GIORGIO COLLI, FILOSOFIA DELL’ESPRESSIONE

Con integrazioni e commenti (in corsivo).

L’APPARENZA

1.
La rappresentazione

Un’illusione della filosofia moderna.

Negli ultimi secoli si è creduto che prendere d’assalto la cittadella della conoscenza risulti agevole, quando si sia capaci di entrare nell’intimo del soggetto, di sviscerare il meccanismo interiore da cui sgorgano le rappresentazioni del mondo esterno. In generale, si è psicologizzato la filosofia teoretica. Ingenua invece è stata giudicata la posizione dei filosofi greci, che ignorano il soggetto conoscente e trattano i problemi gnoseologici in termini di oggetti.
E’ giusto ritorcere tale accusa di ingenuità contro i moderni. Lo studio delle rappresentazioni, elementari o elaborate, comincia in ogni caso dall’oggetto, e non può partire dal soggetto, sempre viscido e inafferrabile. E’ solo parlando di oggetti che si può trattare del soggetto, o più concisamente: se discorriamo di qualsiasi cosa, discorriamo di un oggetto.

E così, con due parole, abbiamo liquidato secoli e tonnellate di idealismo.

La conoscenza del passato.
Se  il passato ha minore realtà del presente, almeno per chi è immerso nel presente, allora anche il conoscere è meno reale dell’immediato vivere (se c’è un vivere fuori dalla rappresentazione), poiché ogni conoscere è fatto di ricordi, oggetti, parole, la cui origine per noi è nel passato.
Un soggetto rappresenta a se stesso qualcosa: è pur questo il conoscere. Ma ciò riporta indietro a un tempo passato, in cui il qualcosa non era rappresentato, e da cui è stato preso per poter essere rappresentato.

Ma nel passato il qualcosa era presente, cioè esistente in quanto esperito ed esperibile. Solo diventando passato, e dunque solo diventando rappresentazione, può essere conosciuto, e quindi può diventare conoscenza.
La differenza tra il passato e il presente è solo nella esperibilità, cioè nella possibilità di farne esperienza, nel senso che solo nel presente si può fare esperienza di qualcosa. Dunque il presente non è che il modo dell’esperienza, la possibilità dell’esperienza.

Il presente è il tempo dell’esperienza.

La quale, appena compiuta, diventa passato, e solo allora può essere rappresentata.

La domanda è: è più vita il presente, quando si esperisce il dato o il fatto, se ne prende atto; o il passato che si ripresenta, cioè la ripresentazione >rappresentazione,  quando cioè l’esperienza diventa rappresentazione e quindi consapevolezza di ciò che è appena successo?
Riposta: sono due vite diverse che procedono parallelamente: la vita sensibile e la vita mentale;  la vita animale e la vita della sfera del pensato e del pensabile; quindi la vita che chiameremmo “reale”, in quanto direttamente(attraverso i sensi) legata alla realtà,  e la vita rappresentata, interpretata, immaginata, virtuale.

Dunque ognuno di noi vice sempre due vite nello stesso tempo (Lepoardi : 4418
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono.
In questo secondo genere di obietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi, e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (30Nov. 1a Domenica dell’Avvento.) Vedi p. 4502.

Lo scarto tra l’una e l’altra è il luogo dove vivono le possibilità-potenzialità di tutto ciò che via via, in una infinibile relazione biunivoca di reciproci condizionamenti, si viene producendo.

Lo scarto tra l’una e l’altra è un luogo che vive nelle frazioni di secondo che passano dalla ricezione del dato sensibile alla composizione della rappresentazione.

Allungare questo tempo quanto più è possibile, in modo da vivere quanto più possibile nel luogo in cui tutte le potenzialità-possibilità sono ancora aperte ed esperibili, il quale luogo è il medesimo luogo nel quale vive Dio, essendo il luogo dove tutto è ancora possibile, questo è il raggiungimento del sublime, che si può ottenere attraverso l’arte o l’esercizio della meditazione.

Dunque si fa esperienza di qualcosa, instaurando con questo qualcosa una relazione di conoscenza che è fatta di senso, cioè sapori, odori, calore ecc. Questa forma di conoscenza, che è primaria in quanto investe la corporeità di chi conosce e di chi è conosciuto, tuttavia svenisce con lo svanire dell’esperienza, lasciando il posto, una volta che sia diventata passato, alla sua rappresentazione.

Ogni conoscenza noetica dunque non può che essere conoscenza derivata da rappresentazione e dunque (Merleau-Ponty, Cézanne) “conoscenza di seconda mano”.

Riguardo alla frase: allora anche il conoscere è meno reale dell’immediato vivere. Questo è esattamente quello di cui parliamo quando diciamo che possiamo solo avere delle cose una conoscenza di seconda mano, per rappresentazione. Ma solo se ci riferiamo alla conscenza noetica. La conoscenza dei sensi infatti è immediata, ed è l’unica conoscenza reale. Nella differenza (cioè in quello che si perde) tra la conoscenza immediata (sensibile) e la conoscenza noetica è la tragedia della nostra condizione.
Il non potere più appartenere al Tutto!

Repraesentatio.

La parola “rappresentazione” usata qui non è da intendersi come traduzione della tedesca Vorstellung, termine che ha fatto fortuna nella filosofia moderna, quanto piuttosto nel significato primitivo di “far riapparire di fronte”, insomma di una “rievocazione”. L’accento non cade quindi sull’ “oggetto per un soggetto”, ma sulla funzione “ripresentante” che implica memoria e tempo.

Esattamente: la rappresentazione è un riportare davanti ciò che è appena svanito.

Soggetto e oggetto.Si è detto che il rapporto tra soggetto e oggetto non coglie l’essenza della rappresentazione. 
L’oggetto non è un elemento, formale o sostanziale, per giungere alla rappresentazione, non è un ingrediente o una nota definitoria di questa, ma è qualcosa il cui significato o la sua cui realtà si può chiarire solo se  si presuppone la rappresentazione. Lo stesso vale, com’è ovvio, per il soggetto, che è il termine complementare dell’oggetto.

Cioè l’oggetto è l’essenza della rappresentazione, ossia l’oggetto esiste in quanto atto della rappresentazione.
L’OGGETTO E’ L’ATTO DELLA RAPPRESENTAZIONE.

Nel momento in cui io rappresento, rappresento un oggetto. Non posso non rappresentare un oggetto.

Prima della rappresentazione l’oggetto non è oggetto ma odore, sapore, tatto, rumore, colore ecc… Aquisisce entità di oggetto nel momento in cui viene estraniato, estratto dalla realtà dei sensi attraverso la rappresentazione.

“Lo stesso vale per il soggetto”, perché il soggetto esiste in quanto soggetto nel momento in cui si rappresenta l’oggetto: questo è l’oggetto, io sono il soggetto, colui che rappresenta. Dal che deriva che senza oggetto, cioè senza rappresentazione, non può esistere soggetto. 

E deriva anche e soprattutto che essendo il soggetto  colui che si rappresenta l’oggetto, ed essendo la rappresentazione sempre una relazione biunivoca, nella quale istanze contrapposte si incontrano,  dunque esso è diverso a seconda dell’oggetto che si rappresenta.

Dunque in opposizione a Fischte, l’io non pone se stesso, ma pone l’oggetto, e per differenza o per conseguenza pone se stesso.

E pone sempre un se stesso diverso, tal che è impossibile dire per ognuno chi è il vero se stesso, perché non esiste un solo se stesso ma infiniti se stessi, quanti sono gli oggetti con cui si entra in relazione, quante sono quindi le rappresentazioni che si pongono in essere.

Se non avesse coscienza dell’oggetto in quanto tale, cioè come prodotto di una rappresentazione, ma solo in quanto percezione dei sensi, un odore o un sapore, esso (l’ente che compie l’atto della rappresentazione, che nel tal caso non compierebbe una rappresentazione) non sarebbe un soggetto, ma soltanto un essere vivente, un animale. E’ un soggetto, e non soltanto un animale, nel momento in cui rappresenta, e non può che rappresentare un oggetto altro.

L’atto della rappresentazione dunque è la differenza ontologica, cioè che inerisce all’essenza. Bisogna approfondire le origini e le cause della acquisizione della capacità di rappresentare da parte dell’animale uomo.

A cominciare da Socrate e dai sofisti.

In più il soggetto, non solo è insostanziale per eccellenza (lucus a non lucendo!), ma è termine quanto mai elastico e comprimibile.  E’ possibile ogni volta risolvere  il soggetto in puri termini di oggetto. Dove compare un oggetto,  questo deve essere conosciuto da un soggetto – ma quest’ultimo potrà a sua volta, assieme al suo oggetto, essere considerato come un oggetto di un soggetto ulteriore. E’ lecito quindi parlare di rapporto soggetto-oggetto solo provvisoriamente, per descrivere una data  situazione degli oggetti.

Per usare un linguaggio logico, si dirà che in tal caso vengono chiamate in causa categorie periferiche. Determinare la rappresentazione come rapporto tra soggetto e oggetto significa considerarla alla luce delle categorie del possesso e della situazione. Occorrerebbe tentare una sua determinazione sotto il profilo della sostanza.

La rappresentazione è un rapporto soggetto-oggetto che in quanto tale nel tempo del suo esperimento è contemporanea ad altre relazioni tra il soggetto e altri oggetti, tal che, producendo ogni relazione di rappresentazione un soggetto diverso in relazione all’oggetto che viene rappresentato, è impossibile definire il soggetto, appunto perché, nello stesso tempo, esso è differente da se stesso.

Pensare il soggetto della conoscenza.
Cade così la difficoltà di come sia possibile conoscere la conoscenza. Tale difficoltà è connessa al concetto moderno del soggetto come sostanza, o anche soltanto come specchio: in questo caso com’è possibile conoscere ciò che è la pura condizione della conoscenza? Ma se il soggetto si risolve totalmente in termini di oggetto, anche la conoscenza sarà fatta di oggetti. Sviluppare in modo sempre più vasto il nesso degli oggetti significherà allora la stessa cosa di conoscere la conoscenza.

Forse si vuol dire che la conoscenza per approssimazione del soggetto è possibile sviluppando in modo sempre più vasto i nessi tra gli oggetti e il soggetto.

Che significa conoscere la conoscenza? Significa avere consapevolezza di sé, cioè conoscere colui che conosce. Ma senza l’atto del conoscere, colui che conosce, non compiendo l’atto del conoscere, non può avere conoscenza/consapevolezza di sé.

Preminenza del soggetto come segno di involuzione
I Greci non conobbero qualcosa di simile al nostro soggetto se non in tema di discussione psicologica, che per loro aveva un significato mitico-religioso oppure specialistico.

In ogni caso poi questo  occasionale soggetto  venne identificato, in tutto o in parte,  con l’oggetto, tipicamente nella conoscenza noetica. Il che è la versione mistica di quello che è stato sopra accennato come riduzione del soggetto, in direzione contraria, all’oggetto.
Tutto per contro è fuorviante nelle teorie moderne sul soggetto, a cominciare dal vocabolo, che attraverso una storia equivoca risale a un termine tecnico aristotelico di tutt’altro significato, anzi a Platone e forse ancora più in là. (vedi più avanti Calogero)
La sostanzialità del soggetto, benchè confutata da Kant è poi rispuntata fuori sotto vari travestimenti. Ma anche nelle più decorose dottrine sull’argomento, dove il soggetto della conoscenza diventa una sintesi pura, o un semplice punto di riferimento per ogni rappresentazione, la nozione di soggetto non solo è fuorviante, ma risulta seriamente pericolosa.
Bisogna ridurlo a mero concetto relativo, tentare di eliminarla completamente da ogni considerazione in profondità.

Dunque la relatività comincia dal soggetto. Cioè il soggetto è un concetto relativo.

Sostanza
di Guido Calogero

Enciclopeia Italiana 1936

Termine filosofico, che formalmente ha origine nel linguaggio del pensiero medievale, ma nel concetto risale al pensiero greco. Etimologicamente il termine latino substantia corrisponde infatti, nel suo significato di “realtà che sottostà, che soggiace”, al greco ὐποκείμενον, nel senso per cui questo designa la realtà stabile e costante a cui ineriscono gli attributi. Ma presso i Greci dell’età classica tale termine, che significa del resto anche il sostrato materiale e informe su cui si imprime la forma determinata (v. Soggetto), è più propriamente sostituito nell’uso da quello di οἰσία, per etimologia corrispondente a quello latino di essentia, a cui la tradizione terminologica, dal Medioevo in poi, attribuisce d’altronde il significato del puro contenuto ideale costituente una qualsiasi entità a prescindere dalla sua esistenza. La greca οὐσία e la latina substantia (come del resto anche la ὐπόστασις del pensiero ġreco più tardo, del tutto corrispondente al termine latino anche dal punto di vista etimologico) significano invece la realtà perfettamente costituita, la cui essenza è stabilmente concretata nell’esistenza. Così per Platone sono οὐσίαι le idee, come realtà dotate di assoluta ed eterna essenza ed esistenza, in contrasto con le relative e mutevoli apparenze sensibili; e per Aristotele, che considera come propriamente reale solo l’entità individua in cui l’essenza ideale informa l’esistenza materiale, è οὐσία la sintesi concreta della forma e della materia, risultando perciò abbassati a δεύτεραι οὐσίαι (substantiae secundae) quei concetti di genere e di specie che per Platone invece costituivano le sole vere οὐσίαι. Di conseguenza, l’οὐσία si presenta in Aristotele come prima fra le categorie e come soggetto della predicazione di tutte le altre, in quanto realtà che non può essere predicata di nessun’altra, mentre ogni altra determinazione del reale appare necessariamente come suo predicato.

Questo concetto aristotelico dell’οὐσία, che si perpetua nella logica e nell’ontologia del pensiero greco posteriore, serba valore attraverso tutta la filosofia medievale, che, come si è detto, riferendosi all’aspetto per cui l’οὐσία si presenta come ὑποκείμενον, cioè come sostrato ultimo di tutti gli attributi possibili, traduce quel primo termine con quello di substantia. E lo definisce perciò come ens quod per se subsistit, accentuando in tal modo l’aspetto ontologico della relazione logica per la quale la sostanza non è predicabile di alcunché, mentre tutto si predica di essa: infatti ciò che si predica di altro sussiste solo come suo attributo e ne è quindi dipendente, l’assoluta indipendenza ontologica restando caratteristica della realtà che non può mai presentarsi come predicato. La substantia si presenta così come la realtà assolutamente vera, alla cui conoscenza propriamente tende la filosofia; e viene con ciò ad assumere in generale quel carattere di ultimo principio costitutivo dell’universo, che prima dell’adozione dei termini di οὐσία e di substantia era stato altrimenti designato, fino dall’ἀργή dei presocratici.

Ancora in tutta la prima fase del pensiero moderno tale uso del termine continua incontrastato: Cartesio chiama le realtà per lui ultime substantia cogitans substantia extensa, e il monismo spinoziano unifica quelle due realtà proprio approfondendo il principio medievale dell’assoluta autonomia logica ed ontologica della sostanza (da lui definita come quod per se est et per se concipitur), che non potendo riferirsi ad altro dev’essere infinita e unica. Ma contro questo assoluto valore ontologico del concetto di sostanza si leva l’empirismo: il Locke, con la sua critica associazionistica, mostra come ciò che si dice sostanza non sia altro che un complesso convenzionale di percezioni distinte, e chiarendo la soggettività delle qualità secondarie ne riduce il contenuto oggettivo alla semplicità matematica delle primarie; e la gnoseologia del Berkeley giunge a risolvere pienamente la substantia extensa nelle percezioni delle substantiae cogitantes, costituenti per ciò esse sole l’universo. D’altronde, dissolta da Hume anche la sostanza spirituale, la critica kantiana, intenta a restaurare la possibilità della conoscenza del reale contro lo scetticismo humiano, restituisce alla sostanza il valore di categoria instaurante l’unità dei fenomeni. Ma naturalmente, così intesa, la sostanza non è più aspetto oggettivo della realtà, ma funzione soggettiva del conoscere: e tale resta nei sistemi dialettici degl’idealisti postkantiani, che variamente la inseriscono nelle loro deduzioni delle categorie.

Nell’idealismo più recente, dimostratasi incongrua anche l’esigenza di una deduzione oggettiva delle categorie, il concetto di sostanza ha perduto anche quell’ultimo valore speculativo che pur serbava in tal senso.

Bibl.: Manca una storia generale del concetto di sostanza. Per l’antichità classica, v. B. Bauch, Das Substanzproblem in der griech. Philosophie bis zur Blütezeit, Heidelberg 1910; R. Hirtzel, Οὐσία, in Philologus, LXXII (1913), pp. 42-64. Per la critica moderna del concetto, v. tra gli altri E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, 2ª ediz., Berlino 1922. Raccolta d’indicazioni singole in R. Eisler, Wörterbuch d. philos. Begriffe, III, 4ª ed., Berlino 1930, pp. 177-90.

Soggetto.
di Guido Calogero
Enciclopeia Italiana 1936

 Termine filosofico di storia assai singolare, essendo giunto a possedere un significato per certi aspetti esattamente antitetico a quello che aveva in origine. Il latino subiectum traduce il greco ὑποκείμενον, e questo, secondo la sua stessa etimologia, significa inizialmente, in generale, tutto ciò che “soggiace” o “sottostà”. Esso designa quindi, p. es. in Aristotele, tanto la materia, come sostrato su cui s’imprime la forma individuante, quanto la stessa sostanza individuata (il latino substantia, che corrisponde al greco seriore ὑποστασις “ipostasi” – mentre Aristotele usa in tal senso οὐσία, letteralmente pari ad essentia – è del resto etimologicamente del tutto analogo a subiectum) in quanto sorregge gli attributi, o “accidenti”, che le ineriscono. E siccome il rapporto reale che connette l’attributo alla sostanza si rispecchia in quello logico collegante i due termini del giudizio, così s’intende come il termine designante il “sostrato” delle affezioni venga insieme a indicare il “soggetto” a cui è attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato.

A questo significato logico (ancora oggi valido nella sua sfera) del subiectum si accompagna così quello per cui esso, al pari dei corrispondenti termini di “sostanza” e “ipostasi”, serve a designare la realtà in ciò che ha di più reale e in sé consistente, dato che per il pensiero classico il sospetto di relatività al senziente può tutt’al più colpire le affezioni o “qualità” (come p. es. quelle avvertite dai sensi particolari, colori, suoni, sapori, ecc., già condannate da Democrito come “convenzionali”, cioè relative alla natura e situazione dell’organo percipiente), ma non mai il sostrato, comunque esistente, che quelle qualità sorregge. Di conseguenza, nella terminologia logica latina, fin dal tempo di Apuleio e di Boezio, subiectum subiectivus si riferiscono al carattere di realtà sostanziale delle cose: e così per la filosofia scolastica esse subiective significa l’esistenza reale, mentre esse obiective designa la sussistenza soltanto nel pensiero, con antitesi di valori esattamente contraria a quella che i termini di soggetto e oggetto vengono invece ad assilmere nel pensiero moderno.

Questo capovolgimento del significato di subiectum e dei suoi derivati, che naturalmente porta con sé il capovolgimento analogo di quello del suo opposto, si compie dal sec. XVII in poi. Cartesio mantiene ancora l’uso scolastico: ma già Hobbes e Leibniz adoperano il termine per designare il soggetto dell’attività senziente (Hobbes definisce: subiectum sensionis ipsum est sentiensnimirum animal). Il passaggio terminologico è naturalmente reso possibile dal fatto che l’attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del “soggetto” corporeo a cui inerisce. S’inaugura così la tradizione per la quale il termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, il suo opposto passando perciò a indicare la realtà che esiste in sé e che quindi è il termine a cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come “soggettivo” ciò che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto. Questo nuovo significato si afferma in maniera decisiva col Kant e con l’idealismo tedesco dell’Ottocento, restando quindi acquisito a tutta la gnoseologia posteriore. Il soggetto s’identifica in esso con l’Io, e al pari di quest’ultimo si distingue in soggetto trascendentale, o puro, e in soggetto empirico, a seconda che vien concepito come forma universale e assoluta o come realizzazione individuale e relativa dell’attività pensante. Vedi perciò soggettivismo.

Soggettivismo,di Guido Calogero
Enciclopedia Italiana 1936

Termine filosofico, derivante dal significato che il vocabolo “soggetto” acquista nell’età moderna, quando viene riferito essenzialmente all’attività pensante (v. per ciò soggetto). Esso designa quindi, in generale, ogni concezione che risolva, in qualsiasi modo e misura, la realtà delle cose nella realtà stessa del pensiero che le pensa, o comunque dell’esperienza conoscitiva a cui esse sono presenti. E si specifica perciò, principalmente, in soggettivismo “empirico”, quando il soggetto della conoscenza è identificato col singolo individuo in cui essa si realizza, e in soggettivismo “trascendentale”, quando questo stesso soggetto è concepito come attività assoluta e universale, immanente di necessità nella consapevolezza di ogni singolo senziente e pensante. Parallelamente, si parla di soggettivismo nel campo della filosofia della pratica quando la norma dell’azione è comunque considerata come dipendente dalla natura stessa dell’agente, e non come trascendente rispetto ad essa; e anche qui il soggettivismo può naturalmente essere empirico, se la norma dell’azione è ridotta all’arbitrio del singolo, e trascendentale, se è invece identificata con un’esigenza universale e necessaria di ogni pensabile volontà.
Nel pensiero antico, essenzialmente orientato verso l’oggettivismo gnoseologico ed etico, il soggettivismo si presenta soltanto come fenomeno di eccezione, e in ultima analisi come manifestazione di crisi: esso mostra infatti soltanto il suo aspetto empirico, quindi negativo rispetto all’oggettività che dovrebbe fondare i valori teoretici e pratici. Così nella sofistica, e specialmente in Protagora, il soggettivismo appare come subordinazione di ogni valore conoscitivo e morale al criterio soggettivo dell’utilità; mentre nello scetticismo, che conclude il pensiero classico, esso si presenta come argomento per negare all’uomo la possibilità di attingere l’oggettività del vero, che nella sua conoscenza risulta sempre soggettivato, e per dedurne quindi l’insussistenza di ogni certezza conoscitiva. Il soggettivismo acquista invece un valore positivo quando, nell’età moderna, la critica campanelliana e cartesiana, riprendendo l’antica scoperta di S. Agostino, avverte come la certezza soggettiva che l’attività pensante ha del suo sussistere costituisca l’unico stabile punto di partenza per il superamento dello stesso scetticismo. E più compiutamente si afferma man mano che la speculazione filosofica riconosce la necessità di dare alla sfera dell’attività pensante un posto sempre maggiore nel quadro dell’universo; giungendo al suo culmine nelle varie concezioni che, dal Leibniz al Berkeley, avvertono l’esigenza di concepire tutto l’universo come risolventesi nella consapevolezza dei pensanti. Tra il Sette e l’Ottocento poi ricaduto in una fase di scetticismo, per opera del Hume, questo assoluto soggettivismo empirico, esso si riafferma come soggettivismo trascendentale in tutte le concezioni idealistiche che, movendo dalla critica kantiana, procedono dai sistemi dei primi grandi postkantiani fino alle più recenti concezioni del pensiero contemporaneo, pur non mancando accanto ad esse varie propaggini dell’antico soggettivismo empirico, talora contemperato variamente con l’altro (empirismo, relativismo, empiriocriticismo, ecc.).

La rappresentazione come dato.
Non è possibile definire la rappresentazione, troppo vasto è il suo campo. Il sentimento più interiore, l’attimo di Goethe o l’estasi di Plotino, è già una rappresentazione, come il pensiero più astratto e universale è ancora una rappresentazione. Dal puro punto di vista categoriale si può assegnare una essenza alla rappresentazione, che sarà la relazione.
Insomma la rappresentazione è l’unico dato primitivo.
Sarà possibile soltando una sua denominazione come “rievocazione”, ossia una spiegazione metafisica del suo significato.

La rappresentazione è il dato primitivo nel senso che è l’atto primo, l’atto cioè con il quale il soggetto pone il mondo fuori di sé e come immediata conseguenza pone se stesso.

Il mondo è rappresentazione.
Il mondo che si offre ai nostri occhi, quello che tocchiamo e quello che pensiamo, è rappresentazione, come dalle Upanishad antiche e da Parmenide in poi ha compreso ogni speculazione penetrante. Su questo si può tagliare corto.

Colli dice “quello che tocchiamo e quello che pensiamo” e dunque si riferisce al mondo in quanto “nostro “ mondo;  in questo senso dire che il mondo è rappresentazione è corretto. Ma il mondo – il pianeta terra – esiste a prescindere dalla nostra rappresentazione. Si è formato e ha subito la sua evoluzione in milioni di anni senza essere rappresentazione di nessuno. Dunque sarebbe più corretto dire che “il mondo è l’oggetto della nostra rappresentazione” e non che “il mondo è rappresentazione”.

Ma il mondo è rappresentazione in quanto viene subordinato alla categoria della relazione. Difatti la rappresentazione non ha sostanza,  è una semplice relazione, un rapporto fluttuante tra due termini – provvisoriamente chiamati soggetto e oggetto – instabili, cangianti, di volta in volta mutevoli, trasformantisi l’uno nell’altro, per cui ciò che in una rappresentazione è soggetto diventa oggetto in un’altra.

Se si vuol considerare il mondo come sostanza, non in quanto sottratto alla sfera dei dati primitivi, ma sempre quel mondo che è rappresentazione, bisogna cercare qualcosa di immediato, di cui il mondo indichi l’essere. Il mondo allora sarà sostanza in senso categoriale, esprimerà qualcosa di nascosto, di sottratto alla sensazione e al pensiero.

Bisogna cioè cercare nel mondo, qualcosa di conoscibile prima della rappresentazione, che il mondo stesso ci indichi. Tale sostanza dovrà essere necessariamente nascosta, cioè sottratta alla rappresentazione.

Dunque ciò che è sostanza non appare, e ciò che appare non è sostanza.

E però: il mondo come sostanza non è il mondo esperito attraverso i sensi? I sensi ingannano e dunque non danno certezza di nulla, e questo va bene, ma la sostanza non c’entra nulla con la verità. La sostanza del mondo sarà diversa per ognuno che la  percepisce attraverso i sensi, ma solo ad una lettura del dato. Cioè la sostanza diventa diversa nel momento in cui diventa rappresentazione della sostanza. Ma a monte della rappresentazione lo stimolo originario, al di là di differenze fisiologiche e non significative, è uguale per tutti. Uno può sopportare il dolore meglio di un altro, ma l’esseffetto di una ferita, di una lacerazione, è sempre e per tutti un dolore.
Dunque esiste un  mondo come sostanza che è percepibile attraverso i sensi.

Esiste anche una sostanza unica e unicamente interpretabile, dunque uguale per tutti che sta a fondamento di tutte le altre e dunque costituisce la vera sostanza del mondo?

Certamente. Ma non è interessante. Chi si cura infatti degli atomi?

Godimento del contemplatore.
Cogliere l’intuizione, o essere colti dal pathos, che il mondo in cui viviamo sia una apparenza, un’illusione, con la consistenza di un sogno o, in termini non enfatici, sia una rappresentazione, è un’esperienza non insolita – come stato d’animo – negli anni giovanili, ma decisiva, quando raggiunge un grado fervido e perdurante di intensità.
Non si tratta di una scoperta di ieri: si va indietro di quasi tremila anni, quando se ne cerchi l’origine.
Chi subisce questo pathos ha la tendenza alla contemplazione, poiché intuire significa contemplare; e contemplare è distanziarsi dal fondo della vita.
Chi in questo fondo è immerso non può sentire di essa l’illusorietà. Conoscere è perdere qualcosa dal pozzo della vita.
Ma il godimento dell’attimo, paradossalmente, è più intenso nel conoscitore. La visione istantanea di un frammento di vita è sconvolgente per chi dalla vita si distacca, tagliando i suoi impulsi di appropriazione, e nel far ciò si vanifica, riversandosi fuori di sé, nell’immagine riconosciuta illusoria. Il risparmio dell’agire si traduce in acquisizione di potenza: chi assiste a uno spettacolo riceve forza.

Cioè è la vera forza assistere allo spettacolo, cioè potersi estraniare al punto da vedersi fuori dall’immagine e riconoscerla illusoria: il consueto inganno.

E però: è con un senso diverso che oggi guardiamo all’illusorietà del mondo: nel senso che riconosciamo in essa il nostro limite, consapevoli del fatto che illusorio il mondo non l è affatto. Queste note sono state scritte negli anni 60, quando ancora ci si poteva illudere sulla illusorietà del mondo.

Solidità della rappresentazione.
Così il mondo delle cose non sarebbe altro che una concatenazione, una struttura conoscitiva.
In contrapposizione si è accennato al fondo della vita, a qualcosa di nascosto, ma questo per ora è meno di un ipotesi, è un suggerimento e una suggestione.
E d’altra parte questo mondo della rappresentazione sarebbe apparenza in un modo più consistente e concreto di quanto sembri a prima vista.
Anche se questa realtà manifesta si risolve in un intreccio di pure relazioni, ciò non le impone un limite grossolano nel senso che, soppresso un soggetto di conoscenza empirico o universale, venga per questo soppresso il mondo. Se si asserisce l’inconsistenza del soggetto, o almeno che il soggetto non è un termine fisso o finale, non si potrà più dire che la realtà di questo mondo sia determinata così banalmente.

Tale realtà la chiamiamo illusoria perché siamo avvezzi a intendere per realtà vera qualcosa per sé, indipendente da noi e quindi anche dalla nostra conoscenza. Ma ciò che ha diritto di chiamarsi realtà è  appunto solo questa realtà illusoria.

Cioè la realtà della rappresentazione, la realtà rappresentata.

E tuttavia il fatto che io abbia coscienza della realtà attraverso la rappresentazione che ne faccio, cioè il fatto che il mio modo di percepire la realtà sia di mettere in atto una rappresentazione della realtà, non significa che la realtà è una rappresentazione. Dire così è fuorviante, perché il concetto di rappresentazione contiene un margine di aleatorietà che per analogia viene facilmente trasferito alla realtà, ma che  la realtà di per sé non ha. Essa è indipendente da noi e dalla nostra coscienza/conoscenza.

Al mondo nascosto, se un accenno ad esso ha senso, non spetta l’attributo della realtà, poiché non spetta nessun attributo: i predicati sono di pertinenza della rappresentazione.

E tuttavia un attributo gli viene concesso, e anche sostanzioso: nascosto; che non significa inconoscibile, ma solo “non in vista”, “non apparente”, cioè “non visibile”.
E in realtà più che nascosto tale mondo è evanescente, perché dura l’attimo dell’esperiena, e poi diventa appunto rappresentazione.
E ancora: perché negare dei predicati a ciò che si sente, cioè a ciò di cui si fa esperienza con i sensi?

E così l’universo della natura, il cielo e le stelle con le loro presunte leggi, l’uomo e la sua storia, con i suoi pensieri più sottili e le sue azioni più corpose, tutto ciò altro non è che rappresentazione, ed è lecito soltanto interpretarlo come un dato conoscitivo.

Tutto ciò è qualcosa che noi conosciamo attraverso la rappresentazione che ce ne facciamo; non è una rappresentazione, è la nostra rappresentazione.Cioè il fatto che per noi sia una rappresentazione è il nostro limite.

E’ lecito interpretarlo come un dato conoscitivo solo se manteniamo la nostra ricerca nell’ambito della rappresentazione, cioè nel mondo, e dunque nel visibile.
In aggiunta vale quanto detto prima rispetto alla sostanza del mondo prima della rappresentazione. Rispetto a ciò si può ancora aggiungere: tutto il mondo che noi vediamo è nulla, non esiste del tutto, prima della nostra nascita. Comincia ad esistere solo con la nostra nascita. Possiamo dunque dire che prima che esistessimo noi non esisteva nenche il mondo? Eppure è proprio così: non esisteva!

Tutti gli altri nomi che la ragione umana può mettere avanti, con la pretesa di svelare qualcosa di sostanziale, di elementare, di unificante rispetto al caleidoscopio dell’esperienza, (che rimane nell’ambito della rappresentazione),  i nomi di idea, di spirito, di volontà, di istinto, di azione, di potenza, non sono giustificati e non spiegano nulla,  rivelano semplicemente l’intrusione di concetti metafisici a interpretare i nessi propulsivi che la rappresentazione come tale, senza aiuti trascendenti o trascendentali, già possiede in sé. Per quel che riguarda il mondo del divenire, anzi, con espressione rigorosa e sintetica, si dovrà dire in generale che, in quanto non si riduca in puri termini di conoscenza e di relazione rappresentativa, non esiste in nessun modo ciò che viene designato con il nome di azione.

Il soggetto come elemento comune?

Ogni volta che si analizza una rappresentazione si ritrova un oggetto, sia pure nell’ambito di una relazione, cioè secondo una prospettiva, come una proiezione determinata. Ma vano è cercare il punto da cui si muove questa visuale: nel momento in cui lo si scopre, esso diventa oggetto, assorbendo in sé il vecchio oggetto, e ancora una volta sfugge l’origine della prospettiva.
Se all’interno di una rappresentazione, come suo contenuto, ogni analisi si imbatte sempre in un oggetto, si dovrà allora esaminare le condizioni di essa, i suoi collegamenti, per scoprire qualcosa del soggetto?

In una qualsiasi serie connessa di rappresentazioni c’è un duplice elemento comune, che sta ogni volta fuori della singola rappresentazione: dalla parte dell’oggetto, ossia ciò che occorre postulare come sostrato comune  a tutti i differenti oggetti delle rappresentazioni,  dovrà trattarsi di un elemento al di qua delle serie delle rappresentazioni; e dalla parte del soggetto, di fronte alla sua fuga indefinita come di un’immagine in uno specchio, l’elemento comune a una serie di rappresentazioni è il nesso che le congiunge e che lega eventualmente all’interno i loro singoli oggetti.

Al soggetto è riconosciuta così una funzione condizionante rispetto all’oggetto; empiricamente è la comunione tra le rappresentazioni a mettere sulle tracce del soggetto, e psicologicamente la ricerca è guidata da ciò che era prima e ciò che sarà dopo, dalla sfera della memoria.

L’elemento comune, costante e persistente è la condizione di un confronto tra le rappresentazioni. Il soggetto più universale sarà qualcosa di comune alla serie – o alla serie di serie – più estesa di rappresentazioni.

L’azione è una qualitas occulta.

Quindi la conoscenza esiste, ma non ci sarebbe un portatore della conoscenza. Inoltre, se non c’è un portatore della conoscenza, come potrebbe esistere un portatore dell’azione? Senza portatore dell’azione d’altra parte non è concepibile neppure una volontà, e l’azione stessa, senza un suo portatore, è assurda. Chi agirebbe?

Il concetto di azione risulta così fittizio, è un’abbreviazione, un’approssimazione, un tirar via sbrigativo che assume come unità (metafisica) ciò che in termini di conoscenza – cioè dei solo dati accettabili – si risolve in una intricata serie di nessi tra le rappresentazioni.

L’illusione dell’idealismo
Non è il soggetto a creare la realtà, non è l’io a creare l’essere, perché ogni rappresentazione contiene il soggetto, o meglio lo implica,  ma non è creata dal soggetto.

Creare infatti è un agire, cosicché si ricade nella mitologia dell’azione; al prodursi delle rappresentazioni potrà applicarsi se mai la categoria della causalità, ma in tal caso non potrà essere che una rappresentazione come tale, nella sua unità, a venir considerata come causa, non certo un soggetto sempre cangiante, che si presenta come causato piuttosto che come causa.

E’ invece la cogitatio (l’atto del pensare – il pensiero) a costituire il cogito (l’evidenza immediata con la quale il soggetto pensante coglie la sua essenza), non il cogito a costituire la cogitatio; e del resto può esistere una cogitatio senza cogito, ma non viceversa.

Quindi è la rappresentazione a creare il soggetto, coincidendo  la rappresentazione con l’atto del pensare, ed il soggetto con il cogito.
E’ l’atto della rappresentazione, che crea il soggetto.

Lo scoglio del solipsismo.

Solipsismo
di Guido Calogero
Enciclopedia Italiana 1936

Termine filosofico, derivato dalle parole latine solus “solo” e ipse “stesso”, e designante perciò l’atteggiamento mentale e speculativo che il soggetto assume quando risolve ogni realtà in sé medesimo, o dal punto di vista pratico o da quello gnoseologico-metafisico. Nel Settecento esso ha piuttosto il primo significato (tale è, p. es., il senso in cui lo usa Kant: solipsista è colui che per metro delle sue azioni ha soltanto il proprio interesse personale), mentre nel secondo significato, e cioè per designare l’atteggiamento di chi considera tutto l’universo come semplice rappresentazione della propria coscienza, è adoperato il termine di “egoismo” (v.). Nell’Ottocento l’ambito significativo dei due termini s’inverte invece esattamente: di egoismo si parla, quindi soprattutto in senso etico-pratico, e di solipsismo in senso gnoseologico-metafisico. La storia del solipsismo viene perciò a coincidere con quella dell'”idealismo soggettivo”, cioè dell’impostazione propriamente soggettivistica dell’idealismo in quanto viene insieme considerata come conclusione ultima dell’idealismo stesso. Tutti, o quasi, coloro che si pongono dal punto di vista idealistico considerano infatti come necessario partire dalla posizione solipsistica, cioè dalla constatazione che ciò che si presenta al pensiero di chi si propone il problema della realtà è anzitutto il contenuto di quel pensiero: ma solipsisti sono poi soltanto coloro che, o negando la distinzione dell’io empirico dall’io trascendentale o non riuscendo altrimenti a risolvere il problema del significato delle altrui personalità, concludono nell’impossibilità di uscire da quella posizione iniziale.

Solipsismo
Dizionario di Filosofia Treccani

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Noumeno
Wikipedia

Nella filosofia di Platone,  noumeno (AFI/noˈumeno/;[1][2] dal greco νοούμενον,[3] nooúmenonparticipio presente medio-passivo di νοέω, “io penso, pondero, considero”[4]) rappresenta una specie intelligibile o idea e indica tutto ciò che non può essere percepito nel mondo tangibile, ma a cui si può arrivare solo tramite il ragionamento. Il noumeno, come concetto, fonda l’idea di metafisica in Platone.
Secondo Sesto Empirico, già Anassagora avrebbe contrapposto ciò che è pensato (νοούμενα) a ciò che appare (φαινόμενα = i fenomeni).[5]

Il noumeno kantianot

Il noumeno compare anche nella filosofia di Immanuel Kant[6] (dove è anche chiamato cosa in sé, in tedesco Ding an sich). In Kant il noumeno è un concetto dai caratteri problematici che si riferisce a una realtà inconoscibile e indescrivibile che, in qualche modo, si trova “al fondo” dei fenomeni che osserviamo, sullo sfondo, al di là dell’apparenza (di come cioè le cose ci appaiono).

Che il cogito non possa creare il noumenon fu messo in chiaro da Kant; tuttavia, poiché il cogito avrebbe creato comunque il phaenomenon, mentre il contrapposto nuomenon  venne ben presto sottoposto a stringenti accuse, sembrò risultare alla fine una confusione tra l’unico essere possibile e il phaenomenon. E il soggetto, benché privato di ogni sostanzialità, rimaneva pur sempre la condizione suprema della conoscenza, cosicché lo stesso Schopenhauer, cioè il discepolo più fedele di Kant, dovette confessare che l’obiezione solipsistica sembra resistere a ogni tentativo di confutazione.
In tal caso ogni traccia di rappresentazioni costituite dal soggetti differenti dal nostro (e prescindendo dalla questione di una cosa in sé, che si supporrebbe inesistente) sarebbero riconducibili a rappresentazioni del nostro unico io, comunque lo si voglia intendere.
Ma se si afferma che non esiste un soggetto come vertice universale

nel senso che il soggetto è ciò che via via viene creato e creandosi ad ogni rappresentazione

– sostanziale o no – della conoscenza, svanirà allora come nebbia al sole la tesi del solipsismo.

La capacità di conoscenza.

Le distinzioni del linguaggio gnoseologico, più o meno tecnico, tra senso, immaginazione, intelletto, ragione, non vengono qui riconosciute.

Con la caduta dell’ipotesi del soggetto, infatti, risulta vana altresì la ricerca delle diverse facoltà o capacità del conoscere. Ci vorrebbe qualcuno che potesse essere capace di questo o quello, un sostegno per queste facoltà.
I termini nominati indicano funzioni fittizie, alla cui base stanno sempre rappresentazioni, come tali omogenee per natura. Che l’oggetto della rappresentazione si trovi in maggiore o minore prossimità della sfera dell’impressione sensoriale non tocca l’essenza della rappresentazione stessa. Si potrà tutt’al più indagare se nella natura e nel concatenamento delle rappresentazioni siano determinabili specie particolari di esse.

Il risveglio di Buddha. Che cosa atterrì l’animo di Buddha quando, destatosi nell’ora che precede l’alba, gli parve che il suo regale palazzo divampasse e all’improvviso fu sopraffatto dall’impulso a fuggire per sempre le immagini convulse della brama terrestre? Sale vuote, cenere calda dopo il festino. Lampade morenti illuminano corpi riversi, vinti dall’ebbrezza; schiave e danzatrici farneticano nel sonno, scoprono nudità ripugnanti.
Ma il velo è strappato, d’un tratto la vita è riconosciuta come un arabesco angoscioso, è penetrata nella sua natura illusoria. Nel figlio di un re lo slancio verso il dominio presagisce la più grande vittoria: sarà possibile al conoscitore estinguere il focolare di questo incendio, tagliare le radici a questio delirio dell’apparenza. A cavallo Buddha fugge nella solitudine.

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