Andata e ritono

 

pavia 1

Blade Runner 2049 ci parla (come trent’anni fa, ma in modo ancora più esplicito), della mancanza di differenza tra esseri umani e automi.

Una mancanza di differenza che si sostanzia nella medesima qualità del ricordo, che è di sole immagini, sia per gli uni che per gli altri, e che pertanto si manifesta nello stesso modo, dall’esterno, che sia stato da noi vissuto personalmente o che ci sia stato successivamente “innestato”.
E se è vero che la “memoria involontaria”, stimolata dal sapore, dal tatto, dall’olfatto, dall’udito, produce ricordi di qualità diversa, che si manifestano non solo come immagini e non solo dall’esterno, ma soprattutto come movimento interiore, è anche vero che la stessa si presenta in maniera assolutamente episodica e casuale, o può anche non presentarsi affatto, come osservava lo stesso Proust: “ …è uno sforzo vano cercare di evocarlo (il nostro passato), inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe). Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai.”

Il passato sfugge al dominio dell’intelligenza che tutto trasforma in linguaggio e dunque ci è precluso, essendo noi stessi diventati linguaggio, mentre l’unicità della nostra esperienza si dissolve in un presente collettivo. L’intelligenza trasforma i nostri giorni in cataloghi di cose fatte, in elenchi di immagini, nomi, luoghi, che finiamo per  considerare solo come dati, e di cui perdiamo la sostanza.  Potremmo acquisire cataloghi di altri esseri umani e considerarli nostri. Vedere  immagini di persone che salutano o di bambini che giocano sulla neve e pensare che siano noi che stiamo salutando o che stiamo giocando sulla neve,  senza commuoverci, così come non ci commuovono le nostre fotografie: l’immagine, più della parola scritta, del ricordo annotato, ci lascia del tutto indifferenti.  Ma la perdita del passato è solo l’aspetto più appariscente della perdita complessiva dell’esperienza del  mondo che abbiamo subito; soggiogati dal potere del linguaggio siamo diventati “orfani della natura” (Holderlin). Ed è come se vedessimo le cose attraverso un monitor.

E’ possibile che, in un tempo precedente il linguaggio, la natura del pensiero fosse tale da non escluderci dal mondo, consentendoci  di sentirlo e di farne esperienza interiore, e quindi di ricordare anche il sentimento provato  come in una durevole  “memoria involontaria”?
In uno dei frammenti postumi degli anni della Gaia Scienza,  Nietzsche si rammaricava della luminosità  della vita che abbiamo perduto, uccidendo Dio:  “E se ancora viviamo e beviamo la luce, come in apparenza siamo sempre vissuti, non è come per lo splendere e il brillare di stelle che si sono spente?  Ancora non vediamo la nostra morte, la nostra cenere,  e questo ci inganna e ci fa credere di essere noi stessi luce e vita – ma non è che la vecchia vita nella luce di un tempo, l’umanità passata e il Dio passato,  i cui raggi e bagliori continuano a giungere fino a noi…  E da ultimo, noi che viviamo e splendiamo, che ne è della nostra forza luminosa?  in confronto con quella delle generazioni trascorse?  E qualcosa di più di quella luce grigio cenere che la luna riceve dalla terra illuminata?”
Ma l’uccisione di Dio, sebbene certificata solo alla fine dell’Ottocento,  (Holderlin  aveva solo potuto vedere i Numi lasciare la Terra) era in realtà avvenuta molto tempo prima.
Sappiamo da Platone  di come il re Thamus si rammaricasse col dio Teuth, il quale aveva scoperto la scrittura, per qualcosa che – già allora – avevamo perduto:  “O ingegnosissimo Theuth (…) essendo il padre della scrittura, per affetto tu hai detto proprio il contrario di quello che essa vale.  La scoperta della scrittura,  infatti,  avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura,  si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei,   e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque,  tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria.  Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità:  divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi  crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con loro, perché sono diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti.”

André Leroi Gourhan, nel suo libro Il Gesto e la parola, pubblicato nel 1964, attraverso lo studio minuzioso delle modificazioni, nei millenni, della forma del cranio, e delle mutazioni nelle attitudini che ogni minima variazione comportava, ci porta fuori dal mito e dentro la storia: “Nei primati, esiste un equilibrio coerente fra le azioni della mano e quelle della faccia, e la scimmia utilizza in modo meraviglioso questo equilibrio, fino al punto di far assumere alle guance quella funzione di strumento di trasporto alimentare che la mano, ancora impegnata nella deambulazione, non può assolvere. Negli antropiani primitivi, la mano e la faccia in un certo senso divorziano,  e le vediamo porsi in concorrenza per cercare un nuovo equilibrio,  la prima per mezzo dell’utensile e la gesticolazione, l’altra della fonazione. Quando appare la figurazione grafica, si ristabilisce il parallelismo, la mano ha il suo linguaggio la cui espressione è in rapporto con la visione, la faccia ha il suo che è legato all’audizione, e tra i due domina quell’alone che conferisce un carattere particolare al pensiero precedente la scrittura propriamente detta: il gesto interpreta la parola, questa commenta il grafismo.
Nella fase del grafismo lineare che  caratterizza la scrittura, il rapporto tra i due settori subisce una nuova evoluzione: fonetizzato e lineare nello spazio, il linguaggio scritto si subordina in modo totale al linguaggio verbale, fonetico e lineare nel tempo. Scompare il dualismo verbale-grafico,  e l’uomo dispone di un apparato linguistico unico, strumento  di espressione e di conservazione di un pensiero a sua volta sempre più incanalato nel ragionamento.”

Con l’invenzione della scrittura si imprime una forte accelerazione a quel processo di esteriorizzazione del cervello avviato più di trentacinquemila anni prima grazie alla capacità sviluppata dagli antropiani di fissare il pensiero in simboli grafici. La scrittura, espressione immediata, cioè non-mediata, del linguaggio fonetico, perde ogni valenza simbolica per diventare visione monodimensionale del reale, funzionale al suo utilizzo tecnico e utilitaristico.  Il tipo di pensiero che il linguaggio fonetico-lineare sviluppa è un pensiero contratto e impoverito, ma sufficiente a rendere un’immagine leggera della realtà. La conoscenza per via orale  inoltre ci libera dalla fatica dell’esperienza. Quindi non solo – come temeva Re Thamus – portiamo fuori ciò che è dentro di noi affidandolo alla scrittura, e in questo modo lo dimentichiamo, ma, grazie alla scrittura, evitiamo anche di portare dentro di noi ciò con cui entriamo in relazione, acquisendolo solo come notizia, come dato. Grazie alla scrittura possiamo sapere cose di cui non abbiamo fatto esperienza, e alla fine sappiamo tutto ma non conosciamo niente, perché la conoscenza vera avviene attraverso il corpo.  A questo punto Dio è già morto, perché noi siamo morti al mondo.

Questa era la disperazione di Cézanne, come ce la racconta Merleau-Ponty, che è testimonianza drammatica dell’irreversibilità del processo, tentativo disperato di recuperare ciò che si è irrimediabilmente perduto: “Si possono fabbricare oggetti che producono piacere collegando altrimenti idee già pronte e presentando forme già viste. Questa pittura o questa parola seconda è quanto si intende di solito per cultura. L’artista secondo Cézanne non si contenta d’essere un animale colto, ma assume la cultura dal suo principio e la fonda di nuovo, parla come il primo uomo ha parlato e dipinge come se non si fosse mai dipinto. (…) Poiché è ritornato, per prenderne coscienza, al fondamento d’esperienza muta e solitaria sul quale sono edificate la cultura e lo scambio di idee, l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la sua prima parola,  senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di vita  individuale in cui nasce e presentare, sia a questa medesima vita nel suo avvenire,  sia alle monadi che coesistono con essa,  sia alla comunità aperta delle monadi future, l’esistenza indipendente d’un senso identificabile.”
Ma quanta fatica.  “Mi trovo in un tale stato di disordine cerebrale, in così grande agitazione, che ho temuto, a un certo momento,  che la mia debole ragione non ce la facesse…  Ormai mi sembra di star meglio e di pensar più giusto nell’orientamento dei miei studi. Arriverò allo scopo tanto cercato e così a lungo perseguito?  Studio sempre dal vero e mi sembra di fare lenti progressi.”
Morirà un mese dopo, a 67 anni.
Quel “fondamento d’esperienza muta e solitaria”  che per le vie ordinarie ci è precluso, dissolto nell’oceano stupido della comunicazione, la possibilità di un incontro autonomo e originale col mondo, sopravvivono ormai solo nel sogno e nella ricerca dell’artista. Spetta ai poeti infatti “annunciare i nuovi numi, o ravvivarne l’attesa ricordando gli antichi”. Ma l’auspicio di Holderlin, ricordato da Traverso nella introduzione agli Inni, non si avvera. Né può aiutarci l’Angelo della Storia, che va avanti guardando all’indietro  le macerie che la storia produce, che già sarebbe qualcosa, avere delle macerie su cui ricostruire. Perché andando avanti noi siamo cambiati, e girandoci a guardare indietro non riusciamo più a vedere ciò che spereremmo di trovare, nel senso che non né abbiamo più la potenzialità. Del passato vediamo solo notizie, non sentiamo il dolore e il peso insostenibile delle macerie. Non è più nelle nostre possibilità far nascere Numi, e tanto meno far tornare quelli antichi, perché gli dei possono nascere solo dall’esperienza del mondo.
Questa incapacità di pensare, e quindi percepire, la complessità; questa distanza ormai incolmabile che ci separa dall’esperienza al punto da renderci incapaci di riconoscerla e di cogliere la differenza tra l’esperienza stessa e il racconto di essa, è la stessa incapacità che ci impedisce di ricordare con l’anima, e non dall’esterno, sfogliando l’album dei ricordi di plastica, con l’intelligenza.

Il processo si concluderà quando l’esteriorizzazione del cervello diventerà praticabile anche fisicamente, quando cioè sarà possibile trasferire il pensiero da un supporto organico all’altro, garantendo così al pensiero stesso una durata indipendente dall’obsolescenza del supporto.
A quel punto l’esperienza, cioè quello che ci faceva essere uno piuttosto che l’altro  (essendo il soggetto il risultato dell’incontro del corpo col mondo), diventerà una favola, un mito. E si racconterà di quando gli uomini erano tutti  diversi uno dall’altro.
Giunto alla fine del suo cammino plurimillenario, l’uomo cesserà di essere individuo e tornerà ad essere specie. Eterno, ma inconsapevole. Certo, è possibile che altri infiniti orizzonti si aprano, e – chi sa veramente cosa sente la mente collettiva delle api?
Dio stesso potrebbe essere la mente collettiva del mondo, una mente formata dal pensiero di miliardi di cervelli collegati in parallelo,  capace di essere ovunque e chiunque nello stesso tempo. E come ogni singola foglia partecipa all’essere dell’albero, anche noi potremo partecipare all’essere Dio. La nostra età dell’esperienza e della diversità potrebbe essere solo una breve fase di un percorso lungo e complesso oltre ogni nostra proporzione, che ci porterà a diventare cellule uguali di un unico organismo, piccoli pezzi di Dio.  Che questo possa valere più del ricetto della Biblioteca Laurenziana, o del Duomo di Pavia, o della sequenza interminata e interminabile delle Montagne di Sainte Victoire, però, è tutto da dimostrare.

cl.

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