anubi sulla
bilancia di Maat, dea della giustizia, in cui sull’altro piatto è posata una
piuma. Per essere accolto nell’immortalità, il peso del cuore deve rilultare
uguale al peso della piuma. E come è possibile ciò? Liberandosi dal peso del
soggetto.
Pessoa. 204
Nuvole… esisto senza saperlo e morirò senza volerlo. Sono l’intervallo tra ciò
che sono e ciò che non sono, fra ciò che sogno e ciò che la vita ha fatto di
me, la media astratta e carnale fra cose che non sono nulla, perché anch’io non
sono niente.
Nuvole… Quanta tranquillità se sento, quanto sconforto se penso, quanta
inutilità se desidero
12/11/2020
La trasmissione dei dati annulla le distanze, e quindi lo spazio. Ma lo spazio
non è solo distanza fisica ma anche il luogo dove è possibile la
contemplazione, cioè l’attività di formazione del pensiero. E la distanza è la
misura della presenza, il piano dimensionale che consente la relazione.
Eliminare lo spazio significa eliminare il pensiero e precludere le possibilità
che delle cose succedano.
Aby Warburg, Il rituale del serpente, 1923: “Il moderno prometeo e il moderno
Icaro, Franklin e i Fratelli Wright, che hanno inventato l’aeroplano, sono i
fatidici distruttori di quel senso di distanza, ciò che minaccia di riportare
il mondo nel caos. Il telegramma e il telefono distruggono il cosmo. Il
pensiero mitopoietico e quello simbolico, nella loro lotta per spiritualizzare
la relazione dell’uomo con l’ambiente, hanno creato lo spazio come zona di
contemplazione e di ragionamento, quello spazio che la connessione istantanea
dell’elettricità distrugge, a meno che un’umanità disciplinata ristabilisca le
inibizioni della coscienza.”
29.5.21
La grande confusione
Più vado avanti a cercare e più la confusione aumenta.
– Il divenire,
e l’unità del tutto sono due cose diverse, e non in contraddizione tra loro.
approfondire Holderlin sull’unità del tutto
e Senofane
L’unità del
tutto è l’espressione che indentifica:
a) un fondo comune a tutte le cose (Eraclito);
b) un collegamento e allo stesso tempo qualcosa che collega tutte le cose
(Eraclito ecc.);
c) il sentimento di appartenenza all’unità
e alla complessità della natura.
Nell’unità del tutto le cose possono divenire, ma restanao immutabili al fondo
della loro esistenza, nel fondo comune, cioè al livello atomico.
Gli atomi infatti non divengono, non mutano, non cambiano di stato.
Tuttavia le aggregazioni di atomi danno vita ad enti differenti, i quali tutti
divengono, cambiano stato, nascono e periscono.
Al loro perire i loro atomi sopravvivono per aggregarsi nuovamente nella
formazione di altri enti.
Altra cosa è il sentirsi parte cmune con l’interezza del cosmo, la Natura,
Phisis, e, soprattutto, il sentimento di distacco da essa che produce la
consapevolezza dell’assenza del bene supremo, e dunque malinconia.
Questo ha a che fare con il mutamento della capacità del pensiero che è stato
causato dalla diffusione della scrittura lineare (Leroi Gourhan). Cioè questo
distacco è stato causato dalla riduzione delle capacità percettive causata
dalla diffusione della scrittura.
W. Blake diceva che ci sono cose conosciute e cose che non si conoscono, e in mezzo
ci sono le porte: si potrebbe dire che ci sono cose conosciute e cose che non
si è più in grado di conoscere, perché non si è più in grado di percepirle. La
parola poetica svolge la funzione delle porte che ci aprono di nuovo la possibilità
di cogliere, conoscere cose che avevamo dimenticato (da cui la malinconia, assenza di ciò che avevamo/eravamo), mentre
l’alto muro che dal tutto ci separa, perché ogni porta presuppone un muro, è
costituito dalla scrittura.
Allo stesso modo Anassagora diceva che ciò
che vediamo è solo la parvenza di ciò che è invisibile, e allo stesso
modo si potrebbe dire che ciò che vediamo è solo la parvenza di ciò che ci è
diventato invisibile. O è solo una parte, modificata e deformata, di ciò che
prima riuscivamo a vedere nella sua interezza.
Vedi inoltre tutto il discorso sull’arcadia.
La storia dell’arte è la storia del tantativo di superare tale limite
recuperando la capacità e le possibilità del pensiero simbolico.
Questo è la poesia di Holderlin o di Leopardi, questo è la letteratura di
Proust, questo è la pittura di Cezanne, questo è l’architettura di
Michelangelo.
Direi che il quadro è chiaro.
Ora bisogna espanderlo a macchia d’olio.
Maggio 2021
(Ripresi. 2017)
e però è cosa certa, che le membra dell’architettura dipendono dalle membra
dell’uomo.
Michelangelo
Dunque non ha
senso parlare di nuova architettura, o nuova arte, fino a quando conserveremo
questo corpo. Così come parlare di fine dell’arte, o fine
dell’architettura, necessarie fino a
quando conserveremo questo corpo.
Ma che succederebbe se cambiasse il corpo umano? E come potrebbe cambiare?
Consideriamo per esempio che gran parte dei suoi organi, della sua estensione e
la sua forma dipendono essenzialmente dall’apparato digerente, che trasforma il
cibo in energia utile a far funzionare l’apparato muscolare, a sua volta
necessario a procurarsi il cibo necessario per far funzionare l’apparato
muscolare necessario per procurarsi il cibo ecc.
Il sistema di acquisizione dell’anergias è estremamente rozzo (in termini di resa energetica). Si basa sulla elaborazione del cibo ingerito e la sua scomposizione negli elementi primi utili alla rpoduzione di lavoro. Basterà quindi garantire per altra via l’approvvigionamento di proteine, calorie e vitamine, nelle forme e nelle quantità necessarie ad ogni soggetto, per rendere obsoleta ed inutile tutta la parte del corpo che va dalla gabbia toracica al bacino.
Dal punto di
vosta sociale questa modifica comporterà una vera rivoluzione : non ci sarà più
necessità di cucine, con tutto quello
che ciò comporta: sia dal punto di vista della produzione di mobili che da
quello dello spazio e dela organizzazione dell’allogio. Non ci saranno infatto
neanche bagni o servizi igienici.
Anche la socialità subirà profondi cambiamenti, non essendo più legata a
necessità fisiologiche. Non si andrà più a cenare insieme, o a prendere un
caffè, o a fare l’aperitivo. Bar, ristoranti e caffè spariranno del tutto.
La rivoluzione definitiva avverrà quando sarempo in grado di sintetizzare
l’energia che ci serve direttamente dall’aria e dalla luce. Questo significherà
la fine della storia come fino ad ora è stata: basata sulla competizione per
l’accaparramento ed il possesso delle risorse; e l’inizio di una storia nuova.
Il nostro destino è di diventare esseri superiori, come lo sono i fili d’erba,
che non hanno bisogno di spostarsi per nutrirsi, che trasformano in nutrimento
il 100 % dell’energia che ricevono sotto forma di luce ed aria, che non hanno
bisogno di pensare per vivere, per essere parte del tutto. E dunque non hanno
bisogno neanche dell’arte.
25.09.21
Materiali su Cézanne
Il più grande
tentativo – riuscito – di rappresetare il presente è stato compiuto da Cézanne,
ed è il tentativo durato una vita intera rappresentato dalla sequenza delle
Montagne di Sainte Victoire.
Tutte le montagne si possono vedere solo
in successione, ma andrebbero viste tutte contemporaneamente, e questo
può essere fatto solo con un esercizio
di composizione interiore: il presente
non è nessuna delle Montagne rappresentate, ma l’insieme di tutte, cioè l’unica
che dopo averle viste tutte appare.
C’è voluta una vita intera per ottenere questo risulltato; anni sono dovuti
passare in paziente e operosa attesa. E non sappiamo se Cézanne ne fosse
consapevole. Cioè se fosse consapevole della immensa grandezza del regalo che
ci ha fatto.
6/10/21
Il tema della ricerca , l’argomento, è chiaro: ho indicato una dimensione
diversa, dell’essere, cioè l’essere
tridimensionale che vive contemporaneamente nel passato, nel presente e nel
futuro. E cioè non fuori dal tempo, ma dentro il tempo! Fuori dal
tempo vive chi vive inconsapevolmente
nel presente!
Ora si tratta solo di verificare questa tesi, e soprattuto la sua presunta
differenza da Bergson, da Proust, da Deleuze…
Nella seconda
parte parlo della ricchezza e contraddittorietà del presente, con la sua
insanabile contraddizione di essere luogo dell’assenza e della presenza del
Tutto nello stesso tempo.
Questo si riallaccia al concetto che
della realtà vediamo solo il visibile, e non pensiamo all’invisibile.
Cacciari, Cézanne, Merleau Ponty, Ghirri…
Nella terza parte parlo dell’armonia, cioè del fatto che solo segni derivanti da una composizione armonica ci consentono di compiere il salto temporale. Cioè si smaterializzano.
Si parla infine della bellezza che, richiamando la poesia di Montale e arrivando a Leopardi, è il fantasma che non ci salva.
Ora che la tecnologia ha svelato LA GRANDE TRUFFA DELLA BELLEZZA, dimostrando che non è arte riprodurre la bellezza, ma soltanto bisogno (ringrazio Antonella per avermi insegnato a distinguere l’amore dal bisogno), cioè necessità, rimane il significato vero dell’arte, cioè produrre segni che si smaterializzano ed entrano a far parte della esperienza trascendentale, cioè della memoria trascendentale a-soggettiva.
La bellezza non c’entra nulla con l’arte. Essa ha a che fare col fantasma che ci salva, non con il crogiuolo. Dove con gli atti scancellati si compongono le storie del futuro. L’arte è il crogiuolo.
Cos’è il verso
se non l’istituzione di un tempo diverso!
Il ritmo diverso infatti provoca un diverso scorrere del tempo, diverso
dall’ordinario in quanto armonico. Armonico in quanto esteso nel tenere insieme
l’inizio e la fine.
E cos’è questo se non il nostro vero tempo,
esteso dal passato al futuro!
Questo è il passaggio fondamentale:
Il ritmo del verso, il ritmo cioè che le singole parole istituiscono nel verso,
il ritmo che danno alla frase, per esempio un endecasillabo, e lo stesso
succedersi dei versi nel contesto più ampio della terzina, istituisce un tempo
armonico, cioè un tempo continuo, che come un filamento tiene insieme il suo
inizio e la sua fine. In ogni sua parola, in quanto partecipante al ritmo, il
verso richiama il suo inizio e la sua fine: en cai pan.
Nella nostra essenza dunque noi siamo tempo armonico, cioè ritmo, cioè siamo la
capacità di tenere insieme l’inizio e la fine.
Cos’altro è la musica se non una ordinata successione di suoni che istituisce un tempo diverso, cioè una armonica successione di suoni in cuoi l’armonia – cioè il collegamento ordinato secondo certe misure – seve ad unire il primo suono della frase all’ultimo, dunque a tenerli tutti insieme?
E cos’altro è l’architettura se non l’istituzione di un alternarsi di pieni e di vuoti che tiene insieme ogni parte della fabbrica edilizia creando uno spazio armonico? In cui, come nel Duomo di Pavia, o nel recetto della Biblioteca Laurenziana, ogni singola linea è legata a tutte le altre come le note un una melodia?
Per lo stesso motivo la pittura, la scultura e la letteratura, che sono arti figurative, cioè arti che producono figure, hanno valore e senso in quanto “imitative”, cioè in quanto imitano una situazione in cui esiste armonia. Isolano e riproducono, attraverso la composizione dei colori e delle figure, attraverso la composizione della materia, attraverso la descrizione operata con le parole, una realtà armonica (in un paesaggio, per esempio, o in un volto) che nell’ordinario, confusi nel tempo ordinario e nel disarmonico comporsi delle cose, non rileviamo.
Le arti
figurative (pittura, scultura, letteratura) sono arti descrittive:
rappresentano, imitano l’armonia e la bellezza.
Le arti primarie (musica, poesia, architettura) producono armonia e bellezza.
Le arti figurative descrivono, ci raccontano una esperienza.
Le arti primarie quella esperienza la inducono, ce la fanno vivere.
Ed è solo attraverso queste arti che oggi possiamo “fare esperienza”.
(riprendere esperienza, scienza e verità)
7/10/21
Provare una sensazione è una esperienza in cui attraverso i sensi si viene a
conoscenza di un aspetto della realtà esterna, cioè appunto se ne fa esperienza. Raccontare o
pensare una sensazione è una attività riepilogativa e riflessiva posta in
essere attraverso la memoria per un uso pratico.
L’attività che produce segni capaci di indurre una sensazione (arte), è una
attività che ci fa provare un’esperienza, ma in senso inverso, portando fuori,
all’esterno, qualcosa che già esisteva dentro di noi. Questa è l’attività riproduttiva dell’intelletto,
capace, dietro una precisa sollecitazione, di farci vedere colori che non
esistono, di farci sentire odori che non esistono. Dunque è un uso dei
sensi che va al di là delle capacità
fisiche degli stessi. O più precisamente è una replica esatta di una condizione
precedentemente vissuta e registrata, che coinvolge i sensi nella creazione di
una scena che non esiste, ma di cui si sentono gli odori o si vedono i
colori. Questo significa, alla lettera,
creare la realtà.
Ma è veramente così? Proust dice di si; dice infatti che la reminiscenza
riporta in presenza un preciso luogo, insieme alla sua luce, ai suoi colori e
ai suoi odori.
Questa attività
dell’intelletto è diversa dall’attività rappresentativa con la quale si
descrive o si racconta una sensazione.
Da qui la differenza tra arti primarie o creative, e arti rappresentative o
figurative.
La sera che si stende contro il cielo di Eliot non è la stessa che da pace e fiume alla campagna di Alfonso Gatto, né è il nulla semplice e profondo di Pavese. Questa sera ci porta un’inquietudine, ci porta attraverso strade semivuote in luoghi estranei, in cui non possiamo che chiederci: “Cos’è?”, ma consapevoli di non poter ricevere alcuna risposta. La sera di Gatto, e il nulla di Pavese non ci inducono domande, perché sono già risposta.
10/10/21
Marcovich, sul significato di Logos. Da Eraclito, p. 8
Nel fr. 1 o logos sembra voler dire in
primo luogo affermazione o
discorso, nel significato di insegnamento orale (come al fr. 83, e
probabilmente anche al fr. 109: a) perché gli uomoni possono udire il logos da
Eraclito (fr. 2, 3); b) perché
l’espressione outos o logos nella prosa arcaica vale, di solito, “affermazione, esposizione, prova” (cfr,
Melisso, Democrito, ecc.).
Dal momento che gli uomini da soli possono ricavare la conoscenza del logos
direttamente dal mondo che li circonda, senza l’aiuto di Eraclito (fr. 23 e
26), deve voler dire, nello stesso tempo, anche verità obiettiva (legge, regola). E’ dai tempi di M. Wundt che si
sa bene come il pensiero greco arcaico non avesse ancora bene chiara la
distinsione tra aspetti obiettivi e soggettivi della conoscenza (cioè fra
Idea-Parola e Cosa) (2).
Fra i detti
supersiti di Eraclito non si trova una definizione formale di ciò che egli
intendeva per Logos, o Verità; ciò nonstante, sulla base dei frr. Del gruppo VI
e della formula ev to autò, xunon
contenuta ai frr. 32, 33, 34, 41, 43, 46, 50, si può supporre che Logos
significasse:
a) unità o coicidenza di ciascuna coppia di opposti;
b) unità sottostante all’ordinamento del mondo (crf fr 26).
D’altra parte, logos al fr. 53 vuol dire chiaramente “proporzione”, “misura”, e nella espressione erodotea ou pleon logos significa “valore”, “calcolo”, “stima”.
10/10/21
Ghirri, prefazione a Kodachome
II.
Dalla necessità e il desiderio di interpretare e tradurre il segno e il senso
di questa somma di geroglifici, nasce il mio lavoro.
In questo senso, non solamente la realtà facilmente identificabile o di alto
contenuto simbolico, ma anche il pensiero, la memoria, l’immaginazione, il
contenuto fantastico o alienato.
La fotografia è per il fine che mi sono proposto straordinariamente importante,
grazie a caratteristiche che cercerò qui di evidenziare.
La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata, è per me importante
quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine
assume senso diventando misurabile.
Contemporaneaente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci
invita a vedere il resto del reale non rappresentato.
Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare, non tende soltanto a
evocare l’assenza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito,
ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato e cioè il reale.
10/10/21
Pavese, cronologia di Tutti i racconti, p. XC.
1942
… A fine giungo è tra le sue colline, a Santo Stefano Belbo, e si abbandona a considerazioni sull’infanzia
e sul mito:
“Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia, e mi riguardo con cautela le grandi colline –
tutte, quella enorme e ubertosa, come
una grande mammella, quella scoscesa e acuta dove si facevano i grandi falò, quelle ininterrotte e
strapiombanti come se sotto ci fosse il mare – e sotto c’era invece la
strada, la strada che gira intorno alle
mie vecchie vigne e scompare, alla svolta, con un salto nel vuoto.
Da questo salto non ero mai passato; si diceva allora che la strada proseguiva sempre a mezza costa, sempre affiancata da colline di così enorme estensione da apparire, viste sopra la spalla, come un breve orizzonte a fior di terra. Ero sempre arrivato a questo orizzonte, a questi canneti (…), ma presentivo di là dal salto, a grande distanza, dopo la valle che si espande come un mare, una barriera remota (piccina, tanto è remota) di colline asssolate e fiorite, esotiche. Quello era il mio Paradiso, i miei Mari del Sud, la Prateria, i coralli, Ophir, L’Elefante bianco ecc.” ( Lettera a F. Pivano, 25 Giugno. )
23/10/21
Libri su Proust:
H.R. Jauss, Tempo e ricordo nella
Recherche di Marcel Proust, 1986
Le lettere, 2003;
Charles Blondel, La psicografia di
Proust, 1932/2
Rubettino 2016
23/10/21
Da Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo, Il Mulino
Cap.1, pag. 19
In linea generale va rilevata in primo
luogo la tendenza a sottolineare una stretta interdipendenza tra il solipsismo
radicale di P. e il carattere proiettivo attribuito alla conoscenza. Esseri e
oggetti sono da considerare come la estrinsecazione ed in certa misura la
oggettivazione dei nostri stati e dei nostri sentinenti: tutto è soggettivo
nella stessa misura dei più intimi dei nostri stati d’animo. Ogni generalità è
sempre soggettiva, è una soggettività che si dissimula (Blondel, La psicologia
di P., 1932)
A questo orientamento quello di chi ritiene che la vita umana è fatta di
mutamenti “bruschi e completi”: non si può parlare di un io, ma di una
molteplicità di io che si succedono l’un con l’altro. Questi io si manifestano
nel mutare di quelle maniere differenti di sentire e di pensare di un medesimo
individuo che prendono il nome di “personalità”. Il soggetto è un individuo
complesso, ma l’indivisduo non può mai essere, volta per volta, altro che uno
solo dei vari esseri di cui, per così dire, può indossare le vesti (Bonnet, Le
progres spirituel dans l’ouvre de Marcel Proust, 1946/49).
Da una parte dunque il permanere dell’io – del soggetto empiricamente certo
della propria identità personale – dall’altra la continua esperienza del
mutamento, della dispersione.
La mia
posizione è differente.
Per me la permanenza dell’io non è solipsismo radicale. Non è, cioè, il
ricondurre la molteplicità del reale alle proprie esternalità (Blondel). Né può
essere ricondotta alla pluralità dell’io, di volta in volta, e una coscienza
alla volta assumibile dal soggetto.
La permanenza dell’io per me è permanenza del passato. Cioè CONTINUAMENTO AD
ESISTERE di ciò che ci è accaduto, e di conseguenza CONTINUAMENTO AD
ESISTERE di noi stessi. E’ questo che
comporta il fatto che non si può dare alcun cambiamento in noi, perché ciò che
eravamo ancora siamo.
(vedi: 23/10/13,)
23/10/2021
Mi pare di capire che nei suoi racconti di riflessione Pavese parli non di sé,
ma di quel sé che non è mai stato, cioè dei personaggi, delle cose e dei luoghi
(Su Pavese e i luoghi, e sulla poesia minimale dei luoghi di Pavese bisogna approfondire)
di cui, pur non essendo loro, faceva parte. Sono testimonianze di adesione al
mondo.
La sua grandezza – e la sua tragedia – consiste in questo riconoscerdi in cose,
uomini, riti che non gli sono mai appartenuti veramente, ma di cui si sente parte,
probabilmente per averli sentiti e vissuti da ragazzo in seconda persona.
24/10/2021
E’ significativo quello che dichiara Proust nell’intervista a Le Temps del
1913:
“La Recherche non è in alcun modo un’opera di ragionamento… anche i suoi più
piccoli elementi mi sono stati forniti dalla mia sensibilità…
Io li ho prima scorti al fondo di me stesso, senza comprenderli, e facendo
tanta fatica a convertirli in qualcosa di intelligibile come se fossero stati
estranei al mondo dell’intelligenza al pari, come dire, di un motivo musicale”.
Per questo la Recherche non è un’opera d’arte, o meglio non è un’opera di arte esperenziale ma un’opera rappresentativa, cioè descrittiva.
Questo tentativo infatti è riuscito, e P. ha trasformato qualcosa che
somigliava a una musica in un parlato, quello che era frutto di intuizione in
un prodotto di ragionamento, riuscendo
così a cogliere, dopo estenuanti analisi, il farsi della memoria involontaria.
Ma non suscita in noi alcun evento/effetto simile, come ci succede, per esempio,
leggendo una poesia. Non ci fa uscire dal tempo ordinario dell’intelligenza
(perché non ha un ritmo- vedi), ma anzi ci costringe all’interno della sua
gabbia. Ci fa anche perdere in essa, costruendo una gabbia a forma di
labirinto, vagando all’interno del quale abbiamo l’illusione di trovare quella
porta che si apra sbattendoci contro, ma
che in realtà non può aprirsi perché non è all’interno del labirito
dell’intelligenza che si trova.
(25.12.21)
24.10.21
Se la natura si rappresenta propriamente (ordinariamente) nella sua dote (nel suo aspetto) più debole, allora quando si rappresenta nella sua dote (nel suo aspetto) più forte il segno (la luce della vita e il fenomeno) è = 0.
Quindi quando si manifestano in tutto il loro significato la vita e il fenomeno, e cioè nel loro apparire (che è il loro significato ultimo), non si manifesta l’originario, il fondamento di ogni natura.
Da cui deriva che l’originario non è percepibile, in quanto può manifestarsi, e dunque può essere percepito, solo in assenza della vita.
Esso tuttavia è intuibile – questa è la tesi di H. ed è anche la base della mia ricerca (che anche se giungesse ad essere mera raccolta e catalogazione di testi sarebbe per me soddisfazione suprema) – nel momento in cui, attraverso un eccesso di compartecipazione, causato da vari fattori, ma anche dai segni dell’arte, si annulla il soggetto di cui si è titolari, o, secondo la mia tesi, si percepisce il nostro essere in quanto estensione di tempo, e quindi anche in questo caso come annichilimento del soggetto che vive nel presente, e aderendo, per la durata di un tempo incalcolabile a causa della sua brevità e della sua intensità, alla Totalità, divenendo cioè per un tempo infinitesimale ma infinito uno dei tutti che costituiscono l’Uno.
Da notare, come ulteriore motivo di necessario approfondimento, la contraddizione in termini che Holderlin volontariamente pone in essere quando parla di ogni totalità. A beneficio dei suoi dotti amici e dei suoi maestri (Fichte, Schelling, Hegel, Schiller, Goethe…) che la sua grandezza, per proprio limite o per semplice timore e tornaconto, o non avevano capito, o appunto facevano finta di non capire. Nell’un caso o nell’altro, e man mano che la reale grandezza della statura di Holderlin viene svelata dalla storia, la loro non può che risultarne pesantemente sminuita.
28/10/2021
Definita seconda terza e quarta parte di Atlante (par. 9) . Ancora preliminari.
Poi si entrerà nel merito con Cezanne ecc.
Seconda parte: il divenire. A seguire Holderlin.
Eraclito
Stoici
Holderlin
poesia
Si affaccia all’orizzonte la figura possente di Dante.
31.10.21
Nota 27 di Reitani al Frammento di Hyperione, p. 1301
Testo:
Mio Bellarmin1 Se potessi farti condividere pienamente l’esperienza ineffabile
che vissi in quell’istante! (27) Dov’èrano finite le pene della mia vita, la
notte e la sua povertà? Dove la sua misera natura mortale?
Un simile attimo di liberazione è certamente quanto di più sublime e felice la Natura
inesauribile racchiuda in sé! Esso
compensa gli eoni della nostra vita vegetativa! La mia vita terrena era morta,
il tempo era come sospeso, e il mio spirito, liberato e risorto, percepiva la
sua affinità e riconosceva la sua origine.
Nota:
In Amore e individualità Herder
scrive che il momento più alto dell’unione degli spiriti è quello in cui
l’amante vede l’amata, che rimanda a una comune preesistenza: “Il massimo grado
dell’estasi io lo vedo (…) nel primo felice trovarsi, nel dolce attimo, superiore a ogni descrizione,
in cui entrambi gli amanti si accorgono che si amano. (…) Se esiste un attimo
di celeste delizia e di pura unione di esseri corporei qui sulla terra, è
questo. (…) In esso godiamo, a ristroso, ciò che a lungo abbiamo cercato e non osammo
confessare a noi stessi, in esso godiamo in anticipo tutte le gioie del
futuro, non presagendole, ma
possedendole, anzi, se così si può dire, più che possedendole.
Rif.: l’amore che ci fa vivere la nostra vera essenza, portandoci fuori dal tempo.
31/10/21
Interpretazione del frammento di Holderlin “Il significato delle tragedie…”
F. Holderlin
Il significato delle tragedie
Il significato delle tragedie lo si
comprende nel modo più facile partendo dal paradosso. Tutto ciò che è originario infatti, essendo ogni
facoltà (aspetto) ripartita giustamente ed equamente, non
appare davvero nella sua forza originaria, ma propriamente solo nella sua
debolezza, sicché (così che) la luce
della vita e il fenomeno fanno propriamente parte della debolezza di ogni
totalità.
L’originario dunque non appare nella sua forza originaria, non può apparire nella sua forza originaria, essendo questa il perfetto equilibrio (essendo ogni facoltà (aspetto) ripartita giustamente ed equamente), giacchè solo nel manifestarsi di una debolezza può esprimersi una forza, solo per opposizione a un negativo può manifestarsi un positivo (vedi altrove), e ciò presuppone il venir meno di un equilibrio che invece nell’originario è sempre presente.
L’originario dunque non appare nella sua forza originaria ma solo nella sua debolezza, cioè nello sfrangiarsi dei suoi aspetti periferici (si potrebbe dire con ardita e interessante metafora: nella sua sprezzatura), che sono la luce della vita e il fenomeno, cioè appunto l’apparire.
La luce della vita e il fenomeno sono debolezze di ogni totalità: ogni vita, dal filo d’erba all’uomo, nel suo apparire come fenomeno è una manifestazione di debolezza della Totalità, che è il principio vitale. Ma è anche il modo in cui la Totalità si manifesta. Cioè la Totalità si manifesta a noi attraverso la sua sprezzatura.
Ora nel tragico, il segno è in se stesso insignificante, inefficace, mentre l’originario si manifesta direttamente.
La contraddizione tragica consiste nel manifestarsi direttamente dell’originario attraverso il percepire come insignificanti i segni con cui ordinariamente si manifesta, cioè la luce della vita e il fenomeno, quindi: la vita e la realtà.
L’originario può apparire infatti
soltanto nella sua debolezza;
in quanto però il segno in se stesso (attraverso
cui l’originario appare, cioè la luce della vita e il fenomeno) è posto = 0 come insignificante,
allora anche l’originario, il fondamento celato di ogni natura, può
rappresentarsi.
Dunque solo nel momento in cui si percepiscono la vita e la realtà come =0, cioè come esistenti privi di significato e dunque esistenti a-soggettivi, dunque per noi inesistenti, il fondamento celato di ogni natura può manifestarsi.
15.11.21
Sul nichilismo arcaico:
da Bloch, FR, p. 34
Salomone, Ecclesiaste; tradotto da Lutero col titolo: Il predicatore Salomone.
Troviamo in questo testo la frase “tutto è vanità” in cui risuona chiaramente l’influenza dello scetticismo e
del materialismo greco. Nel capitolo
III, vesretti 19-21, è detto: “Che la sorte dé mortali è quella delle bestie; è
una sorte identica; come muoiono gli uni, così muoiono le altre; hanno un medesimo
soffio; e l’uomo non ha superiorità
veruna sulla bestia; ché tutto è vanità; tutti vanno nel medesimo luogo; tutti
vengon dalla polvere e tutti tornano alla polvere. Chi sa se il soffio dei mortali sale in alto
e se il soffio della bestia scende in basso sulla terra?”
Continua Bloch:
La reazione degli uomini all’idea della caducità non assumeva necessariamente un carattere
liberatorio, tanto è vero che neppure la religione ebraica arcaica contemplava
l’immortalità. Le scritture più antiche
parlano di Scheol, termine che indica qualcosa di molto simile alla nostra
incoscienza (l’immanenza? NdC).
La fede nell’immmortalità individuale fece la sua comparsa molto tardi, con il
profeta Daniele, e anche allora
esclusivamente all’insegna della resa dei conti e della giustizia: i cattivi
dovevano sopravvivere per scontare il loro castigo e i buoni per assaporare il
trionfo.
Soltanto in seguito la sopravvivenza, da strumento “giudiziario” divenne il
perno di tutta la macchina ideologica della Chiesa di Pietro.
14.11.2021
Il percorso del divenire: Eraclito, Platone, Aritotele, Atoici, umanisti,
Bruno, Holderlin. Fin qui.
15.11.21
E. Bloch: Filosofia del Rinascimento
cap.2
Marsilio Ficino 1433/1499.
Marsilio Ficino rinnovò le idee neoplatoniche, soprattutto l’idea del Lumen
originario da cui è scaturito il mondo, che ha generato e illuminato il cosmo,
operando rispetto a Plotino un inversione di giudizio rispetto alla gerarchia
tra rapporti terreni e ultraterreni.
In Ficino l’Aldiquà è ancora illuninato dall’Aldilà, ma allo stesso modo in cui una lampada di
alabastro splende in virtù dell’invisibile luce che sta al suo interno e dalla
quale possiamo tuttavia prescindere, perché la luminosità è più bella della
luce stessa.
Così, lo splendore emanato dal Lumen originario è più importante del Lumen stesso,
è l’alone, è il bello.
Il sacro, superiore, misterioso ed “estraneo” Aldilà si manifesta come il Bello
nel mondo terreno.
In Pico della Mirandola lo sguardo si svolge ancor più decisamente all’uomo, il
quale conquista la sua precisa autonomia. (…)
L’uomo è posto al centro dell’universo, affinché gli sia più facile – afferma
Pico – guardarsi intorno e vedere cosa
c’è nel mondo.
Il mondo è fatto della sua stessa carne e del suo stesso sangue, dimodocché
l’uomo non avverte più l’angoscia della “assenza di dimora”, la paaura e
l’estraneità.
Il mondo ridiventa pagano, e l’uomo riacquista la dignità greca della della figura eretta, in luogo del
ripiegamento ocntrito, della linea curva e spezzata delle figure gotiche
genuflesse. Nella sua “Oratio de dignitate hominis” Pico dice: ““Gli animalii
traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro, e gli spiriti superiori sono fin dal
principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una
crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili
forme di vita”.
Il fatto che solo l’uomo non sia compiuto, che la sua esistenza sia in
divenire, in questo consiste la sua dignità.
L’uomo ha e non ha, nel suo avere c’è un
non avere, perciò deve aspirare all’avere, ma nel suo non avere c’è un avere,
perciò può aspirare alla luce.
In polemica cin Platone: ciò che è percepibile dai sensi vale più dell’Aldilà
delle idee, la creatura più del creatore: essa traslumina il Creatore nel
concetto.
Le forze celesti salgono e scendono, il
mondo è pieno di forze che fluiscono dall’alto verso il basso e dal basso
verso l’alto.
Con Francesco Patrizzi ci troviamo non soltanto di fronte alla rivificazione
dell’universo, né solo di fronte alla perdita di peso del Creatore rispetto
alla creatura, bensì anche all’attribuzione al principio supremo di un nome che
non era più risuonato dall’epoca di Parmenide: il nome di Hen Kai Pan.
Il nome significa non solo la panteistica organicità universale del mondo, ma anche il fatto che non esiste nient’altro
che l’uno e il tutto, l’unotutto che Patrizzi chiama Unomnia.
L’Unomnia è l’unico Lumen originario che riempie l’infinito spazio cosmico. Non c’è materia
morta, bensì in tuttospira il soffio vitale panteistico, il soffio di divina
immanenza della vita. In questo contesto non interrotto da alcuna trascendenza
non c’è posto per i miracoli e non esistono alri infiniti al di fuori del
soffio del Pneuma.
Rivalutazione di Aristotele.
Pomponazzi rinnovò lo studio di Aritotele. Con la sua opera principale, De immortalitate
animae, Pomponazzi nega la sopravvivenza individuale, e così anche il destino
paradisiaco e infernale dell’anima umana.
Vibrando in questo modo un durissimo colpo ala potere ecclesiastico, che
era il potere di rimettere i peccati. La chiesa fondava il suo potere sul
terrore della trascendenza, che torturò gli uomini fino al XVIII secolo.
Secondo l’originale aristotelico tuttavia l’anima è l’entelechia (il compiersi)
del corpo, e il trapassare del corpo ne liquida la sussistenza. In Aristotele
lo spirito dell’umanità sopravvive, ma non a livello personale, ma solo come
nostra parte migliore.
Ricordi e destini personali svaniscono con la morte, noi non contiamo per il
nostro fugace passaggio nella vita, né veniamo quindo premiati per i nostri meriti
personali.
Importanza di Ficino: con lui per la prima volta “la luminosità è più bella
della luce stessa”; cioè il creato è più bello del creatore, ovvero il
“creatore si manifesta attraverso il bello nel mondo terreno”.
Dunque il creato non è tutto bello; ed è
nella bellezza che il creatore si manifesta, perché la bellezza è “la
luminosità che deriva dalla luce originaria”. (Ma com’è possibile che dal
creatore derivino parti del creato non belle? Solo ammettendo che il creato si
sviluppi autonomamente, relegando il ruolo del creatore al solo ruolo di Lumen originario.)
E’ questa comunque la rivoluzione che sta alla base della “scoperta”
dell’armonia universale. Ed è una rivoluzione perché fino ad allora il bello e
la natura erano considerati luogo del diavolo (il bello che suscita il
desiderio dunque causa il peccato).
“L’uomo prende consapevolezza dell’Aldiquà, diviene conscio delle forze
meravigliose che governano il mondo” (Bloch).
Con Pico poi il
mondo diventa stessa carne e stesso sangue dell’uomo, lasciando così
intravedere la possibilità anche per l’uomo di partecipare alla bellezza, di
ricongiungersi con Dio. Pico per primo
teorizza il divenire in senso neoplatonico: tu solo uomo hai uno sviluppo, ti
puoi elevare.
“Gli animalii traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro, e gli spiriti superiori sono fin dal
principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una
crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili
forme di vita”.
Verso cosa si eleva l’uomo? Verso Dio? Non più. Verso l’Unomnia, l’Uno e Tutto
di Patrizzi, che per primo riporta in auge il concetto di ev kai pan.
Infine Pomponazzi, smontando l’interpretazione scolastica di Aristotele,
delinea il concetto di divenire come è giunto fino a noi.
“L’anima è l’entelechia (Aristotelico: la realtà che ha raggiunto il pieno
grado del suo sviluppo) del corpo, e il trapassare del corpo ne liquida la
sussistenza. Certo, in Aristotele lo spirito generale dell’umanità sopravvive,
ma non a livello personale, bensì come
nostra parte migliore. Ricordi e destino personasle svaniscono con la morte,
noi non contiamo per il nostro fugace
passaggio nella vita, né veniamo quindi premiati per i nostri meriti
peresonali.
Egli negava non solo l’immortalità personale,
ma anche quella della parte attiva e generale dell’anima di cui Avicenna
e Averroe avevano sottolineato la centralità, sviluppando la dottrina
aristotelica.
Per i due pensatori arabi l’umanità è un
albero, su cui si avvicendano senza posa le foglie e, come le foglie tornano in
autunno nell’albero, così al momento della morte gli uomini rientrano
nell’umanità generale. Pomponazzi respinge come mistica questa concezione e
vede la morte come un ritorno non tanto all’umanità generale, quanto nella
materia generale.
Anche per Avicenna e Averroè tuttavia nell’immagine dell’albero imperituro era
implicita l’idea del tutto omnicomprensivo, dell’eterna materia. Per essi la
meteria non era semplice cera per l’impronta delle forme, bensì la forma stessa
faceva parte della materia, vista come fondamento originario di tutte le cose.
Così concepita la materia diventa essa stessa dator formarum, matrice delle
forma e capace quindi di trarre dal suo grembo, senza l’ausilio di una forma
trascendente, tutti i fenomeni del mondo, destinati poi a far ritorno alla
materia.
21.11.21
Ogni immagine, che sia prodotta dagli uomini con segni, colori, ma anche
parole, o che sia solo pensiero, o ancora che sia prodotta dagli dei (riflessi,
ombre, sogni) è sempre un chiamare in presenza qualcosa che è assente. Così
sono i ricordi e le raffigurazioni pittoriche, o le immagini che ci mandano gli
dei, nelle quali ciò è ancora più evidente perché tali figure (eidolon) non
sono solo simili a ciò di cui sono l’immagine, ma ne richiamano anche
l’essenza, con la voce, con le parole, con i gesti; sono, in qualche modo, una
loro presenza, anche se nel momento in cui Achille cerca di abbracciare
Patroclo, quello stesso Patroclo che pure gli sta parlando – non ci riesce,
essendo egli contemporaneamente presente ma assente, in quanto morto.
Ogni immagine è sempre copia, riproduzione di qualcosa che esiste, differenza.
Essa istituisce sempre una distanza. Per
riprodurre l’ampiezza del reale infatti abbiamo necessità di effettuare una sintesi
a posteriori delle immagini parziali, cioè dei frammenti dello spazio che ci
sta davanti, che riceviamo in continuazione attraverso l’apertura dell’occhio.
Per questo il vedere è sempre una elaborazione mentale, ed essendo la mente il
risultato di una formazione culturale, il vedere è sempre una operazione
culturale e dunque, nell’atto stesso, interpretativa.
A differenza degli altri sensi, che sono im-mediati, nel senso che non
richiedono una mediazione, un processo di elaborazione, ma vengono percepiti
per via diretta (odore, suono, tatto),
la visione è una attività di sintesi che presuppone la necessità di una
analisi preventiva. Il sostrato culturale che costituisce la mente, cioè che è
la mente elaborativa, interviene in
entrambe le fasi, selezionando (su una base culturale) le immagini che faranno
parte della sintesi, e sintetizzandole, appunto, secondo uno schema
precostituito in modo da ottenere un risultato aspettato, cioè che si inserisce
nell’ambito delle esperienze catalogate e quindi gestibili. Quando diciamo che
vediamo solo ciò che vogliamo vedere, o sentiamo – per analogia – solo quello
che vogliamo sentire, diciamo esattamente questo.
Non si può distinguere l’occhio, lo strumento ottico, dal cervello, lo
strumento interpretativo. Dunque il senso vero non è “la vista”, ma “la
visione”, cioè la capacità di ricostruire in tempo reale sinteticamente e
artificialmente ciò che ci sta davanti.
Per questo l’atto del vedere, che in virtù della prevalenza che ha acquisito
tra le attività dell’essere, anche per causa delle protesi tecnologiche, è
ormai l’atto stesso del vivere, cioè dell’essere in vita, si costituisce, nel
momento stesso in cui si pone in essere, come alienazione, distacco,
duplicazione, presa di distanza dal reale, cioè da quello che veramente esiste.
E, coincidendo quindi la visione con
l’essenza stessa dell’essere, ne discende che la vita è, nel suo costituirsi
come principium individuationis, qualcosa che viene a mancare. Segno/immagine,
essa stessa, di un’assenza.
23.11.21
M. Ficino – Treccani
Nella sua massima opera, la Teologia Platonica, egli tentò di svolgere il suo
concetto fondamentale dell’identità perfetta della filosofia con la religione.
Il problenma dell’infinito e del finito fu per lui, come per il Cusano, il problema principale della religione e
quindi della filosofia. Egli notava che l’uomo non differisce dagli animali se
non per la religione. Ma la religione è lo stesso infinito che è in noi. Questo
concetto importa la divinizzazione dell’uomo, ma nel senso che non è Dio che
deifica l’uomo, bensì è l’uomo che si deifica. Di qui la rappresentazione
dell’anima razionale come l’unità di finito e di infinito, di eterno e di
temporale. “Le cose che sono sopra l’anima razionale sono solamente eterne;
quelle che sono sotto lei sono solamente temporali; e l’anima razionale è parte
eterna, parte temporale. Quest’anima imita Iddio con l’unità, gli Angeli con
l’intelletto, la specie prorpia con la ragione,
gli animali bruti col senso, le piante col nutrimento, le cose che mancano di vita con
l’essere. E’ adunque l’anima dell’uomo
in un certo modo tutte le cose”.
Da cui deriva quell’altro concetto ardito che Dio non per altro fine diventò
uomo, se non perché l’uomo “qualche volta, in qualche modo, diventasse Dio”. Per F. la conoscenza di noi stessi
importa la conoscenza del divino che è in noi. Per questa autocoscienza noi non
solo intendiamo noi stessi, ma anche le
altre cose e Dio stesso.
Ma se l’uomo è il compendio di tutto l’universo, è naturale che egli cerchi di
diventare tutto, e di comprendere ed esperimentare in sé tutte le vite, e se si
sforza di diventare Dio egli è progresso infinito.
F. parla di tre guide della nostra vita: la ragione, l’esperienza e l’autorità,
ma in coclusione l’unica guida, a cui si riducono le altre due, è l’esperienza.
Ma l’amore si celebra in grado eminente nella scienza divina che è la
filosofia,perché solo il filosofo possiede una mente divina.
La creatività umana per F. consiste nel fatto che la mente dell’uomo, quando attinge qualche
vero, non vede, ma fa il vero, come Dio
stesso, e allora la mente che possiede l’idea diviene la stessa verità di quella cosa che per una siffatta idea è
stata creata.
In Dio sono le forme sostanziali, che
costituiscono gli esemplari e le cause
di tutte le cose, ma Dio, intendendo e
volendo se stesso, sa e crea tutte le cose.
26.11.21
Holderlin, La giovinezza di H., 1795
contemporaneo alla “Stesura metrica” che in esso rifluisce.
p. 224
Dopo un po’ mi chiese cosa pensassi degli uomini incontrati durante le mie
peregrinazioni. “Più bestiali che divini” replicai brusco e severo com’ero.
“Oh, se solo fossero umani!” rispose lui con serietà e affetto. Lo pregai di spiegarsi.
“ E’ vero” iniziò allora “la misura con cui lo spirito dell’uomo giudica le
cose è sconfinata, e così deve essere! Dobbiamo custodire puro e sacro l’ideale
di tutto il visibile, e il nostro impulso di plasmare secondo il divino che è
in noi ciò che è informe (il divino che è in noi – Ficino, Bruno) a
sottomettere allo spirito che domina in noi la Natura che gli si oppone,
quest’impulso mai deve appagarsi a metà del cammino; eppure, quanto più
faticosa è la lotta, tanto più bisogna temere che il combattente ferito getti
via indignato le armi divine, si consegni
prigioniero al destino, rinneghi la ragione e si trasformi in un animale, o
ancora, esacerbato dal contrasto, devasti quel che occorrerebbe proteggere,
distrugga ciò che è pacifico insieme a ciò che è ostile, combatta la Natura per
puro desiderio di lotta e non per volontà di pace, rinneghi la sua umanità,
annienti ogni bisogno innocente che lo univa ad altri spiriti. Ah! Che il mondo
intorno a lui diventi un deserto ed egli
cada in rovina nella solitudine pià cupa.”
(Profezia di se stesso! Questo è esattamente quello che gli accadrà nel breve
volgere di dieci anni. Infondo la sua follia, come quella di Nietzsche non è
stata altro che un “consegnarsi progioniero ad destino”).
Vedi Il facitore de le forme
Fui colpito;
anch’egli sembrava turbato.
“Non possiamo negarlo” riprese con tono nuovamente sereno, “nella stessa lotta
con la Natura contiamo sulla sua docilità. E perché non dovremmo? Il nostro
spirito non incontra forse uno spirito benevolo e fraterno in tutto ciò che
esiste? E quello che si rivolge contro di noi in armi, non è un buon maestro,
celato dietro lo scudo? (…) La bellezza ha un senso nascosto. Sappi decifrare
per te il suo sorriso, Giacché così si manifesta al nostro spirito quello
spirito eterno che mai lo abbandona. In ciò che è più piccolo si rivela il
massimo. Il perfetto archetipo dell’arminia lo incontriamo nei sereni moti del
cuore, si manifesta qui, in presenza di questo fanciullo. – Non hai mai sentito
sussurrare le melodie del destino? – Le sue dissonanze significano lo stesso.
(…) Lo so, è il bisogno che ci spinge ad attribuire alla Natura perennemente
mutevole un’affinità con ciò che in noi è immortale. (…) E sul limite del
finito che si fonda la fede; (non sulla ragione) per questo essa è comune a
tutto quanto sa di aver fine.
(…)
Quando il nostro spirito si smarrì nel suo libero volo divino e dall’etere
discese in terra, quando l’abbondanza si unì col bisogno, vi fu l’amore..
Questo accadde nel giorno in cui nacque Afrodite. In quel giorno, quando ebbe
origine per noi la bellezza del mondo, iniziò anche la povertà della vita. Se
fossimo stati un tempo privi di qualsiasi mancanza e liberi da ogni limite,
certo non sarebbe stata vana le perdita del bastare a se stessi, privilegio dei
puri spiriti. Noi abbiamo barattato il sentimento della vita, la lucida
coscienza, con la serenità imperturbabile degli dei. (nota: la nascita
dell’amore, ovvero del desiderio, spinge l’uomo a ricercare qualcosa fuori di
sé, ma lo porta anche a confrontarsi con i propri limiti. In quanto sacrificio
dell’essere sufficienti a se stessi, condizione equiparabile alla “serenità
imperturbabile” degli dei, il desiderio è dunque doloroso.)
Cerca di immaginare lo spirito puro, se ci riesci! Dal momento che non si
interessa della materia, per lui non esiste alcun mondo, né sorge e tramonta
alcun sole; egli è tutto, e perciò non è
niente per sé. Non sente la mancanza di nulla perché non può desiderare; non
soffre perché non vive. (…) Dunque,
noi percepiamo le barriere del nostro essere, e la nostra forza soffocata si
rivolta smaniosa contro le sue catene, lo spirito brama di tornare nella
limpidezza dell’etere. Pure vi è in noi qualcosa che ci fa sopportare
volentieri le catene; se infatti lo spirito non fosse ostacolato da nessun
limite non avremmo percezione né di noi né degli altri. Ma non percepire se
stessi è la morte. La miseria del
finito è indissolubilmente congiunta in noi
con l’abbondanza del divino.
(verificare la traduzione della parola “abbondanza”, che non pare appropriata.
Meglio, per esempio, “ricchezza”).
Non potremo mai negare il nostro impulso a espanderci, a liberarci, sarebbe
bestiale. Ma neppure possiamo sottrarci sdegnosamente all’impulso di ricevere,
di accettare dei limiti. Non sarebbe umano, uccideremmo noi stessi. Il
conflitto tra impulsi, che nessuno può evitare, si concilia in Amore, figlio di
Abbondanza e Bisogno. L’Amore tende continuamente al sommo, all’eccelso,
volge il suo sguardo in alto, la sua meta è la perfezione poiché sua madre,
l’Abbondanza, è di stirpe divina. Eppure raccoglie anche le bacche dai rovi, e le spighe dal campo di stoppie della
vita, e se in una giornata afosa una
creatura benevola gli offre da bere non rifiuta la brocca di coccio, poiché suo
padre è il Bisogno. (…)
Se la verità che hai dentro di te ti viene incontro sotto forma di bellezza
accoglila con riconoscenza, poiché hai bisogno dell’aiuto della natura.
(Qui
H. dichiara la sua visione del divenire, che è quella originaria di Eraclito,
dell’unità dei contrasti in una entità che da questa unità (come processo) è
costituita.)
(nota: riferimento
a Gli artisti, di Shiller; Nei versi di S. però l’incontro con la bellezza
precede, gettandone le basi, la conoscenza del vero. “Ciò che qui percepimmo
come bellezza/ ci verrà incontro un giorno come verità).
(…) Nel suo
dolore abbandona ciò che ama, si affeziona a una cosa o a un’altra della
vita, il più delle volte senza neppure
scegliere, sempre pieno di speranza e ogni volta deluso; spesso torna anche nel suo mondo di idee, , o
ritrova con amaro pentimento quella ricchezza con cui una volta glorificava il
mondo, s’insuperbisce, e allora prova solo odio e disprezzo; spesso il dolore della prima delusione lo
annienta, allora l’uomo va errando senza casa, stanco e senza speranze, sembra
tranquillo soltanto perché non vive più.
(…) Questa è la grandezza dell’uomo, che nulla gli basta in eterno. Essa si palesa nell’insufficenza della tua
forza. (…) Per noi è impossibile avere coscienza di ciò che è senza
imperfezione, così come è impossibile
crearlo.
(…) Tu porti in te il seme dell’infinito! Preservalo nella miseria della vita!
… La Natura non vuole neanche che
dinanzi alle sue tempeste ci si rifugi nel regno dei pensieri, lieti di smemorarci della realtà nel
silenzioso regno del possibile.
(…) Appagata si mantiene sempre la Natura al sicuro nei suoi limiti: la
pianta rimane fedele alla madre terra,
l’uccello costruisce la sua casa trai rami oscuri e si nutre delle
bacche che vi trova; appagata è la Natura,
e la semplicità della sua vita non si disperde mai, poiché essa non
muove pretese al di sopra della sua
povertà. Appagato nella sua eterna pienezza è lo spirito, privo di ogni
difetto, e nella perfezione non vi è alcun mutamento. L’uomo invece non è mai
appagato. Poiché egli brama la ricchezza della divinità, mentre deve
nutrirsi della povertà della Natura.
Non maledire se l’animo mai pago passa frettolosamente da una cosa all’altra
nel mondo sensibile! Esso spera di trovare l’infinito: il torrente vaga
attraverso i rovi in cerca del padre Oceano. Non maledire neppure se lo
spirito dell’uomo, dimentico di se stesso, si smarrisce oltre i suoi confini
nel labirinto dell’inconoscibile, e si
solleva temerario oltre il finito. Ha sete
di realizzarsi. I torrenti indomiti non strariperebbero dalle loro
sponde se non li gonfiassero le acque del cielo.”
In questo passo
Holderlin riprende quali letteralmente un passo di Pico della Mirandola, già
citato da Bloch (vedi):
“Gli animali traggono dal seno materno tutto ciò che occorre loro, e gli spiriti superiori sono fin dal
principio ciò che rimarranno in eterno. Tu solo uomo hai uno sviluppo, una
crescita verso il libero volere, e contieni in te i germi di tutte le possibili
forme di vita”. A conferma di quanto scrive Bloch stesso sull’influenza degli
umanisti sulla filosofia del tardo settecento in Germania.
Evidente inoltre il riferimento al “folle volo” dell’Ulisse dantesco.
p. 232
Tu vedi cosa ti sta dinnanzi. Ma non ti lasaciar confondere! Guarda il lume del
cielo! Ha forse bisogno d’un fuioco esterno per brillare e riscaldare? Ha bisogno
di ringraziamento per fare del bene? Se
la terra è rannuvolata di foschia e non accoglie i suoi limpidi raggi, è forse
più debole la sua luminosità? Sii così anche tu. Pensa e agisci come devi, senza guardarti
intorno; e quando nel tuo retto cammino senti alle spalle il biasimo meschino
della gente meschina, allora immagina davvero quel povero persiano che fece
frustare l’Oceano disubbidiente! Diventare come quegli uomini magnifici che
vivevano un tempo è il tuo pensiero più caro. Preservalo! Non ti scoraggiare.
Non ti accontentare mai a metà strada! Non ti soffermare sulle miserie!
Conserva la calma e aspetta finchè giungerà il tuo tempo! Vivi in comunione con i tuoi eroi!
Difficilmente ne troverai presto di simili tra i vivi. Abbi cura di te giovane
anima! Tu appartieni a un altro mondo. Non occuparti troppo di quello in cui
vivi, fino a quando non giungerà il tuo tempo e potrai agire. Nutri il tuo
cuore con la storia dei giorni migliori, non cercare nulla tra quelli del
presente! Quel poco che essi possono darti non è, almeno ra, niente per te.
27.11.21
G. De Ruggiero
Platone, p. 291
3. Avviamento alla dialettica.
(rif. al divenire, come movimento del pensiero)
Per P. la
dialettica è l’aspetto formale dell’attività del filosofare, cioè il procedimento
euristico delle dottrine filosofiche.
( Treccani:
procedimento euristico: nei
diversi settori della matematica, locuzione che indica genericamente la ricerca
della soluzione di un problema o la scoperta di una proprietà attraverso
tentativi, che non sono tuttavia del tutto ingenui o casuali, ma sono mirati e
si avvalgono delle conoscenze pregresse del ricercatore in materia (→ euristica).
eurìstico agg. [der. del
gr. εὑρίσκω «trovare,
scoprire»] (pl. m. –ci). – Nel
linguaggio scient., detto di ipotesi che viene assunta precipuamente come idea
direttrice nella ricerca dei fatti, e del metodo stesso di ricerca così
condotta: mezzo e., in
senso lato, mezzo di ricerca. In partic., in matematica, procedimento e., qualsiasi
procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico,
ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in
un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.).
Quando P. dice nel Sofista che pensiero e discorso sono la stessa cosa, con la
sola differenza che il dialogo interiore dell’anima con se stessa, senza voce,
si chiama pensiero, mentre ciò che dal pensiero si comunica nella voce si
chiama discorso, egli definisce, senza nominarla, la dialettica come l’attività
discorsiva della mente.
Se l’uomo avessa la capacità di intuire immediatamente e nella sua purezza il vero, senza il grave lavoro di discernerlo a poco a
poco dalla massa delle falsità e delle apparenze, non vi sarebbe alcuna
attività dialettica, ma un’apprensione
diretta del pensiero, una conquista di preziosi risultati senza l’onere
delle ricerche.
(collegamento con il ragionamento sulla differenza tra vista/visione e
gli altri sensi: la ricerca continua potrebbe solo essere lavoro di unione dei
frammenti percepiti dalla vista).
Ma l’organismo dello spirito umano è
tale, che pensiero è tutt’uno con discorso,
cioè graduale apprendimento del vero, lavoro assiduo d’indagine e di
cernita.
(necessario per la limititatezza dello strumento ottico)
Il pensiero ha sempre presente il suo nemico: il falso, l’apparente,
l’irreale; epperò gl’incombe il compito di discutere e vagliare continuamente
la sua opera, (…) Di qui il carattere ritmico della sua attività, che è un
andare e riandare, un progredire e un riflettersi, un affermare e un negare,
come momento di una più fondata affermazione.
Questo vale a spiegarci la struttura dialogica delle opere di Platone, nelle
quali l’intimo colloquio dell’anima con se stessa, cioè il pensiero, si
estrinseca – e si
dà forma – del dialogo,
nell’evidenza dei discorsi.
…
Se l’attività discorsiva della mente ha il suo valore in ciò, che il pensiero
non ha il possesso immediato della verità, ma deve faticosamente ricercarla, se
ne deduce che filosofo non è il beato possessore della sapienza: nessuno
filosofa tra gli dei, cioè tra coloro a cui si palesa la verità nella sua
immediatezza.
(dunque gli dei, per restare al discorso di sopra, sono solo entità che vedeno
come sentono, come odorano, come toccano; cioè la loro vista è
omnicomprendente, tal che non richiede l’elaborazione di immagini frammentarie,
come avviene per l’uomo. Essi vedono tutto insieme e completamente, e dunque
sanno che tutto quello che vedono è il tutto, dunque è vero, perché se fosse
falso non sarebbe il tutto, ma solo una parte.)
Così come per ragioni opposte nessuno filosofa tra gli ignoranti.
Il filosofo quindi è un essere intermedio tra sapiente e ignorante, a cui
l’ignoranza dà la spinta alla ricerca, e la sapienza la meta, l’indirizzo al
suo movinento. Questa medietas è la causa della sua attività: essa è la sua
irrequietazza, quella divina
irrequietezza che lo fa scontento del sapere che possiede e sempre bisognoso di
nuovo sapere e della più perfetta (possibile) adeguazione del proprio essere
all’ideale della sapienza, che è la meta mai raggiunta dei suoi sforzi.
(collegamento con i limiti di
Holderlin)
… Ora, qual è il carattere di quella
identità, che vince il contrasto delle opinioni, componendole in un tutto? Essa
è relazione, riferimento dei contrari uno all’altro, unificazione mentale della
loro pluralità. Quindi è essenzialmente concetto.
29.11.21
Relazione.
L’obiettivo dunque è definire la nostra vera forma, diversa da quella apparente
che abbiamo costruito, e simile a quei giganti che Proust aveva vista nelle
ultima pagine della sua vita. Esseri smisurati, con i piedi nel passato e la
testa nel futuro.
Noi possiamo essere consapevoli della nostra vera forma, cioè di quella forma
che ci consente di essere presenti sia nel presente che nel passato, solo
attraverso la memoria involontaria (Proust, Bergson, Pavese…) o anche per mezzo
dell’arte (io). Più specificamente attraverso la musica e i suoi derivati
(poesia, architettura). Perché la musica è un tempo di natura differente. Il tempo ordinario
istituisce una successione, un andare sempre avanti superando ciò che si è
appena raggiunto. La musica (la poesia, l’architettura) istituisce, E’, un
tempo circolare, un tempo che torna da dove era partito, cioè un tempo in cui
ciò che si muove torna da dove si era mosso, e in questo modo tiene insieme
tutto, tutto lega, leghein.
Il divenire dunque non è l’andare oltre
i propri limiti, il farsi dio, l’elevarsi, ma è, nel suo significato
originario, come Eraclito l’aveva intuito e Holderlin l’aveva codificato, la
“tensione retrograda”, l’essere spinto
indietro mentre si va avanti, l’essere dentro e fuori, soggetto e oggetto, uno
e tutto; cioè il compiere due movimenti opposti nel medesimo tempo, essere e
vivere due stati diversi dell’essere nel medesmo tempo.
Più precisamente, il divenire inteso come tempo circolare è l’espediente che
utilizziamo per sopperire alla nostra incapacità di concepire la compresenza di
stati, movimenti opposti, che è la vera forma in cui esiste il reale, e dunque
esistiamo anche noi.
Dunque la nostra vera essenza non esiste sul piano materiale, nella dimensione
della materia e della necessità, che è il mondo rappresentato; ma esiste solo
nella dimensione parallella che instauriamo nel momento stesso in cui,
concependo noi stessi, instauriamo una distanza tra noi e l’oggetto dando vità
alla rappresentazione della realtà e creando allo stesso tempo un interno nel
quale ci rifugiamo. Cioè il mondo in cui vive colui che rappresenta, colui che
compie l’azione di rappresentare, cioè di esistere.
1.12.21
Il Tutto è necessariamente vero, perché se contenesse qualcosa di falso non potrebbe essere tutto, mancando sempre il vero.
E se non fosse vero significa che dovrebbe esistere qualcosa oltre al tutto che sia vero, il che è impossibile.
Che il tutto sia vero significa che vero è solo il tutto. Cioè che non può esistere una verità parziale, ma solo la verità per sé di una parte, che è non-verità per il tutto.
Significa cioè che una parte non può conoscere il vero, ma solo chi può percepire e comprendere il tutto può conoscere il vero.
Ma il vero non è qualcosa di misterioso, o qualcosa che salva.
E’ solo la somma di ogni non-verità parziale. La somma delle necessità di tutto ciò che esiste, perche la verità non-verità di ogni cosa non è che la sua necessità.
Se consideriamo l’essere come un Tutto, cioe per quella molteplicità di aspetti quale in effetti è, risulta per analogia che la verità di ogni singolo aspetto dell’ essere (cioè la percezione della realtà che ha quel singolo aspetto) è una non-verità, corrispondente alla necessità di quel singolo aspetto. Esiste cioè la realtà dell’aspetto triste, la realtà dell’aspetto felice, di quello che ha fretta, di quello contemplativo, di quello che ha mal di stomaco, e sono tutte verità parziali, cioè verità di una parte, dunque non-verità, nel senso che sono tutte verità una diversa dall’altra, il che è una cosa che non si può dire, essendo la verità necessariamente una. E dunque questa verità, cioè la percezione della realtà come essa è veramente, non può che essere la somma delle non-verità di ogni singolo aspetto che siamo. Il che significa che la verità, cioè la realtà, non è per noi accessibile, non essendo in grado noi, per l’ordinario, di avere coscienza unitaria della molteplicità dei nostri stessi aspetti. L’unica verità cui possiamo aspirare è una non-verità parziale, diversa per ogni nostro singolo aspetto.
Questo è anche il motivo per cui siamo portati a cercare – e spesso ahimè, a trovare – la verità fuori di noi.
3.12.21
E dunque ci voleva il vecchio prof. De Ruggiero per farmi capire Eraclito e
Parmenide. La catastrofe italiana del dopoguerra è ben rappresentata dal
successo editoriale e scolastico dell’Abbagnano. Uno dei pochi libri – tanti,
in verità – di cui si può con certezza affermare che dopo averlo letto se ne sa
meno di quanto se ne sapesse prima.
Rispetto a
Eraclito: con una semplicità quasi disarmante De Ruggiero spiega il punto
fondamentale del suo pensiero, che è l’originale intuizione del divenire,
travisata da Platone in poi e tale rimasta: il divenire è l’unità dei contrari,
che ineriscono un unico essere – non la loro identità – che non significa
nulla!
E’ ovvio che l’idea del divenire fondata sulla identità dei contrari è una idea
balorda: chi può accettare e condividere il fatto che la notte e il giorno
siano la stessa cosa! Nessuno sano di mente.
Ma Eraclito non diceva questo. La sua originale intuizione è stata travisata
con lo scopo preciso di renderla irrazionale, folle, insensata. Allo scopo di
instaurare quella visione teleologica della vita necessaria al mantenimento dei
privilegi di classe.
L’idea di Eraclito era cosa
completamente diversa: la notte e il
giorno sono (da contrari, cioè differenti) uniti in un essere solo e unico;
fanno parte di un unico essere (che è il
giorno). Come il vecchio e il giovane, come il vivo e il morto, lo sveglio e il
dormiente. Sono aspetti di un unico essere.
Così anche la forma della vita cambia, diventando essa quell’essere in cui il
passato e il presente coesistono. Questa è la declinazione corretta del
divenire, e in questa declinazione la permanenza del passato appare del tutto
“naturale”.
De Ruggiero:
“Unità dei contrari, non identità di essi, e, tanto meno, dei contratìddittori:
tale è il senso e il limite della dialettica eraclitea. Nota: la confusione è
stata fatta da Hegel, che prendendo alla lettera alcune parole di Eraclito, ha
identificato la dialettica eraclitea con la propria”.
Scrive Colli nella presentazione della sua edizione di Eraclito:
“Tutto il pensiero che viene dopo (i presocratici) dipende in qualche modo dal
pensiero di quei sapienti. Sarebbe però un errore voler recuperare la sapienza
greca attraverso quel che ne ha detto la filosofia posteriore: riguardo a tali
parole arcaiche, molte opinioni ancor
oggi autorevoli – ma del tutto fuorvianti – derivano dalle falsificazioni
aristoteliche di quel pensiero, magari riprese ed elaborate dalla storiografia
hegeliana”.
Tale
falsificazione ha consentito l’affermazione dell’idea del divenire come
successione degli stati dell’ente, e l’instaurazione di un tempo lineare al
posto del tempo circolare che scaturiva dall’idea originaria. E il conseguente
potere di gestione del futuro, cioè del destino delle anime (Bloch).
Questa è la pietra falsa su cui è stata fondata la Chiesa, cioè l’Occidente.
4.12.21
Holderlin
Lettera al fratello, 17/4/1795
(…)
Vedo che avrei da dire molte cose ancora, ma mi interrompo, perché vorrei
comunicarTi inoltre, per quanto sia possibile in poche parole, una delle
peculiarità principali della filosofia fichtiana.
“C’è nell’uomo un tendere verso l’infinito, una attività che gli rende
impossibile ogni confine come confine perenne,
impossibile ogni stasi, e cerca
invece di farsi sempre più ampia, libera e indipendente: questa attività, per
suo impulso infinita, è limitata; l’attività illimitata, per suo impulso
infinita, è necessaria nella natura di un essere che abbia coscienza (di un Io,
come Fichte si esprime), ma anche la
limitazione di questa attività è necessaria in un essere che abbia
coscienza, perché se l’attività non
fosse limitata, se non fosse imperfetta, quell’attività sarebbe tutto, e fuori di lei non sarebbe nulla, se dunque
la nostra attività non incontrasse resistenza dall’esterno, fuori di noi non sarebbe nulla, non sapremmo
di nulla, non avremmo coscienza; se nulla ci fosse contro, non ci sarebbe per
noi oggetto; ma così come alla coscienza
sono necessarie la limitazione, la resistenza e il dolore causato dalla resistenza,
altrettanto necessario è il tendere verso l’infinito, un’attività, per impulso
sconfinata, nell’essere che abbia
coscienza, perché se non tendessimo a essere infiniti liberi da ogni
limite, non sentiremmo neppure che
quaklcosa si oppone a quel tendere, dunque di nuovo non sentiremmo nulla di
diverso da noi, non sapremmo nulla, non avremmo coscienza”. – Ho cercato di essere più chiaro possibile,
nella brevità con cui ho dovuto esprimermi.
(nota: non si tratta di una citazione letterale, ma di un riassunto della terza parte della Dottrina
della scienza che era stata pubblicata solo agli inizi di Aprile di quell’anno).
4.12.21
12.12.21 integrazioni.
Materiali sul divenire
ERACLITO
De Ruggiero
pag. 112
Eraclito è il
creatore della dialettica greca, come esemplificazione di una legge di contrasto e di armonia che
domina tutta la realtà.
Da questo puto di vista si spiega il suo disprezzo pere tutto il sapere
precedente che, a suo giudizio, vagava sulla suerficie delle cose senza
penetrarne l’intimo sifnificato.
“La polimatia, cioè l’avere conoscenza di molte cose, non insegna a ragionare. Altrimenti l’avrebbe
insegnato a Esiodo, a Pitagora, a Senofonte e a Ecateo”.
La sua dialettica ricerca l’accordo nei contrasti, l’unità nel vario, la
permanenza nel mutamento. Il tratto specifico della sua filosofia è proprio
nella determinazione che il divenire si svolge tra i contrari e si alimenta
nella loro lotta incessante.
La guerra (ma si può dire: l’azione di contrasto) è madre, regina e principio di tutte le cose. Una continua vicissitudine di vita e di morte forma il ritmo della realtà: il fuoco vive della morte della terra, l’aria della morte del fuoco, l’acqua della morte dell’aria, la terra della morte dell’acqua.
(Assunto fondamentale: assumiamo che
i sapienti parlassero per metafore. Cosa plausibilssima e anzi evidente in
tantissimi casi. Fuori dalla metafora quindi il passo precedente può essere
letto in questo modo:
“Una continua vicissitudine di forze tra loro contrastanti forma il ritmo della realtà”. Ma questa
vicissitudine di forze contrastanti è tale – cioè istituisce un ritmo – solo ai
nostri occhi, solo cioè agli occhi di
chi può cogliere, a causa dei propri limiti, la complessità e pluralità di
relazioni che compongono il reale attraverso la griglia interpretativa
causa-effetto. Cioè agli occhi dichinon può cogliere la sua reale essenza, la
sua sostanziale unità nella permanenza.
L’unità della permanenza è esattamente ciò che esiste, e che possdiamo solo
vedere come pluralità nel divenire.)
Questa azione contrastante ha la sua
radice nella opposizione qualitativa che è negli esseri: fuoco e acqua, tenebre e luce, giorno e notte, inverno e
estate, abbondanza e penuria, sveglio e dormiente, giovane e vecchio, umido e
secco, sano e malato, unisono e dissono, essere e non essere; queste e infinite
altre coppie di opposti presenta la realtà, nella sua spontanea polarizzazione.
Ma la contrarietà non basterebbe per sé sola a determinare il conflitto, se i contrari, in forza della loro natura, tendessero a distaccarsi l’uno dall’altro e a vivere isolati; bisogna dunque aggiungere alla contrarietà l’unità e la comunanza di natura, che avvicini i contrari e li spinga l’uno contro l’altro. (Fr 76). E questo in realtà si osserva nel mondo. Giorno e notte sono una e medesima cosa cioè uno stesso essere che ora è chiaro, ora è oscuro.
Uno e identico
è il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio, in quanto che nel
suo muoversi l’uno divien l’altro, e l’altro a sua volta l’uno. Bisogna però
notare che, nei citati frammenti, le
espressioni verbali sorpassano la portata del pensiero che vi è racchiuso.
Eraclito sembra affermare l’identità dei contrari, ma, di fatto, egli ne
afferma solo l’unità. Giorno e notte, giovane e vecchio, non sono per lui la
stessa cosa, ma cose opposte; e non si convertono uno nell’altro, bensì
ineriscono nello stesso essere, creando per questo il contrasto (essendo cose opposte).
L’unità è nell’ente da cui si diramano e di cui ognuno vorrebbe essere espressione
unica e totale; per esempio, nella vita, che è gioventù e vecchiezza, e diviene
teatro del contrasto tra le due forze che tentano di sopraffarsi a Vicenza.
Unità dei contrari, non identità di essi, e tantomeno dei contraddittori (nota:
la confusione è stata fatta da Hegel, che prendendo alla lettera alcune parole
di Eraclito, ha identificato la dialettica eraclitea con la propria).
Tutto ciò che
nel mondo avviene, si fa per tensioni opposte, come nella lira e nell’arco; v’è
dunque un’intima concordia nell’apparente discordia, un’armonia segreta che
vince la disarminia dei contrasti. (fr
8).
In ultima istanza, c’è una razionalità intima delle cose, che si dissimula alla
vista ma si attua nel profondo, perché “la natura ama celarsi”.
(Tale armonia è appunto l’unità dell’essere, che si rivela nell’unità dei contrasti, vivo-morto, giorno-notte. Ma Eraclito non può che risolvere questa unità attraverso uno spostamento temporale, inventando appunto il divenire. Dice infatti che giorno e notte sono una e medesima cosa, cioè uno stesso essere che ora è chiaro e ora è scuro; Ma questo essere quando è chiaro non può essere scuro, e quando è scuro non può essere chiaro. L’unità dunque non è instrinsera ma esteriore. E’ cioè un essere unitario ma formato da due parti distinte. Altra cosa è l’essere che, essendo unità intrinseca, è chiaro e scuro, giorno e notte nello stesso tempo. Solo questo è uno, e questa è la forma della realtà vera, che, come è evidente non possiamo concepire sulla base degli strumenti interpretativi che abbiamo fin qui utilizzato.)
Noi ci lasciamo colpire dalla parvenze esterne,
secondo le quali la lotta è sempre distruzione e dissipazione di forze,
e immaginiamo come uno stato felice il dominio incontrastato del solo termine positivo:
una giustizia senza ingiustizia, una verità senza errore ecc. Ma se questo
stato potesse realizzarsi esse sarebbero soggetto a inerzia e a dissipazione;
ciò che le alimenta è l’antitesi, che continuamente rinasce, dell’ingiustizia,
dell’errore ecc. E’ proprio qui la
razionalità che si cela nella più riposta natura degli esseri, e che Eraclito
eleva a dignità di Dio e di Logo.
(vedi Holderlin, Giovinezza di Hyperion,
lettera 89 sulla filosofia di Fichte ecc.)
E’ una realtà sola infatti, uno stesso Dio, che accoglie in sé i contrari ed
esprime la loro identica natura e insieme la ragione della lotta.
(Qui si rivela il limite del ragionamento. Dire che se non ci fossa una controparte negativa non potrebbe esistere la parte positiva, che si costituisce come soggetto in opposizione a un oggetto; dire cioè che un soggetto può darsi solo in opposizione ad un oggetto significa operare una scissione dell’essere necessaria ma arbitraria. Necessaria per l’impossibilità di affermare il principio di costraddizione che costraddistingue l’essenza del reale, cioè che A=B, perché A e B sono intrinsecamente uniti; ma arbitraria appunto perché non vera, cioè non esistente nella realtà, ma solo nella realtà interpretata.)
La genialità di
Eraclito si rivela in questa intuizione profonda dell’uno nei più, dell’essere
nel divenire, e nel presentimento del significato razionale e mentale di questa
unità e realtà. La legge non ha la stabilità inerte e sterile di una natura
materiale; essa è un rapporto tra le
cose, è un ordine, una proporzione, una armonia; quindi ha una realtà
d’ordine ideale e mentale.
(Collegamento con l’Umanesimo e il
Rinascimento)
La sua stabilità è quella di un pensiero eterno che domina il mondo; in virtù
di essa, un raggio dell’intelligenza brilla nella natura, e la vita delle
creature ha un significato divino.
(Quello che De Ruggiero non coglie è quindi il carattere fittizio di questa unità, che è appunto unione di parti distinte, ma non unione intrinseca, in un unico essere, cioé in un unica sostanza, di stati differenti.)
6.12.21
Relazione
segue la relazione del 29 11.
Il divenire – cioè il mutamento di stato di un ente – è lo schema
interpretativo che utilizziamo per interfacciarci con la realtà. Realtà –
questa è la tesi – che è costituita dalla compresenza di diversi stati
dell’ente, che solo per nostra difficoltà si manifestano in successione, cioè in
divenire.
La realtà è in permanenza pluralità di aspetti dell’essere che noi possiamo
cogliere solo instaurando tra gli stessi aspetti una successione.
Semplificando: non possiamo vedere una persona triste e felice nel medesimo
istante. Dunque la vedremo cambiare, e da triste che era la vedremo diventare
felice. Ma in realtà quella persona è sempre triste e felice nello stesso
tempo, nel senso che è quell’essere che è triste e felice. (vedi appendice del
10.12.21)
Noi non possiamo concepire la possibilità di compiere due movimenti opposti
nello stesso tempo. Eraclito è stato il primo a intuire che in realtà è proprio
questo che avviene.
Perché l’essere è sempre la relazionedi forze contrastanti, di stati diuversi.
Se non ci fossero stati diversi e forze contrastanti non esisterebbe l’essere,
che la loro unione, la loro relazione. Questo è il divenire di Eraclito e di
Holderlin.
In sostanza ci sono due modi diversi di intendere il divenire: il primo, quello
di Eraclito, quello originario, istituisce un tempo circolare, cioè un
movimento in avanti e in-dietro, un movimento di allontanamento da uno stato e
un successivo movimento di ritorno allo stato da cui ci si è allontanati.
Questo tempo circolare è un tempo che riavvolgendosi su se stesso tiene insieme
– in presenza – tutti gli aspetti che ha attraversato; il secondo, quello
derivato dal primo ma modificato nell’essenza del significato, da Platone
prima, ma soprattutto da Aristotele e definitivamente da Hegel, istituisce un
tempo lineare, un movimento continuo in avanti che dimentica quello che si
lascia dietro (le macerie dell’Angelo della Storia), funzionale ad una
concezione teleologica della vita, al raggiungimento di un fine – la salvezza
dell’anima o il mantenimento dei livelli occupazionali. Ma questo tempo
lineare, che non è naturale, instaura una realtà artificiale, costringendo la
vita stessa in un mondo che non le appartiene.
In questo senso “il divenire”, così come la tradizione del pensiero occidentale l’ha codificato, è il primo strumento ideologico della storia.
9.12.21
Eraclito, Gompers, Pensatori, p. 100
La grande originalità di E. non consiste nella sua dottrina circa la materia originaria,
e nemmeno nella sua dottrina circa la natura in generale, ma piuttosto
nell’avere egli per primo tesuto fra la vita della natura e quella dello
spirito una trama di rapporti che dopo non è stata più spezzata.
…
La forma materiale che a lui sembra ottimamente corrispondere alla essenza
stessa del processo della vita universale … è quella stessa che mai presenta
l’aspetto della quiete, o anche di un movimento lento, e che appare il
principio del calore vitale negli esseri organici superiori, e per conseguenza
il principio stesso della animazione: il fuoco. Esso è l’elemento che a tutto
dà vita e tutto distrugge:
“Questo ordine sommo di tutte le cose (cioè il mondo) non l’ha creato nessuno
degli Dei, come nessuno degli uomini, ma senpre fù, è e sarà un eternamente
vivente fuoco, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne”.
…
Per lui esso
(il fuoco) è anche il principio della intelligenza universale, la norma, che si
rende cosciente, di ogni esistenza; esso è tale che “non vuole essere chiamato
Zeus” giacchè non è nessun essere individuo e che tuttavia “vuole essere
chiamato così” perché è il supremo principio del mondo.
Costruzione e distruzione, distruzione e construzione: questa è la legge che si
estende a ogni sfera della vita e della natura. Anche il cosmo, sorto dal fuoco
primordiale, deve ad esso fare ritorno (!). Ciò con non altro fine di quello
che il processo di differenziazione abbia nuovamente inizio, per pervenire ad
un medesimo risultato finale.
La vastità di questa veduta accosta Eraclito ai maggiori scienziati dei nostri
tempi.
Alla materia E.
non attribuisce solo il mutamento continuo della forma e delle proprietà; egli la
considera altresì in perpetuo movimento nello spazio. Tutto ciò che vive è in
una vicenda di continua scomposizione e di rinnavamento. Da ciò scaturisce la dottrina del fluire
delle cose. Quando il nostro occhio percepisce qualche cosa di permanente, ciò
non è che mera apparenza; ogni cosa, in realtà, è in continua trasformazione.
…
Le impressioni olfattive, e anche quelle visive sono prodotte da particelle
materiali che incessantemente si distaccano dagli oggetti.
Quella di E. è una concezione della
natura che concorda mirabilmente con le teorie della fisica moderna, al
punto che un antico ragguaglio intorno alla dottrina eraclitea concorda parola
per parola con una moderna sintetica
enunciazione di queste teorie:
Aristotele: “Ci sono alcuni che che ritengono non esservi già alcune cose che si muovo ed altre no, ma che
tutte si muovono di continuo, sebbene questo movimento si sottragga alla nostra
percezione”.
Lewes, Growe, Spencer: “La scienza odierna tiene per certo che le particelle materiali siano in continuo
movimento… sebbene questo movimento si sottragga alla nostra percezione”.
Col riconoscimento dell’esistenza di movimenti invisibili veniva abbattuto un
muro che impediva di penetrare i segreti della natura, anche in virtù di una
seconda visione: l’assunzione della esistenza di corpuscoli non solo
invisibili, ma altresì indistruttibili e immutabili, di cui si costituisce ogni
sostanza e che permangono sempre i medesimi in qual si voglia mutamento di
forma delle masse corporee: cioè la grande conquista degli atomisti.
10.12.21
Appendice alla Relazione del 6.12.21
Si riprende dalla nota.
– Ma in realtà egli è triste e felice nello stesso tempo. Nel senso che è quell’essere che è triste e felice.
Quindi non nel
senso che è triste ora e felice dopo, ma che è triste e felice insieme. Questo
è possibile perché un essere è, si pensa, ha consapevolezza di sé, sempre in
maniera parziale; mai nella complessità di ciò che è veramente.
Io posso percepirmi non, solo in un
momento preciso della mia evoluzione, del mio perenne mutamento, ma, solo in un aspetto preciso e
limitato della complessità degli aspetti che sono. Posso vedere, e rendere
manifesto, solo uno dei molti aspetti che sono. Ma gli altri esistono comunque,
ed esistono contemporaneamente a quello che ho evidenziato astraendolo, il quale
con il peso della presenza finisce per rappresentare erroneamente la totalità
di ciò che sono.
Per questo, proprio mentre sono triste, proprio in questo preciso momento, io
sono comunque quello che è anche felice, che è anche distratto, che è anche
interessato a una cosa particolare, che è entusiata, che è annoiato, che è
spaventato, che è fiducioso, che non si fida, che ha speranza, che s’illude,
che si deprime, che prova imbarazzo, che si piace, che prova rabbia, che è
comprensivo, che si preoccupa, che è sereno. Non potendo pensarmi in tutte
queste e chissà quante altre cose insieme, per un limite strutturale del mio
sistema di elaborazione dei dati, ho avuto necessità di inventare il divenire,
il cambiamento, giustificando la pluralità
dei miei aspetti con il loro apparire in successione. Ma questo è solo uno
schema di lettura, una griglia interpretativa, che serve appunto a gestire la
complessità dell’essere con uno strumento funzionalmente limitato.
Dunque non posso cogliermi nella mia complessità e interezza perché la mia
mente è uno strumento limitato nelle possibilità.
E’ possibile che non sia sempre stato
così.
La mia mente, nella attuale fase evolutiva, è uno strumento limitato perché e
destinata prevalentemente alla codificazione dei dati proverienti dall’apparato
ottico. Il quale è esso per primo limitato, in quanto capace di cogliere solo
quello che ha davanti. Deve muoversi (girare la testa) per cogliere quello che
sta accanto a ciò che gli sta davanti, e questo implica uno spazio temporale
che istituisce una frammentazione della visione e una successione nella
percezione del reale, che già come successione di segnali arriva al cervello,
che dunque come successione di vedute lo codifica. La nostra mente elabora una
immagine complessa per successione di
immagini frammentate. E’ già insito in
questo processo la necessità del divenire.
Probabilmente in un tempo passato in cui i sensi erano tutti allo stesso modo valenti la nostra mente aveva la capacità di elaborare segnali multidirezionali restituendo una percezione (non più solo visione) del reale più compessa.
E cosa sarebbe per esempio se fossi dotato di un apparato ottico formato da una
moltitudine di occhi che mi consentisse di vedere
(cioè di percepire il dato im-mediato, cioè senza mediazione) non ciò che
mi sta davanti ma ciò che sta intorno a me in una sfera percettiva; cioè di
vedere nello stesso istante ciò che mi sta davanti, dietro, in alto, in basso,
a destra, a sinistra e in ogni singolo punto del guscio sferico di percezione
al centro del quale sono situato.
Se quindi la mia mente fosse in grado di cogliere nell’istante la totalità di ciò che la circonda in ogni
direzione. In fondo è solo un problema di quantità, non di qualità. Dunque
potrebbe essere possibile, e anzi forse presto lo sarà.
Una mente in grado di cogliere la molteplicità e la complessità del reale con uno sguardo, che non sarebbe più lo sguardo al quale siamo abituati ma sarebbe piuttosto una espansione inflattiva dell’essere, pargonabile cioè alla fase inflattiva che segue il big bang , avrebbe probabilmente anche la capacità di cogliersi nella sua interezza. Sarebbe quindi sempre tutto ciò che è, senza aver bisogno di far finta di cambiare.
In mancanza di
ciò, come avremmo potuto cogliere l’unità dell’essere senza il divenire?
L’unità dell’essere (nella molteplicità dei suoi aspetti) che conduce Parmenide
alla contraddizione della negazione della molteplicità, degradata e posta nella dimensone delle
opinioni, viene interpretata da Eraclito nel nenso del divenire, e in questo
modo risolta.
Cioè Eraclito risolve, attraverso il divenire, quindi attraverso il perenne
cambiamento delle cose, l’impossibilità
per il nostro limitato intelletto di comprendere l’essere nella sua unità
sempre presente.
Il divenire quindi è, per noi, l’unica forma possibile in cui possiamo cogliere
l’unità dell’essere. E il lavoro di Cézanne sulla Montagna, che è il lavoro di
una vita intera, cioè è quella vita nella sua essenza, è il tentativo di ricondurre la molteplicità
all’unità, o di rappresentare la molteplicità dell’unità. Scriveva A. Vollard:
12.12.21
Materiali su Cézanne
Doran, Cezanne, p. 9
A. Vollard:
“Nel mio ritratto ci sono, sopra la mano, due piccoli punti dove la tela non è
coperta. Lo feci notare a Cézanne: “Se
la mia seduta pomeridiana al Louvre è buona”, mi rispose, “forse domani troverò
il tono giusto per tappare quei bianchi. Cerchi di capire, Vollard, se io ci mettessi qualcosa a caso, sarei
costretto a riprendere da capo tutto il quadro partendo da questo punto”.”
25.21.11
Il presente sono i miei pensieri. E lo sono (presente) anche quelli pensati in
passato e annotati. Leggendoli ridiventano presente. Questa è la prova semplice
del fatto che il tempo non esiste, o meglio, che non esiste differenza tra
passato e presente, e per conseguenza neanche tra presente e futuro. Essendo i
miei pensieri di ieri, riletti e ripensati oggi, presente a tutti gli effetti,
e presente di domani, cioè futuro.
26.12.21
Materiali su Cézanne
Doran, Cezanne
Borely (1902)
– Mostrarle dei tentativi? Ahimé, benché già vecchio, sono ancora agli inizi.
Tuttavia comincio a capire, se così si può dire, io comincio a capire.
– Ho cercato per tanto tempo: si, cerco ancora; sono a questo punto, alla mia età! Non si stupisca dei miei discorsi sconnessi, ho qualche vuoto.
– Com’è difficile dipingere bene! Come volgersi con semplicità verso la natura? Guardi, da quest’albero a noi c’è uno spazio, un’atmosfera, d’accordo; ma poi c’è questo tronco, palpabile, resistente, un corpo… Vedere come chi è appena nato!
– Ora la nostra vista è un po’ stanca, ingannata dal ricordo di mille immagini. E poi i musei, i quadri dei musei! E le esposizioni! … Non vediamo più la natura, rivediamo i quadri. Riuscire a vedere l’opera di Dio! Questo io perseguo.
Lettera a
Bernard
– Io procedo molto lentamente. La natura mi si presenta terribilmente complessa
e i progressi da compiere sono incessanti.
L’arte si rivolge a un numero eccessivamente esiguo di individui.
L. Lauguier
(1901-2)
Aforismi di Cézanne
XII. Per l’artista, vedere è immaginare, e immaginare è comporre.
XIII. Perché l’artista non registra le proprie emozioni come l’uccello modula
il suo canto: egli compone. (in risposta a ciò che dice Monet: “Io dipingo come
l’uccello canta”.
XV. L’arte è una religione. Il suo scopo è l’elevazione del pensiero.
XVI. Chi non ama l’assoluto (la perfezione) si accontenta di una tranquilla
mediocrità.
XXIV. La ricerca del nuovo e dell’originale è un bisogno artificiale che mal
dissimula la banalità e l’assenza di temperamento.
(frammenti eraclitei?)
XXV. La linea e il modellato non esistono affatto. Il disegno è un rapporto di contrasti o più
semplicemente il rapporto tra due tonalità, il bianco e il nero. XXX. Contrasti
e rapporti di toni, ecco il segreto del disegno e del modellato.
XXXI. La natura è in profondità. Fra il pittore e il suo modello si interpone
un piano: l’atmosfera. I corpi visti nello spazio sono tutti convessi.
XXXII. L’atmosfera forma lo sfondo immutabile sul cui schermo si vengono a
comporre tutti i contrasti di colore, tutte le variazioni di luce.
XXXIII. Si può dunque affermare che dipingere è contrastare.
XXXIV. Non esistono né una pittura chiara né una pittura scura, ma
semplicemente rapporti di tonalità. Quando queste sono messe in modo giusto,
l’armonia si stabilisce dal sola.
XXXVI. L’artista non distingue direttamente tutti i rapporti: li sente.
XLI. …Dipingere non è copiare servilmente l’oggettività: è cogliere un’armonia
tra molti rapporti, e trasporli in una propria gamma sviluppandoli secondo una
logica nuova e originale. (traduzione dubbia)
Da Bernard (1904-1906) pag. 66
“Avevamo appeso alla parete una piccola
natura morta di cézanne che avevo acquistato a Parigi da almeno 15 anni. Gliela
mostra. “E’ proprio brutta”, disse. “E sua – risposi – e io la trovo
decisamente bella”. “Dunque questo
ammirano adesso a Parigi? – replicò – Ebbene, il resto deve essere molto
mediocre!” A Cézanne non piaceva che gli si parlasse di lui. (…) Non c’era affettazione
nel suo modo di fare, solo la certezza che quanto aveva fatto fino ad allora
non era che l’inizio di ciò che egli avrebbe prodotto, se fosse vissuto ancora
a lungo. “Faccio qualche progresso ogni giorno – mi diceva – questo è
l’essenziale”.
(…) Parecchie volte rimasi interdetto per ciò che mi mostrava affermando che
stava progredendo, perché lo trovavo inferiore a ciò che avevo visto in
precedenza. Si sarebbe visto con chiarezza quando fosse arrivato alla
conclusione del lavoro, ma raramente ci arrivava. Siccome aveva un modo di
lavorare molto lento, spesso accadeva che il suo quadro restasse interrotto nel
bel mezzo; ho visto molti paesaggi che
non erano abbozzi, non erano studi, ma
solo gamme di colori iniziate e che il tempo aveva interrotto. C’era una quantità di motif, di cui non era
neppure coperta integralmente la tela.
29.12.21
Cominciati oggi gli studi di metrica, necessari per avvalorare e
contestualizzare una delle idee di base che costituiscono la mia ricerca: e
cioè che il verso istituisce una dimensione temporale differente da quella istituita
dal parlare ordinario, che è la
dimensione del tempo in cui tutto torna. Nel senso che attraverso l’esposizione
del ritmo del verso il tempo torna dove era partito, tenendo così insieme tutto
quello che nel suo farsi è avvenuto.
Questo tempo ciclico è l’Eterno Ritorno, che non è il ritorno del passato, ma
il ritorno dei pensieri e dei sentimenti – cioè di tutto il sentito – del
passato, e non è neanche ritorno, perché i pensieri e il sentito del passato
non sono mai andati via;
ed è anche l’eternità come l’intendeva Spinoza, cioè la pienezza della vita;
ed è, infine, quello che voleva dire Holderlin, quando diceva che poeticamente
abita l’uomo. E cioè che l’uomo abita
solo in un tempo ciclico, cioè abita solo un tempo in cui tutto (sottoforma di
pensieri e sentimenti) torna.
Tempo ciclico che è, e può essere solo il tempo del verso, cioè il tempo
istituito istituito dal verso, e in questo senso l’abitare può essere solo
poetico: cioè abitare poeticamente significa darsi le condizioni per permanere nel tempo ciclico, che è il tempo reale
dell’essere.
Questo oltre al tempo del verso è anche il tempo della musica, anzi lo è
prioritariamente, nel senso che dalla musica tutto discende, sia il verso, che
è appunto un pensare sotto forma di musica, che l’architettura, cioè un
organismo edilizio conformato secondo misure e proporzioni armoniche ricavate
dalla musica, nel quale ogni elemento entra in risonanza con gli altri,
costringendo appunto il tempo a tornare sempre da dove era partito, e
rappresentando in questo modo plasticamente l’unita del Tuttto. Questo è il
Duomo di Pavia; questo sono le Cappelle Medicee. Ma questo è anche, fatte le
debite proporzioni, la Robie House, o questo era, per altra via e con altri
mezzi, Casa Miller. Naturalmente non
ogni casa può essere una architettura. Ma ognuno di noi, dal momento in cui inconsapevolmente si
costituisce come soggetto, comincia a
costruire la propria casa interiore, che è l’unico vero luogo in cui il
soggetto vive, indipendentemente dal luogo fisico in cui materialmente si
trova. Abitare poeticamente dunque significa acquisire questa consapevolezza,
cioè significa cominciare ad abitare nella propria casa interiore.
Tuttavia delle condizioni materiali devono darsi, e quando queste si perdono
tutto diventa più difficile. Ogni casa infatti, pur non essendo una
architetttura, dovrebbe, per la sua conformazione (spazi fisici dedicati
all’inutile, cioè metriquadri non redditizi, oggi inconcepibili), e per la sua permeabilità
(permanenza delle storie nelle incrostazioni dell’intonaco e nei graffi del
pavimento, oggi inconcepibili), consentire
quella stratificazione dei giorni trascorsi che, essendo appunto visibile nel
presente sottoforma di trasformazione (ingiallimento, invecchiamento) della materia, conferisce al presente stesso
una diversa consistenza, trasformandolo in quella dimensione del reale che non
è statico e vuoto permanere ma parvenza di altro, che è o che è stato e che
appunto attraverso quella parvenza permane. Trasformando cioè il presente nella
permanenza di ciò che solo apparentemente è passato.
Bisogna cioè che la casa possa invecchiare, e questo non è più possibile, non
solo perche non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (tutto sia
lucido e pulito: questa è l’etica del modernismo);
bisogna che la casa contenga spazi all’apparenza inutili, ma che si riveleranno
preziosi per contenere (e nascondere) “scatole dei bottoni”, e questo non è più
possibile e non solo perché non ne esistono più le necessarie condizioni
culturali (nessun centimetro deve essere sprecato!);
ma semplicemente perché nel moderno modello sociale conformato sulle esigenze
del moderno modello produttivo non esiste più la casa, ma esistono solo alloggi,
come già nel 1945 Adorno aveva già detto, e vengono i brividi a pensare a
quanto oltre, rispetto ad allora, siamo andati; cioè non esiste più la famiglia,
quell’organismo sociale che può nascere solo per conseguenza (e in virtù) della
possibilità per un nucleo di persone di permanere stabilmente in un luogo.
L’abitare poetico, e quindi la possibilità di esperire il tempo reale
dell’essere non è più possibile appunto perché non è più possibile l’abitare,
che etimologicamente significa avere un abito, cioè un abitudine, cioè una
abitazione, che è la condizione in cui si ha un’abitudine: un darsi le
condizioni per cui si manifesti una abitudine: un avere frequestazione di sé:
dunque un “avere se stessi”. Cioè non si può essere pienamente, dunque essere sè nella sua pienezza (l’eternità di Spinoza), se non si ha se stessi. La lingua esprime con immediatezza
quello che pareva impossibile da definire e invece è del tutto evidente. Perché
se non si ha se stessi , non si è di se stessi, ma di qualcun altro.
Dunque schiavi.
Macioce, La metrica italiana:
“Il verso è l’unità elementare della poesia; il suo ritmo, in origine, era
legato a quello della musica, a cui la poesia si accompagnava, ma poi ha
acquistato la sua autonomia. Il suo nome (dal latino vèrtere =
voltare) deriva dall’uso di scriverlo andando a capo e indica anche un ritorno
ciclico del ritmo.”
29.12.21
Da Zeller, Eraclito.
Volendo
definire l’essenza di una cosa si deve distinguere “fra ciò che appartenga a
una cosa in sé stessa e ciò che le appartega solo in relazione ad un’altra, fra
ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente,
fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una
determinata relazione.” Zeller sta parlando di come eraclito non si ponga
neanche il problema di spiegarsi come sia possibile che in uno stesso oggetto
convivano stati opposti. Egli spiega questa posizione adducendo il fatto che al
tempo di Eraclito ancora la logica non era sviluppata. Ma allora Parmenide?
In realtà Eraclito non tenta di spiegarsi il problema perché per lui è un fatto
normale che in uno stesso oggetto convivano tensioni opposte. Come lo è per noi
oggi, o meglio come dovrebbe essere per noi oggi. E quindi, ciò che appartiene
a una cosa in sé, e ciò che appartiene a una cosa in relazione ad un’altra sono
sempre appartenenze della cosa, che le mostra in relazione al contesto, e che
quindi appare diversa in relazione al contesto mostrando ciò che il contesto
richiede. Lo stesso vale per ciò che le appartiene contemporaneamente e ciò che
le competa successivamente, essendo la successione delle competenze solo una
successione di risposte, e quindi una successione di mostramenti di diversi
aspetti di sé. E vale anche, per gli stessi motivi fra ciò che le spetta in
senso assoluto e ciò le tocchi in una determinata relazione.
La portata
delle affermazioni e delle proposizioni di Eraclito è rivoluzionaria ancora
oggi. Dire che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini distinguono tra
giusto e sbagliato è di una radicalità a tutt’oggi non accettabile. Significa
infatti dire che ogni cosa è giusta al suo posto.
Mi chiedo: Nietzsche, che arrivò a dire le stesse cose dopo una serie di
interminabili battaglie, conosceva Eraclito? Avrebbe dovuto, vista la data
delle prime traduzioni tedesche. E come è possibile che non ne faccia cenno?
3.1.22
L’espressione di quel che esiste è un compito infinito.
(Cézanne)
6.1.22
De Ruggiero
II. I Sofisti.
(…) La rapida ascensione democratica nel
5° secolo ha per effetto la radicale rielaborazione e trasformazione delle basi
stesse della vita, e particolarmente della vita pubblica. Ormai il costime e
l’autorità non valgono più a dare un fondamento stabile alla costituzione e
alla funzione dei pubblici poteri, ma sorgono principii e criteri nuovi, in
conformità dei nuovi ordinamenti. Se, con l’avvento della democrazia, spetta al
popolo, riunito nelle assemblee, di decretar le leggi, è certo che queste non
possono più trarre il loro prestigio dalla tradizione e dal costume, e quindi
in ultima istanza dalla divinità, del cui volere sono depositarie; ma
dall’arbitrio stesso degli uomini, contemperato dalle necessità della
coesistenza civile. Così l’individuo che, nell’antico regime, era schiavo di un
potere trascendente, ora comincia a sentire la propria autonomia e libertà, la
propria efficienza umana e immanente nelle cose; e quindi instaura quel senso
umanistico della vita, che prima era paralizzato da una trascendenza
invincibile. Questa infatti vigeva non soltanto nel principio informatore
dell’antica civiltà; essa non era una formula filosofica astratta (come
l’interpretazione moderna del termine potrebbe far supporre); ma era
incorporata nella sostanza stessa delle leggi e delle norme, di cui eclissava
ogni significato umano. Essa infatti si manifestava nella legge, come
supremazia, della parola o della formula,
anteposta allo spirito, o anzi divenuta per sé sola spirito; mutare il
rito, mutare la formula non era concesso agli uomini, perché né rito né
formukla erano sorti per opera loro, ma soltanto per opera divina, e sarebbe
stata empietà abominevole disfare quel che gli dei avevano fatto. Ma acquistando una coscienza nuova della
legge – e l’acquistano solo quando essi fanno la legge – gli uomini spezzano la rigida trascendenza
della parola; questa non è più la parola detta e fissata per sempre, ma l’espressione
mutevole e contingente del proprio pensiero, il mezzo per far prevalere la
propria opinione nei comizi, la vera forza dell’individuo di fronte alle masse.
(Dunque è da duemilacinquecento anni che la parola non significa più nulla! Prima era la parola di dio, segno trascendente della sua esistenza. Ora è parola di chi grida più forte, o di chi è più abile a parlare. Quindi Nietzsche non ha ucciso nessuno. Dio era morto da tempo).
La parola esce
dal tempio e invade la piazza; da privilegio dei sacerdoti diviene conquista
delle scuole oratorie, e da formale in senso aristocratico diviene formale,
direi quasi, in senso democratico, come forma per se stessa coltivata per
rivestire e abellire qualsiasi contenuto, e anzi come mezzo quasi estrinseco
perpotenziare ogni contenuto di pensiero. I nuovi maestri della parola sono i
sofisti.
(…)
Così, negato al diritto il fondamento naturale della autorità e della
tradizione, che ne sono la vera forza, resta, come sua unica fonte, la convenzione degli uomini; come unico fine,
l’utilità dei più forti.
Convenzionale è il diritto, non solo come diritto privato ma anche come diritto
pubblico e punitivo; il meccanismo della votazione e promulgazione delle leggi
annulla, con la sua spiegazione apparente, ogni ragione ideale del diritto e
delle leggi, che è insitra nell’idea stessa e non già nelle sue esteriori
manifestazioni. Quindi, in ultima istanza, l’equità e la giustizia travolte
anch’esse nel vortice dell’apparenza, assumono il carattere di un arbitrio
convenuto dalle maggioranze: “ciò che a ciascuna città pare giusto e bello, tale
è per essa”.
7.1.22
Fine dell’Atlante. Marco Aurelio.
Tutto può toglierci la morte tranne quello che non abbiamo mai avuto; quello
che non siamo. Ed è questa la nostra
ricchezza e la nostra salvezza! Perché
se siamo ciò che non abbiamo, o se abbiamo ciò che non siamo, la morte non può
toglierci nulla.
06.2.22
Dunque il divenire potrebbe essere per Eraclito l’essere che è tutto ma che
mostra sempre aspetti diversi di se?
Zeller: Ma l’errore fondamentale della maniera dominante di rappresentarsi le
cose consiste, secondo E. in ciò: che essa attribuisce alle cose una stabilità
dell’essere e quindi un valore che ad esse non compete, invece di veder in esse
solo le fuggevoli apparenze di un’essenza che tutte le genera e le riprende in
sé, e si mantiene come l’unica
permanente nel cambiamento incessante. (il
cambiamento delle cose è solo dunque fuggevole apparenza, cioe un mostrare
sempre aspetti diversi dell’unica essenza che tutto comprende, cioè è il fatto
di poter vedere noi, per nostri limiti, solo un aspetto e soltanto uno per
volta della totalità dell’essere.)
In verità non c’è nulla di permanente al di fuori di essa nel mondo ma tutto è coinvoltto in un mutamento ininterrotto17 (dunque solo l’essenza è permanente, ma viene percepita da noi nella forma della mutevolezza degli aspetti) come una corrente nella quale sempre nuove onde scacciano le anteriori18; e che con ciò E. non abbia affermato solo la transitorietà di tutti gli esseri particolari, ma dichiarato che ogni persistenza durevole di una cosa è un’illusione, ci è espresso, oltre che da tutti gli altri nostri testimoni, a partir da Platone e Aristotele, anche da Eraclito stesso nel (50) modo più inequivoco19.
(questa è la radicale inversione del pensiero di Eraclito, che invece considerando il cambiamento come divenire degli aspetti fuggevoli affermava la permanenza dell’essere che tutto in se contiene! Esattamente come Pamenide)
Niente resta ciò che è, tutto trapassa nel suo contrario, tutto proviene da
tutto, tutto è tutto. Il giorno è ora più breve, ora più lungo, e così anche la
notte; il caldo e l’umidità si scambiano; il sole è ora più vicino ora più
lontano. Il visibile trapassa nell’invisibile e l’invisibile nella visibilità;
l’uno entra nel posto dell’altro, l’uno perisce per opera dell’altro; il grande
si nutre del piccolo, il piccolo del grande. Anche riguardo all’uomo, la natura
al tempo stesso gli prende certe parti ed altre glie ne dà; lo fa più grande in
quanto glie le dà e più piccolo in quanto (53) glie ne prende; e le due cose
avvengono insieme20.
(54) Giorno e notte sono la stessa cosa21, ossia un unico essere che ora è
luminoso, ora è oscuro22; salutare e funesto23, sopra e
sotto24, principio e
fine25, mortale (61)
e immortale26
sono la stessa cosa. (qui Eraclito dice chiaramente che esiste un
essere unico che contiene tutti gli opposti)
Malattia e salute, fame e sazietà, fatica e riposo coincidono; la divinità è
giorno e notte, estate e inverno, guerra e pace, abbondanza e scarsità; tutto è
uno, tutto diventa tutto27.
Dall’essere vivente proviene il morto, e dal morto il vivente, dal giovane il
vecchio e dal vecchio il giovane, dal desto il dormiente e dal dormiente il
desto; la corrente della generazione e del trapasso non si arresta mai;
l’argilla di cui son fatte tutte le cose viene modellata in sempre nuove forme28. Su questo incessante movimento si
fonda tutta la vita e il sentimento della vita29; solo in esso consiste essenzialmente
l’esistenza delle cose.
Ma questo movimento è solo apparente,
rispetto all’essenza che tutto contiene.
Mentre dunque Parmenide nega il divenire per tener fermo il concetto dell’essere nella sua purezza, Eraclito viceversa nega l’essere per non derogare alla legge del divenire. Mentre quegli dichiara la rappresentazione del cangiamento e del movimento una illusione dei sensi, questi dichiara tale la rappresentazione dell’essere permanente; mentre quegli trova fondamentalmente errata la comune maniera di pensare in quanto ammette il nascere e il perire, questi giunge a una conclusione altrettanto sfavorevole fondandosi sulle ragioni opposte.
L’inversione interpretativa quindi con Zeller è compiuta.
Sul presente.
Zeller: se tutto si
cambia ed esiste solo in questo cangiamento, allora tutto è un che di mezzo tra
due opposti, e quale che sia il punto che si possa prendere nel flusso del
divenire, sempre si ha solo un punto di passaggio e di confine, nel quale si
toccano proprietà e stati opposti.
Questo è il presente. Posto cioè che il
cangiamento sia solo percezione forzata delle diversità degli aspetti uno per
volta, tale cangiamento (apparente) continuo prococa comunque un flusso del
divenire che si manifesta nel presente, (il cambiamento degli aspetti), cioè il
presente è un che di mezzo tra due
opposti, il modo nel quale si toccano proprietà e stati opposti, che sono tali
secondo l’interpretazione corrente, ma che in realtà sono aspetti diversi dello
stesso essere.
Tutta la vita
della natura è un avvicendarsi ininterrotto di stati e fenomeni opposti, ed
ogni cosa singola è, o meglio diviene ciò che è, soltanto attraverso un
inesauribile insorgere di opposizioni, fra le quali essa medesima sta nel
mezzo.
L’inesauribile mostrarsi delle
opposizioni non è che il nostro modo di percepire l’essere attraverso apparenti
inesauribili opposizioni che in realtà sono la nostra possibilità di percepire
un ente che è tutto in sé, che contiene tutte le opposizioni ma che noi
possiamo cogliere per via logica solo come successione delle stesse e dunque
come soggetto ad un perenne mutamento.
06.02.22
Il divenire è il sogno dell’assenza, di ciò che non possiammo essere.
E’ il nostro sogno dell’universo.
Sempre andando avanti nella ricerca aumenta la confusione, perché quello che
avevo scritto alla luce dei nuovi progressi deve essere riscritto. E piani
sempre differenti e nuovi si creano, cioè luoghi di relazione tra idee, che
prima non esistevano e che a loro volta danno vita, cioè nei quali si formano, idee diverse.
Questa è
l’impossibilità di riuscire a tenere insieme tutto, l’annuncio della tragedia.
Dunque è la morte la tragedia? Il
perdere tutto? No, la tragedia è la vita, perché Tutto l’abbiamo già perso, e
nella sua assenza e nel suo ricordo dobbiamo vivere.
La tragedia è consapevolezza: Cézanne: “La
vita è spaventosa”.
Allora cos’è propriamente tragico? Il fatto di poter sentire un senso di appartenenza alla natura, ad ogni cosa sulla terra, cioè alla Terra, e di poterlo sentire solo nel monento in cui da essa ci si distacca, diventando Soggetto.
Cioè percepire
un senso di appartenenza solo nel momento in cui si crea una distanza tra il Sé
che si sente di essere e il Tutto a cui si vorrebbe appartenere. Solo nel
momento in cui non se ne fa più parte. Senso che fino a quando si faceva parte
del Tutto, ma inconsapevolmente, non si avvertiva.
Il fatto tragico dunque consiste nel desiderare di essere ciò che si era ma non
si è più, né si può tornare ad essere.
E solo attraverso l’arte, per il tempo breve del godimento estetico, o nel
breve tempo della memoria involontaria, si può provare di nuovo questo senso di
appartenenza. Passando poi tutta la vita ad evocarlo.
Questo
discorso, cioè questa sequenza di pensieri, si sovrappone e si confonde al
discorso sul passato. Ma solo apparentemente.
Pensare infatti il passato come continua presenza di ciò che è accaduto, significa considerare noi stessi
come totalità vivente (nel senso di ancora in presenza) di tutto ciò che abbiamo fatto e provato. E
quindi come permanente potenzialità di tutto.
Riusciamo ad avere questa consapevolezza per il tempo breve della memoria
involontaria, o nel ricordo puro stimolato dai segni dell’arte. Gli stessi
segni che sono capaci di farci provare ancora quel senso di appartenenza al
Tutto (che sentiamo in quanto l’abbiamo perduto). In quel preciso momento colleghiamo noi
stessi al Tutto, e lo facciamo istituendo un piano temporale idoneo, il piano
temporale nel quale noi siamo noi stessi nel nostro Tutto e nel Tutto di cui
facciamo parte! Due enti qualsiasi infatti possono entrare in relazione solo se
condividono lo stesso piano dimensionale. Che però è un piano temporale –ecco
la differenza che mette in difficoltà la mente logica – essendo il tempo lo
spazio della relazione (cioè una relazione non avviene in un luogo, ma in un
tempo). La nostra essenza cioè condivide
lo stesso piano temporale del Tutto, e solo quando riusciamo a portarci (grazie
ai segni) dentro quel piano riusciamo ad avere cognizione della nostra essenza
e insieme dell’essenza del Tutto. Perché la nostra essenza e l’essenza del
Tutto sono la stessa cosa: dissolvimento nella relazione di tutto con tutto.
Dissolvimento assoluto nella conoscenza assoluta.
Essere Tutto e quindi Tutto sapere perché Tutto si accoglie, e da Tutto ci si
lascia attraversare, non avendo più alcun Sé che dal Tutto ci divide.
Dunque avere
consapevolezza della nostra essenza (l’interezza della nostra vita nella sua
reale dimensione temporale in cui il passato è sempre presente e ogni futuro è
sempre possibile), significa avere
consapevolezza di essere parte del Tutto che in ogni momento accade, cioè si
manifesta, tutto intero nel momento particolare, un universo in un attimo.
Sempre Cézanne: “C’è un minuto del mondo che passa. Bisogna dipingerlo nella
sua realtà.”
Significa cioè avere consapevolezza, in quanto se ne è parte, del fluire della
vita. Noi, in quanto fluire del nostro tempo passato nel nostro tempo futuro,
siamo fluire, cioè movimento di relazione, del Tutto nel Tutto. Cioè del venire
in essere della vita. Che propriamente un venire non è, perche non proviene da
un luogo altro, ma è semplicemente il farsi; il farsi continuo della vita.
I due discorsi, quello sul passato e quello sul Tutto, dunque non possono confondersi, semplicemente perché non sono due. Ma sono uno e lo stesso.
7.2.22
L’armonia per Zeller Moldolfo Eraclito è unione degli opposti che dall’Uno
derivano e nell’Uno confluiscono.
Per me invece Armonia è il modo di rapportarsi (composizione) di forme (enti)
che mattendoli in relazione li cambia facendoli diventare segni -> simboli
di qualcos’altro. Cioè le cose messe in relazione con Armonia cambiano la loro
stessa natura diventando qualcosa che va oltre ciò che erano prima.
Armonia
(Treccani)
E’ una delle due inseparabili manifestazioni della tonalità, cioè dell’ordine
dei rapporti fra suoni di varia altezza. Quando i suoni si combinano
simultaneamente ha luogo l’armonia; invece quando si combinano in successione
ha luogo la melodia. Perciò l’armonia è
la scienza delle combinazioni musicali simultanee. C’è chi vi scorge i suoni
combinati in ordine di spazio, ovvero di combinazione verticale, mentre nella
melodia is suoni si presentano in ordine di tempo, o di combinazione orizzontale. In pratica,
spesso armonia vale accordo, ossia
singola combinazione di suoni contemporanei.
( che producono un suono diverso da quello che i signoli suoni, singolarmente
suonati, producono. Per qesto i singoli suoni si trasformano diventando,
insieme agli altri, cioè nella relazione con altri, cosa diversa.)
Composizione
(musica) Treccani
Se, genericamente, comporre significa, come si trova scritto in tutti i
lessici, mettere insieme, comporre musica vorrà dunque dire mettere insieme
suoni differenti. Non però, un suono sopra l’altro, ma uno di seguito
all’altro; ché, infatti, un accordo da sé (un accordo, che è appunto la
risultante e l’effetto di più suoni posti uno sull’altro) non dice ancora
nulla, e non acquista valore, significato,
espressione, se non in rapporto
all’accordo che lo precede e, quando non sia stato un accordo
conclusivo, a quello che lo segue.
Comporre musica è dunque mettere insieme suoni differenti, siano essi multpli,
cioè accordi, o singoli; armonia, cioè, o melodia.
Allo stesso modo, in un verso il modo degli accenti produce una armonia che fa suonare le parole insieme facendole diventare qualcos’altro, cioè poesia. Mentre il parlare discorsivo è paragonabile alla melodia, cioè a una sequenza di suoni disposti uno dopo l’altro, in successione. L’armonia è l’accordo, il suono è il canto. Il canto è il tempo ordinario, l’accordo è il tempo che tiene insieme cose diverse.
8.2.22
Perdere la vita non significa smettere di vivere, ma vivere lasciando che la vita si perda. Quanta essenza vitale dissipata in esseri che di umano non hanno più nulla, neanche la sostanza!
15.2.22
Ognuno dovrebbe avere un posto in cui stare, il proprio posto. Ma se dedichi la tua vita a costruire o a mantenere il posto in cui stare, il tuo stare sarà servito solo a quello.
Il mio stare è sempre stato uno stare in cerca di qualcos’altro che il dato mediato (da qualcuno o da qualcosa): cioè il dato im-mediato, che però non si può dire così, perché se è im-mediato non può essere dato (da qualcuno o qualcosa che – appunto – operi una mediazione), ma può solo darsi, senza interposizione di nulla, e cioè non solo dell’aria, per esempio, ma neanche della più piccola frazione di spazio o di tempo. Quindi l’oggetto della ricerca, dello stare nella ricerca, è ciò che si dà senza mediazione. Ma ciò che può darsi senza mediazione è solo ciò che si ha.
Inoltre niente può darsi che non venga compreso. Cioè la cosa (l’ente) si può dare (un ente può darsi) solo nella misura in cui la nostra sensibilità è in grado di coglierla. Un ente può dare di sé solo ciò che la nostra sensibilità è in grado di cogliere. Quindi lo stare in cerca non è di qualcosa che è fuori di noi, ma di quello che noi possiamo cogliere di ogni cosa. Di quello che di ogni cosa possiamo sapere; e lo possiamo sapere perché già lo siamo.
La ricerca quindi è ricerca del limite della nostra potenzialità. Cioè: del limite della nostra anima.
Ma il limite dell’anima, per quante strade tu possa percorrere, non lo puoi trovare, tanto profondo esso è, dice Eraclito. Mentre Lao Tzu dice che per conoscerlo non devi guardare fuori dalla finestra, o uscire fuori dalla porta. Perché tanto più lontano vai tanto meno puoi sapere. Entrambi dicono la stessa cosa.
Dicono cioè che il limite dell’anima non si può trovare, semplicemente perché non esiste. Il limite è lì dove sei arrivato, ma è un limite che domani supererai, per portarlo oltre. Non c’è un limite fisico dunque alla potenzialità, cioè alla capacità di conoscenza dell’essere delle cose, ma solo una necessità; cioè la necessità, ad un certo momento, di dover interrompere il lavoro. Non concluderlo, quindi, perché non c’è alcun traguardo da raggiungere, ma interromperlo, per sopraggiunta necessità. Si tratta quindi di compiere un lavoro che non può avere un esito, il che rappresenta una aporia, una contraddizione in termini, la contraddizione fondamentale, perché ogni lavoro è finalizzato al raggiungimento di uno scopo. Ma è una contraddizione solo apparente, è la falsa contraddizione dell’Occidente, quella contraddizione, cioè su cui l’Occidente fonda il suo dominio. Perché invero anche questo lavoro, apparentemente inconcludente, cioè che non può raggiungere una conclusione, invece ha uno scopo preciso: che non è appunto quello di concluderlo, cioè di raggiungere l’obbiettivo che ci si era prefissati, di raggiungere un traguardo; ma il suo esatto contrario: cioè quello di portare tale traguardo sempre più avanti. Spingere il confine tra ciò che ci è noto e ciò che rimane oscuro, sempre più in là.
Se stare, cioè esistere, dunque significa non stare in cerca del limite della tua anima, ma portarlo sempre più in là nella direzione della cognizione, della apprensione, del fare proprio, di essa, non puoi avere una casa, perché hai bisogno di muoverti.
Hai bisogno cioè di seguire ogni più piccola traccia, aprire ogni porta che si svela, che si manifesta, che appare; percorrere ogni direzione che anche soltanto si mostri in nuce, cioè nel suo farsi. Anzi, è proprio percorrendola che la direzione si forma, e quindi coglierne il getto vitale e farlo crescere. Solo in questo modo, cioè esperendo ogni più piccola possibilità di esperienza, facendo vivere e crescere ogni più piccola forma del tempo, dandole spazio, puoi portare più in là il limite della tua anima, cioè puoi portarti più avanti – ma non nel senso di oltre, oltre il punto cui già eri giunto; bensì nel senso di “qualcos’altro” rispetto a quello che già eri. E quindi, essendo tutto ciò che puoi conoscere già parte di te, conoscere qualcos’altro di quello che sei.
Per questo non puoi avere una casa, che sarebbe una casa che ogni giorno dovrebbe essere ampliata, ristrutturata, cambiata nella forma e nei colori, per adeguarsi a quello che ogni giorno diventi, che è qualcos’altro rispetto a quello che il giorno precedente eri.
Un ricovero per le tue cose, un luogo di silenzio, di luce e di ombra. Solo questo ti serve. Una condizione, cioè, nella quale fare crescere la casa che sei; quella casa dalla quale la tua anima, che sempre spingi avanti, può muovere.
16.02.22
23.02.22
LIMITI DEL BERGSONISMO
Bergson, Il pensiero e il movente.
p.6:
Fummo in effetti molto colpiti dalla
constatazione che il tempo reale sfugga alle scienze matematiche. Poiché la sua essenza consiste
nel passare, nessuna delle sue parti è ancora lì quando un’altra si presenta.
La sovrapposizione di una parte sull’altra in vista della misura è dunque
impossibile, inimmaginabile, inconcepibile.
Non c’è dubbio che un elemento convenzionale rientri in ogni misura, ed è raro
che due grandezze considerate uguali, siano direttamente sovrapponibili fra
loro. Occorre, inoltre, che la sovrapposizione sia possibile per uno dei loro
aspetti o dei loro effetti, il quale conservi qualche cosa d’esse: questo
effetto, questo aspetto, sono allora ciò che si misura. Ma, nel caso del tempo,
l’idea della sovrapposizione implicherebbe un’assurdità, perché ogni effetto della durata che fosse
sovrapponibile a se stesso, e per conseguenza misurabile, avrebbe per essenza
di non durare.
(Qui il discorso perde un po’ in efficacia. Ho pensato, per esplicarlo meglio, a questo esempio: non posso misurare l’effetto dello spostamento di una mano in un secondo. Cioè non posso misurare lo spazio esistente (la distanza) tra la posizione iniziale della mano e la sua posizione finale, dopo un secondo; perché quando la mano è nella posizione finale non è più nella posizione iniziale, dunque non ho alcun riferimento spaziale che posso utilizzare per prendere la misura. Fissare un segno, nella posizione iniziale della mano, per confrontarlo e quindi misurarlo con la posizione finale della mano significa operare una alterazione nella dimensione dell’esperienza, una discontinuità nel flusso temporale (interrompendolo nei due momenti) che nella realtà non esiste, proprio perché la mano non può essere dove era prima, essendo dove è ora. Misurare gli effetti di ciò che nella durata esiste, cioè di ciò che esiste nel mondo reale, ci conduce su un piano inesistente, virtuale, cioè mentale, esistente solo nella nostra mente. E tuttavia è per noi inevitabile, essendo noi votati, creati per l’operatività.
Non bisogna dimenticare la differenza tra il mutamento dell’essere come lo intende Bergson, e il mutamento dell’aspetto dell’essere, come lo intendo io)
Noi sapevamo bene che la durata si misura mediante la traiettoria di un mobile e che il tempo matematico è una linea; ma non avevamao ancora considerato che questa operazione è in contrasto radicale con tutte le altre operazioni di misura, perchèù essa non si realizza su di un aspetto o un effetto rappresentativo di ciò che si vuole misurare, ma su qualche cosa che l’esclude. La linea che si misura è immobile, il tempo è mobilità. La linea è qualcosa di fatto, il tempo è ciò che si fa, ed anche ciò che fa che tutto si faccia.
Giammai la misura del tempo attinge la durata in quanto durata: viene contato soltanto un certo numero di estremità d’intervalli, o di momenti, cioè tutto sommato degli arresti virtuali del tempo.
…
Il ruolo della scienza (ma forse si dovrebbe intendere scienza come attività del conoscere, come intelligenza) è di prevedere. Del mondo materiale essa estrae e considera ciò che è suscettibile di ripetersi e di essere caklcolato, dunque ciò che non dura. Non fa altro, così, che seguire la direzione del senso comune, il quale è un inizio di scienza: correntemente, quando parliamo del tempo, noi pensiamo alla misura della durata, piuttosto che alla durata stessa. Ma questa durata, che la scienza elimina, che è difficile concepire ed esprimere, la si sente e la si vive.
(perché è difficile concepirla ed esprimerla? Perché è diventato difficile concepirla ed esprimerla?)
Cos’è la durata per una coscienza che vuole viverla senza misurarla? E come se ne può avere cognizione? Bisogna che la coscienza prenda se stessa come oggetto. E questo è quello che comunemente si definisce “vita interiore”.
Ben presto individuammo l’insufficienza della concezione associazionistica dello spirito. Questa concezione, comune allora alla maggiorparte dei filosofi e degli psicologi, era l’effetto di una ricomposizione artificiale della vita cosciente.
…
Che la scienza positiva si fosse disinteressata della durata, niente di più naturale, pensavamo: la sua funzione, forse, è precisamente di strutturarci un mondo in cui possiamo, in vista dell’azione, ignorare gli effetti del tempo (: sarebbe stato più corretto dire: ignorare la natura del tempo.)
Ma la filosofia di Spencer, dottrina dell’evoluzione, fatta per seguire il reale nella sua mobilità, nella sua maturazione interiore, come aveva potuto ignorare il mutamento stesso?
(Limiti della filosofia dell’ottocento, e non solo di quella di Spencer)
Passando in rassegna i sistemi constatavamo che i filosofi non se ne erano affatto occupati. Nel corso della storia della filosofia tempo e spazio sono considerati allo stesso rango e trattati come cose dello stesso genere. Si studia lo spazio, se ne determina la natura e la funzione, poi si estendono al tempo le conclusioni ottenute. La teoria dello spazio e quella del tempo si rimandano così reciprocamente. Per passare dall’una all’atra è bastato cambiare una parola: si è sostituito giustapposizione con succesione.
(questo passaggio è fondamentale: non viene colta da B. la possibilità, l’intuizione alla quale pure si era avvicinato: basta estendere in concetto di giustapposizione al tempo, e non allo spazio, per concepire la natura reale del tempo, e quindi del passato. Cioè la concezione che è alla base della mia ricerca. Il tempo non passa, ma ogni avanzare del tempo si affianca a quello già presente, in una giustapposizione che non ammette direzioni, ma solo estensione. Tutto l’equivoco nasce dall’assimilare gli stati della coscienza al tempo, pensare cioè che gli stati della coscienza si succedano come le giornate, o la varie fasi della giornata; pensare cioè che la coscienza segua il percorso del sole. Ma come il sole sta sempre fermo, allo stesso modo la coscienza non passa, non evolve nel senso del mutamento. Semplicemente, come la terra, gira su se stessa.
I nostri cambiamenti, quello che noi percepiamo come nostro cambiamento, é come il movimento apparente del sole e delle stelle: siamo noi che mostriamo (portiamo fuori) aspetti sempre diversi di noi ma che fanno tutti parte di noi, aspetti diversi della molteplicità di aspetti che siamo e che conteniamo. Siamo noi che, girando su noi stessi, cioè portando fuori ciò che la condizione esterna richiama, ci mostriamo agli altri sempre diversi, sembriamo cambiare.)
Dalla durata reale ci si è distolti sistematicamente. Esaminando le dottrine ci sembrò che il linguaggio vi avesse giocato un grande ruolo. La durata si esprime sempre come estensione. I termini che designano il tempo sono mutuati dalla lingua dello spazio. Quando evochiamo il tempo, è lo spazio che risponde all’appello. La metafisica ha voluto conformarsi alle abitudini del linguaggio, le quali a loro volta si regolano su quelle del senso comune.
( : è vero che il linguaggio costringe il pensiero entro ambiti che gli impediscono di cogliere la reale essenza del tempo, ma non al livello segnico, rispetto cioè alla capacità delle singole parole di richiamare, dare vita, definire, l’oggetto che nominano , ma al livello della capacità di percezione. La parola estensione è adatta a definire la durata, come la parola permanenza è adatta a definire la natura del tempo. E’ la percezione fondata sulla selezione e sull’associazione di fenomeni simili e unidirezionali, mutuata dal linguaggio, che impedisce di percepire la reale essenza del tempo. )
Ci apparve che
una delle funzioni dell’intelletto era proprio quella di nascondere la durata,
sia nel movimento che nel mutamento.
Rispetto al movimento l’intelligenza non prende in considerazione che una serie di posizioni: prima rintraccia un
punto, poi un altro, poi un altro ancora. Si obbietta all’intelletto che tra
questi punti succede pur sempre qualcosa? Subito esso inserisce nuove
posizioni, e così di seguito indefinitamente.
…
Se noi insistiamo, fa sì che la mobilità, sospinta in intervalli sempre più
ristretti man mano che aumenta il numero delle posizioni considerate, arretri,
si allontani, sparisca nell’infinitamente piccolo. La nostra azione non si
esercita vantaggiosamente che su punti fissi: è dunque la fissità che la nostra
intelligenza cerca; essa si domanda dove il mobile è, per dove passa.
…
Da qui a non vedere nel movimento che una serie di posizioni, non vi è che un
passo; la durata del movimento si decomporrà allora in “momenti” corrispondenti
a ciascuna delle posizioni. Ma i momenti del tempo, e le posizioni del mobile,
non sono che istantanee prese dal nostro intelletto sulla continuità del
movimento e della durata. Con queste
vedute giust’apposte si ottiene un succedaneo pratico del tempo e del movimento
che si piega alle esigenze del linguaggio, in attesa di prestarsi a quelle del
calcolo; ma non si ha che una ricomposizione artificiale. Il tempo e il
movimento sono altra cosa.
Diremo altrettanto del mutamento.
L’intelletto lo decompone in stati successivi e distinti considerati
invariabili.
…
Come non vedere tuttavia che l’essenza della durata è di scorrere, e che
affiancare immobilità a immobilità non porterà mai a nulla che duri? Ciò che è
reale non sono gli stati, semplici istantanee prese da noi, ancora una volta,
nel corso del mutamento; è al contrario il flusso, è la continuità della
transizione, è il mutamento stesso. Questo muta,mento è indivisibile, e anche
sostanziale. Se la nostra intelligenza si ostina a considerarlo inconsistente,
è perché esaa lo ha sostituito con una serie di stati giustapposti; ma questa
molteplicità è artificiale, e artificiale è anche l’unità che vi viene ristabilita.
Non vi è qui se non unaspinta inisterrotta di mutamento – di un mutamento
sempre aderente a se stesso in una durata che si prolubnga senza fine.
…
La metafisica data dal giorno in cui Zenone ‘Elea segnalò le contraddizioni
inerenti al movimento e al mutamento, così come se li rappresenta la nostra
intelligenza. Lo sforzo principale dei filosofi antichi e moderni mirò a
superare e ad aggirare queste difficoltà sollevate dalla rappresentaqzione
intellettuale del movimento e del cambiamento attraverso uno lavoro
intellettuale sempre più sottile. E’
così che la metafisica fu condotta a cercare la realtà delle cose al di sopra (al di fuori) del tempo, al di
là di ciò che si muove e muta, al di fuori, quindi di ciò che i nostri sensi e
la nostra coscienza percepiscono.
(una metafisica vera quindi deve cercare la realtà delle cose al di qua di ciò che i nostri sensi e la nostra coscienza percepiscono, cioè cercando dentro di noi (e non fuori) la vera essenza delle cose.)
Da allora in poi essa non poteva più essere che una sistemazione più o meno artificiale dei concetti, una costruzione ipotetica. Pretendeva oltrepassare l’esperienza; non faceva in realtà che sostituire all’esperienza mobile e piena, suscettibile di un approfondimento crescente, e perciò gravida di rivelazioni, un estratto pietrificato, disseccato, svuotato, un sistema di idee generali astratte, tratte dalla stessa esperienza o piuttposto dai suoi strati superficiali.
Tanto varrebbe dissertare sull’involucro da cui si libererà la farfalla e pretendere che la farfalla che vola, che muta, che vive, trovi la sua ragion d’essere e il suo compimento nella immutabilità della membrana. Distacchiamo, al contrario, l’involucro. Risvegliamo la crisalide. Restituiamo al movimento la sua mobilità, al mutamento la sua fluidità, al tempo la sua durata. Può darsi, così, che i grandi problemi irrisolti restino sulla membrana. Essi non riguardavano né il movimento né il mutamento né il tempo, ma solamente l’involucro concettuale che noi prendevamo, sbagliando, per questi ultimi. La metafisica diventerà allora l’esperienza stessa. La durata si rivelerà per quello che è, reazione continua, zampillio ininterrotto di novità.
02.03.22
Bergson riprende Eraclito e ne riafferma l’importanza, la verità,
sull’imbroglio razionalista dell’occidente. La differenza sostanziale consiste
nel fatto che B. ritiene che l’Essere muta continuamente. Io invece ritengo che
l’Essere mostri continuamente aspetti diversi di sé.
L’armonia è l’Essere che si pensa nella sua pienezza.
In Eraclito
l’armonia non è un fatto estetico, non è una regola attraverso la quale si
compongono stati diversi dell’Essere nell’Unità.
Per Eraclito la ricomposizione di tutte
le cose è una conseguenza del flusso cosmico, è una legge di natura per la
quale ogni cosa si scompone nei suoi elementi e in questo modo torna a far
parte del Tutto.
05.03.22
Sulla natura dell’Essere
Eraclito – Zeller
8. Il principio di contraddizione.
(p. 123)Per queste affermazioni, Aristotele ed i suoi commentatori accusano Eraclito di negare il principio di contradizione 63; autori moderni invece lo lodano d’aver riconosciuto per primo l’unità dei contrari e l’identità di essere e non essere, e d’averne fatto il fondamento del suo sistema 64. Se non che non è esattamente giusta né l’una cosa né l’altra – né che vi si vegga un difetto, né che vi si vegga un pregio.
Il principio di contraddizione sarebbe oppugnato da Eraclito solo nel caso che egli affermasse che le determinazioni opposte possano convenire allo stesso soggetto non solo al tempo stesso, ma anche sotto lo stesso rapporto.
Ma egli non afferma questo: osserva bensì che un unico e stesso essere assume le forme più opposte e che in ogni cosa sono congiunte le più opposte condizioni e proprietà, fra le quali essa si libra come alcun che in divenire; ma non dice che esse qualità opposte gli convengano sotto un unico e stesso rapporto, e non lo dice senza dubbio perché non s’è ancora affatto chiesto come si comporti a tale riguardo questa determinazione che , a nostra scienza, fu presa in esame solo da Platone ed Aristotele 65.
Ma d’altra parte egli ha parlato altrettanto poco dell’unità degli opposti, dell’unità di essere e non essere in questa forma universale, ed essa non discende neppure così direttamente dalle sue sentenze; poiché c’è la sua differenza fra il dire che un solo e stesso essere sia luminoso e oscuro, giorno e notte, ed un solo e medesimo processo siano il nascere e il perire, etc., e il dire invece che fra giorno e notte, essere e non essere come tali non ci sia alcuna differenza; in altre parole, affermare la coesistenza degli opposti nello stesso soggetto, oppure la loro identità. Solo la prima affermazione risulta dagli esempi che Eraclito per conto suo adduce, ed egli non aveva neppure alcun motivo per andare più oltre, perché non si occupava di logica speculativa ma di fisica 66.
Solo non si dovrà perciò attenuare la sua proposizione 67 supponendo che egli debba aver detto soltanto “la stessa cosa mostra o contemporaneamente, se è posta in relazione con parecchie altre in una volta, o successivamente, se è posta di fronte sempre a una cosa sola, ma variabile, proprietà assai diverse”. Non lo si dovrà quindi neppur erigere a fondatore della dottrina della “relatività delle qualità” 68. Eraclito dice bensì (vedi sotto) che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini ritengono giusta una cosa e ingiusta un’altra; ma egli non vuole con ciò dichiarare che la differenza fra giusto e ingiusto abbia un valore puramente relativo, bensì vuole opporre la sapienza divina alla ristretta visione umana, che non s’accorge che tutto nel mondo è buono al suo posto 69. Egli osserva anche che ciò che è salutare per l’uno è fatale per l’altro (vedi sopra); ma ciò che ne conclude non è la proposizione che l’azione salutare o rovinosa di una cosa indichi un’unica e sola relazione di essa con le altre cose, ma l’opposto, cioè che la cosa sia in sé stessa entrambe le cose, salutare e distruttiva al tempo stesso 70.
Anzi, è proprio caratteristico del nostro filosofo e della mancanza di tecnica logica, di cui egli non è il solo esempio al suo tempo 71, il fatto che egli rimanga fermo al pensiero generale che ogni cosa abbia in sé proprietà opposte e non si proponga invece ancora il problema sotto quali condizioni e in qual senso sia possibile questa coesistenza degli opposti, e quindi neanche arrivi a rispondervi con la distinzione fra ciò che appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartenga solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata relazione.
(discutibile interpretazione d Zeller: “non si dovrà perciò attenuare la sua proposizione 67 supponendo che egli debba aver detto soltanto “la stessa cosa mostra, o contemporaneamente, se è posta in relazione con parecchie altre in una volta, o successivamente, se è posta di fronte sempre a una cosa sola, ma variabile, proprietà assai diverse.
Non lo si dovrà quindi neppur erigere a fondatore della dottrina della “relatività delle qualità” “
Forse invece si! Le motivazioni addotte da Zeller per non erigerlo a fondatore della dottrina della relatività delle qualità non sono così pregnanti: “Eraclito dice bensì che per il Dio tutto è giusto, e che solo gli uomini ritengono giusta una cosa e ingiusta un’altra; ma egli non vuole con ciò dichiarare che la differenza fra giusto e ingiusto abbia un valore puramente relativo, bensì vuole opporre la sapienza divina alla ristretta visione umana, che non s’accorge che tutto nel mondo è buono al suo posto”, ma questo non sembra essere pertinente al discorso della relatività delle qualità. Poi si contraddice: “Egli osserva anche che ciò che è salutare per l’uno è fatale per l’altro (vedi sopra); ma ciò che ne conclude non è la proposizione che l’azione salutare o rovinosa di una cosa indichi un’unica e sola relazione di essa con le altre cose, ma l’opposto, cioè che la cosa sia in sé stessa entrambe le cose, salutare e distruttiva al tempo stesso 70.”
Quindi la cosa ha qualità diverse, ovvero mostra di avere qualità diverse perché diversi enti colgono di essa diversi aspetti.
Zeller ritiene che Eraclito rimanga fermo al pensiero generale che ogni cosa abbia in sé proprietà opposte e non si proponga invece ancora il problema sotto quali condizioni e in qual senso sia possibile questa coesistenza degli opposti, e questo perché egli non si occupa di logica ma di fisica. Zeller, cioè ritiene Eraclito un fisico, interpretazione smentita dalle ricerche posteriori (vedi la nota 65 di M.).
Forse Eraclito non si pone il problema perché non lo ritiene un problema. Come egli stesso dice di seguito Eraclito infatti non fa differenza fra ciò che appartenga a una cosa in sé stessa e ciò che le appartenga solo in relazione ad un’altra, fra ciò che le appartenga contemporaneamente e ciò che le competa successivamente, fra ciò che le spetti in senso assoluto e ciò che le tocchi solo in una determinata relazione. Perché quello che appartiene a una cosa in sé stessa è ciò (è la stessa cosa di ciò) che le appartiene solo (cioè di volta in volta, e perciò ogni volta in maniera apparentemente diversa)in relazione ad un’altra; e ciò che le appartiene contemporaneamente è la stessa cosa di ciò che successivamente (in successione) mostra; e ciò che le tocca in una determinata relazione non è che ciò che del suo assoluto l’altra parte riesce a cogliere.
Sembrerebbe che anche per Eraclito l’essere sia Uno e immutabile, come per Parmenide. E allo stesso modo: per Parmenide i cambiamenti che si manifestano attraverso il divenire sono “interpretazione”, sono ciò quello che della cosa ognuno vede; per Eraclito sono diversi aspetti dello stesso ente che si mostrano in momenti differenti.
Sia in Parmenide che in Eraclito l’unità dell’Essere che si manifesta attraverso il divenire, e quindi il confluire del tutto nell’uno che sempre è, rimane un fatto fisico, una regola generale della Natura.
Questo si vede particolarmente in Eraclito, per il quale l’armonia non è un fatto estetico, non è una regola attraverso la quale stati diversi di un ente si possono comporre in una unità, ma piuttosto una necessità di natura, in virtù della quale ogni cosa fluendo, cioè compiendo il suo percorso, si scompone nei suoi elementi (il fuoco che diventa acqua che diventa terra, che torna ad essere acqua e diventa di nuovo fuoco) e in questo farsi torna a far parte del tutto.)
9. L’armonia.
(127) Ma per quanto sia necessario che tutto si dissolva in opposti,
altrettanto necessario è che gli opposti tornino a riunirsi nell’unità, poiché
ciò che più è opposto nasce dall’uno e medesimo, è un essere unico che nel corso
delle sue mutazioni procrea gli opposti e torna a distruggerli, che in tutte le
cose genera se stesso e nel gioco delle azioni contrastanti conserva il tutto
come uno 72. In quanto si
separa da (133) sé, si unifica con se stesso 73; dalla lotta (opposizione!) nasce l’esistenza,
dalla opposizione la connessione, dalla disuguaglianza l’accordo; dal tutto
viene l’Uno 74; tutto si sottomette alla divinità per l’accordo della totalità;
anche il disuguale si unifica qui a
produrre l’uguaglianza; anche ciò che appare un male agli uomini è per essi un
bene 75; e da tutto risulta quella occulta armonia del cosmo, alla quale non
può essere paragonata la bellezza del visibile 76. Questa è la legge divina, alla
quale tutto è sottoposto 77, la Dike di cui nulla al (140) mondo può infrangere
il decreto 78, il destino o la necessità (145) da cui tutto è dominato 79.
Nota 72.
Approfondimento del frammento 67 D
Dio e le opposizioni in D 67.
Le molte discussioni già svolte e tuttora in corso su questo framnento sono
giustificate dall’importanza che gli va riconosciuta nell’espressione del
pensiero Eracliteo. Esso determina infatti il rapporto tra l’Uno (Dio) e la molteplicità (serie degli
opposti), indicando in Dio la fonte da cui si dispiegano tutte le opposizioni e
al tempo stesso il centro in cui tutte rifluiscono a unità e si identificano
mutuamente: anticipazione del rapporto complicatio ed explicatio che fra Dio e
la realtà unversale affermeranno nel rinascimento Niccolò da Cusa e Giordano Bruno. (M.)
Resta il fatto che l’armonia così intesa non ha nulla a che fare con la regola armonica. E’ solo una metafora per indicare la necessità che tutto si ricongiunga nell’uno.
Sul Logos eracliteo vedi la nota di Mondolfo pp. 152-161.
06.03.22
Zorzi, Proemio
Ora, poiché è assai esiguo il numero degli illuminati in grado di cogliere quella luce fulgida, ritengo che quanti desiderano ricevere l’illuminazione debbano essere guidati attraverso i sentieri che predispongono alla percezione della luce suprema. Questi sentieri conducono, senza dubbio, attraverso le realtà visibili alle realtà invisibili di Dio, per mezzo di un legame armonico di affinità, che esse intrattengono reciprocamente, in consonanza perfetta.
10.3.22
Il duplice aspetto tragico dell’essere: non poter concepire la complessità dei propri aspetti nello stesso tempo, dunque non potersi cogliere nella propria essenza, ma solo in maniera parziale, attraverso apparenti cambiamenti di stato;
non poter vivere, analogamente, la complessità degli aspetti del reale, che corrispondono alla complessità degli aspetti dell’essere, nel senso che si chiamano l’uno con l’altro, uno produce/induce l’altro reciprocamente;
ma dover esperire ogni aspetto singolarmente, doverne esperire cioè uno per volta, e poterne esperire uno soltanto, dovendo quindi operare delle scelte laddove non ci sarebbe bisogno di scegliere;
dover scegliere e quindi dover assumere un abito tra gli infiniti che siamo, rinunciando a frequentare gli altri.
12.03.22
Bergson, Pensiero e movente, Olschki, p. 12:
“… Essi non sembrano farsi alcuna idea di un’azione che sia interamente nuova e che non preesista in alcun modo alla sua realizzazione, neanche sottoforma del puro possibile.”
Essi sono i filosofi, anche quelli che ammettono il libero arbitrio, ma confinato tra possibilità date. Mentre per Bergson la realtà dell’Essere, cioè ciò che ogni Essere è veramente, è continua creazione di azioni interamente nuove proprio perché è una realtà che deriva, viene prodotta, dal continuo mutamento, dalla continua evoluzione dell’essere, concepito come un flusso continuo di essenza che dal passato plasma il futuro attraverso l’interazione col presente, e le cui fasi continuamente si compenetrano in una crescita interiore.
E tuttavia la faccenda è più complicata; perché mentre Bergson considerava il passato come parte del flusso di qualcosa che comunque era già compiuto e definito, il passato in realtà è sì compiuto, ma non definito, nel senso di concluso; esso permane, sempre in fieri, cioè sempre nel formarsi dell’azione. Qualsiasi cosa fatta nel passato cioè rimane nel suo farsi, proprio come se ancora la stessimo facendo. Questa permanenza comporta una continua rielaborazione e riedizione dello stesso gesto, sempre tuttavia mutato dal mutare delle condizioni di contorno, che ne causano una sempre diversa interpretazione. In questo senso si può dire a ragion veduta che il passato cambia.
Quello che ho fatto in un qualsiasi momento del passato, che già non avevo capito bene cosa fosse nel momento in cui l’ho fatto, col passare del tempo, e col mutare delle condizioni, e quindi col cambiare del pensiero nelle cose pensate e nel modo di pensarle, cambia per conseguenza esso stesso nella sua propria natura, e cioè anche nel suo aspetto materiale, diventando cosa diversa da ciò che era quando è stata compiuta.
Il fatto che il passato cambi esso stesso produce una moltiplicazione di piani di relazione tra le cose, le azioni, i sentimenti, i pensieri, per cui succede che il futuro non è più prodotto, esito, delle infinite possibilità di combinazione di cose accadute nel passato, quanto piuttosto di cose accadute nel passato che cambiano continuamente, instaurando in questo modo diversi piani dimensionali corrispondenti ad ogni cambiamento, in cui le stesse combinazioni producono effetti diversi. Una immanenza di piani dimensionali alternativi, che esistono tutti contemporaneamente e che mutano e continuano a moltiplicarsi senza sosta, al variare di ogni singolo aspetto.
Questo può produrre non soltanto azioni interamente nuove, ma nuove anche oltre ogni nostra possibile previsione, perché non derivanti dalla relazione tra aspetti noti e definiti, ma tra aspetti che mutano in maniera evidentemente per noi non registrabile al livello quantitativo. Ma solo al livello della differenza qualitativa, dello scarto di tono rispetto a ciò che è noto, di cui abbiamo fatto o pensato esperienza. Ponendoci così nella condizione di rilevare la presenza di cose che prima non esistevano; creando quindi le condizioni perché accadano (cioè possiamo cogliere) cose intrinsecamente nuove. Non nuove combinazioni di cose già date, ma cose nuove nella propria natura.
E
tuttavia e anche vero che l’Essere in realtà non cambia, non muta mai.
Che i continui cambiamenti di cui facciamo esperienza sono in realtà aspetti
diversi dello stesso Essere, cioè aspetti diversi che l’essere mostra di sé in
relazione al mutare delle condizioni esterne.
Che il divenire non è che lo strumento di pensiero che abbiamo messo a punto
per gestire l’unità e la completezza dell’Essere, che non possiamo cogliere, perché non
possiamo concepire il fatto che stati differenti di tensione coesistano, cioè
esistano nello stesso Essere nello stesso tempo, cosa che in realtà accade: si
pensi al fotone. Abbiamo necessità quindi di istaurare una successione
fittizia.
Sembra esistere quindi una contraddizione tra l’essere che continuamente muta, dando vita a forme radicalmente nuove di sé, e l’Essere, lo stesso Essere, che però non cambia mai, essendo tali apparenti cambiamenti solo il nostro modo di rappresentarcene la complessità e la pienezza, l’interezza.
Tale contraddizione può essere risolta ammettendo che ogni forma nuova, pur risultante dalla combinazione di relazioni nuove che si instaurano tra cose nuove, tuttavia deriva sempre da un originario sostrato rappresentato da ciò che l’Essere è, è stato, potrebbe essere, potrebbe essere stato, avrebbe potuto essere, avrebbe potuto essere stato. Cioè comunque da aspetti dello stesso Essere, che quindi, anche cambiando, rimane sempre uguale a se stesso.
Ma la contraddizione in realtà è solo apparente, e deriva dal fatto che la questione è malposta. E’ sbagliato infatti dire che l’Essere è immutabile, perché esso, come abbiamo visto, muta in continuazione, pur non cambiando la sua natura, e questo perché è nella sua natura di mutare, essendo la sua natura di instaurare un tempo esteso, nel quale dunque il mutamento è inevitabile; ma è un mutare che non cambia la sua natura, perché in qualsivoglia modo potrà mutare, non potrà che rimanere comunque all’interno delle sue potenzialità, cioè nell’ambito delle sue necessità. Rimarrà sempre comunque L’Essere che è. Bisogna quindi dire che lo stesso Essere muta in continuazione negli aspetti secondari, secondari in quando nati dalle relazioni di aspetti primi; i quali invece non possono mutare, essendo gli aspetti che ne costituiscono l’essenza.
Ma
è vero anche che tali cambiamenti degli aspetti secondari sono cosa differente
rispetto ai cambiamenti apparenti di stato. Tali cambiamenti apparenti sono,
come prima detto, interfacce differenti dello stesso soggetto, che dunque, in
questo senso, cioè a questo livello di relazione, non muta, ma mostra solo
parti differenti, visioni parziali di quell’unità che è. I cambiamenti degli
aspetti secondari sono invece cambiamenti a tutti gli effetti, prodotti dalle
continue, nel senso di permanenti, relazioni in essere tra diversi aspetti
dell’Essere, e dalle conbinazioni da queste prodotte. E’ su questo piano che il
divenire comunemente inteso esiste, e dispiega le conseguenze del suo esistere.
Ed è su questo piano che il divenire è reale. Ma diversamente da come viene
comunemente inteso, quello che il divenire dell’Essere produce non è
cambiamento, bensì crescita. Il termine infatti è stato usato in maniera
impropria. Per Eraclito il divenire è l’esito (che produce un cambiamento) dello scontro tra forze, enti ,
stati opposti. Ma l’Essere non diviene in quanto esito di uno scontro tra
opposti. L’Essere diviene nel senso di una crescita, cioè aggiunge quello che è diventato oggi a quello che era
ieri. Non produce in questo modo qualcosa di nuovo, ma accresce, aumenta, quello che già era.
Pensare la complessità dell’Essere dunque significa cominciare a distinguere
tra l’aspetto primario che ne costituisce l’Essenza, che è ciò che l’Essere
sempre è stato e sempre è; colui che corrisponde al suo nome; aspetti secondari
che nascono dalle diverse combinazioni che derivano dalle relazioni tra l’aspetto
primario e tutto ciò che esiste e ci circonda così come noi lo percepiamo e lo
circoscriviamo, e quindi in buona sostanza
dalla relazione e dalle conseguenze che questa produce, dell’aspetto primario con ogni nostra azione, percezione, interpretazione, con ogni nostro pensiero, dunque con ogni singolo secondo della nostra esistenza; aspetti secondari che quindi mutano in continuazione, costituendo il flusso perenne dell’esistenza; e che quindi possiamo definire ciò che dell’essere muta, nel senso – come dicevamo prima – che si accresce; e infine i mutamenti apparenti, che appunto non sono veri mutamenti, ma semplicemente interfacce diverse che l’Essere mostra, o meglio prodotte dall’incontro tra determinati aspetti dell’Essere e determinate condizioni esterne.
Tutti questi aspetti coesistono, cioè sono sempre presenti. Per questo si può dire che l’Essere sempre diviene, ma mai muta.
L’essere
dunque è colui che risponde quando si
chiama il suo nome, cioè quando viene nominato; ed è quindi colui che nomina.
E’ ciò che si comunica nella sua lingua, cioè ciò che di sé comunica. L’essere
comunica nella lingua ciò che di sé può essere comunicato.
Ma il suo aspetto primario non
corrisponde a ciò che viene comunicato; perché l’Essere nella sua assoluta interezza è qualcosa di più di quello che si può comunicare,
non solo di quello che è comunicabile, ma soprattutto di quello che si vuole
comunicare.
L’Essere nel suo aspetto primario è ciò che non vuole essere comunicato, che
non vuole essere nomiato e non vuole nominare, perché in questa distanza egli
è: egli è questa distanza.
L’Essere nel suo aspetto primario è dunque la distanza che egli con la sua presenza pone rispetto all’altro da sé, a ciò che egli non è.
Egli cioè si manifesta nella distanza che pone tra sé e tutto ciò che è altro da sé, che da sé è fuori.
Perché non vuole comunicare? Perché per comunicare deve portrare fuori una parte di sé, e portandola fuori la perde. Questo è il senso dell’indovinello che i ragazzi posero a Omero e che Omero non seppe risolvere: quello che prendiamo lo perdiamo; quello che non prendiamo lo portiamo con noi.
Per questo egli comunica solo ciò che è secondario, cioè ciò che deriva dall’esperienza, dunque qualcosa che nasce dopo aver portato fuori qualcosa.
Questo voleva dire Platone quando, nella settima lettera, diceva che con la scrittura si trasmette solo ciò che non è importante: quando si vedono cose scritte di qualcuno, si deve concludere che queste non erano per l’autore la cosa più seria; e che queste cose più serie riposano nella sua parte più bella.
Il che va inteso in senso più generale: l’Essere non comunica ciò che per lui è veramente importante. L’Essere dunque è ciò che non si comunica.