Giacomo Leopardi, dallo Zibaldone

(Sulla vanità del Cristianesimo, pp. 3497- 3509.)

Con questo suo lento e pacato discorrere, privo di alcun livore e anzi con una certa compassione e benevolenza nei toni, Leopardi demolisce il Cristianesimo sin dalle sue fondamenta, mostrandone la mancanza di senso e l’inefficacia dell’azione proprio là – nell’opera di consolazione degli infelici – dov’esso fa sfoggio di eccellere. Che senso ha promettere un letto morbidissimo a chi sta morendo di fame? Nessuno, appunto.



(3497) Le speranze che dà all’uomo il Cristianesino sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di che si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna.
La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1°. che l’uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2°. ch’egli sa bene di non poter mai né concepire né immaginare né averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3°. che egli sa espressemente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua  infelicità; una tal promessa dico, e una tale (3498) aspettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale,  e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamodover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocché esistiamo. Così chiunque vive. E chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. a)
E’ chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un’altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; ché desiderando quella di un’altra esistenza, ancorch’ella in questa s’avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui, (3499) ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui,  il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec.
Laonde la felicità che l’uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistenza. Né egli può mai lasciar di desiderar questa felicità per niuna ragione, né per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l’uomo mortale desideri la felicità dei Beati, di quello che il cavallo la felicità dell’uomo, o la pianta quella dell’animale; di quel che l’animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura o la carne di cui lo vegga cibarsi, all’uomo il piacer degli studi e delle cognizioni, piacere che l’animale non può concepire né che possa esser piacere, né come, né qual piacere sia; e così discorrendo.
E’ ben vero che né l’uomo, né forse l’animale né verun altro essere, può esattamente definire nè a se stesso né agli altri, qual sia assolutamente e in generale la felicità ch’ei desidera; perocchè (3500) niuno forse l’ha mai provata, né proveralla, e perché infiniti altri nostri concetti, ancorché ordinarissimi e giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che dell’idea; che nascono più dall’inclinazione e dall’appetito, che dall’intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai.
Ma ciò non ostante, si l’animale che l’uomo sa bene e comprende, o  certo sente, che la felicità ch’ei desidera è cosa terrena.
Quell’infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perché s’è dichiarato altrove)* quel medesimo è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell’immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de’ viventi. Oltre di ciò, nessuno è che viva senz’alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o positivo, nel conseguimento (3501) del quale o di più d’uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benché pur sempre per errore, la sua felicità e ‘l suo ben essere.
Quel trovarsi senza alcun desiderio al mondo, se non quello d’un non so che, quell’esser infelice senza mancare di niun bene, né patire assolutamente niun male, è impossibile; e se Augusto diceva di essere in questo caso, poteva parergli che così fosse, ma s’ingannava; e niuno mai si trovò veramente in tal caso né è per trovarvisi, perché a niuno mai mancò né è per mancar  materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo,  o ch’esso miri a qualcosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. Anzi, a nessuno è per mancar mai materia di molti e vivi desideri determinati di questa specie. Or tutti questi desideri determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici,  sono tutti di cose terrene.
Promettere all’uomo, promettere all’infelice una felicità celeste, benché intera e infnita, e superiore senza paragone alla terrena, e a’ piccoli beni ch’egli desidera, si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l’affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione, (3502) e questo piacere sarebbe della medesima natura di quello ch’ei desidera e non ottiene cioè materiale e sensibile come l’altro. Non così possiamo dire de’ piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual caso l’uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre, e l’infelice massimamente,  benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perché tutti e sempre si trovano nel detto caso.
Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che s’è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici;  e questa lor natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia di nulla effetto: perché a chi desidera una cosa si promette un’altra ch’è diversissima da quella*; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio ch’ei non ha, e non può per sua natura avere né formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un male noto,  si promette un piacere e un bene ch’ei non conosce né può conoscere, e ch’ei non vede nè può vedere come sia per essere bene, e come possa piacergli; (3503) a chi è misero in questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non può concepire né desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una tutt’altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch’ella è sommamente e totalmente e più ch’ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch’ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia.
Come l’uomo non può nè collo intelletto nè colla immaginazione né con veruna facoltà né veruna sorta di idee oltrepassare d’un sol punto la materia, e s’egli crede d’oltrepassarla, e concepire o avere un’idea qualunque di cosa non materiale, s’inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d’un sol punto i limiti della materia, né desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta d’esistenza ch’ei prova; e s’ei crede di desiderar cosa d’altra natura, s’inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla.
Come dunque ei non può desiderar bene alcuno d’altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni non può per modo alcuno consolarlo realmente né dei mali di questa vita né della mancanza de’ di lei beni, né (quando e’ non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell’aspettativa,  e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.
Di più, l’uomo si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza, ancorché lontana, la quale è un piacere, ma come e perché? Perché l’uomo va immaginando e contemplando seco stesso a parte a parte il godimento ch’egli attende o spera,  e prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, e le sue qualità e condizioni e circostanze, anticipando e anzi assaporando effettivam. colla immaginazione mille volte il piacer futuro.
Ma questa contemplazione, questa rappresentazione, quest’anticipazione, questo gusto o assaggio, questo delirio o sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro,  ancor più ch’ei nol sarà quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne né pure una menoma parte?
Come ci può per verun delirio o veruno sforzo dell’immaginazione o dell’intelletto parer presente (3505) quello  cui né l’immaginazione né l’intelletto non si possono neppure a grandissimo tratto avvicinare; quello che non è fatto né per questa immaginazione né per questo intelletto; quello ch’è di natura affatto diversa da ciò che l’immaginazione o l’intelletto può concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò ch’egli è s’a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che spetta a tutt’altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra una tutt’altra natura?
Certo, l’uomo desidererà sempre di essere liberato dai dolori e dai mali ch’egli effettivamente prova, e di conseguire quelli ch’ei crederà beni in questa vita, e di esser felice in questo mondo in ch’egli vive. E non potendo mai lasciare di desiderarlo niente più ch’ei possa ottenerlo, e la religion cristiana non soddisfacendo a questo suo unico e perpetuo desiderio, né promettendogli di soddisfarlo mai per niun modo, anzi non dandogliene speranza alcuna, segue che speranze cristiane non siano atte a consolare effettivamente il mortale, né ad alleviare i suoi mali né i suoi desiderii. E la felicità promessa dal Cristianesimo non può al mortale parer mai desiderabile, se non in quanto infinita, anzi in quanto perfetta (ché infinita e non perfetta nol conterebbe), e in quanto felicità, astrattamente considerata,  ma non già in quanto tale qual ella è, e di quella natura di ch’ella è. Ed oso dire che la felicità promessa dal paganesimo, (e così da altre religioni) così misera e scarsa com’ella è pure, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra.
Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perché?, perché ci insegna che nell’inferno (e così nel purgatorio) avrà luogo la pena del senso. Onde ci si rende concepibile nel genere, benchè non concepibile nell’estensione, la pena che dee aver luogo in una vita e in un modo di essere (3507) a noi d’altronde inconcepibile non meno che quello de’ Beati del Paradiso.
E sebbene noi non possiamo concepire il modo in cui questa pena possa aver luogo nell’altra vita e nell’anime ignude, pur ci si dice ch’ella ha luogo miris sed veris modis (S. Agostino)*, restando fermo ch’ella è pena sensibile e materiale; onde noi non sapendo né immaginando il come sappiamo però bene e concepiamo il quale sia quella pena.
E perciò può dirsi con verità che il Cristianesimo è più atto ad atterrire che a consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è certissimo infatti che l’influenza da lui esercitata sulle azioni degli uomini, è sempre stata ed è tuttavia come di religion minacciante assai più che come di religion promettente; ch’egli ha indotto al bene e allontanato dal male, e giovato alla società ed alla morale assai più col timore che colla speranza; che i Cristiani osservarono e osservano i precetti della religion loro più per rispetto dell’Inferno e del Purgatorio che del Paradiso. E Dante che riesce a spaventar dell’Inferno, non riesce ne anche poeticamente parlando, * a invogliar punto del Paradiso; (3508) e ciò non per mancanza d’arte né d’invenzione, ec. (anzi ambo in lui son somme ec.) ma p. natura de’ suoi subbietti e degli uomini.
(Similmente, con proporzione, si può discorre dell’Eliso e dell’inferno degli antichi, questo molto più terribile che quello non è amabile; dello stato de’ reprobi e della felicità de’ buoni di Platone ec.)
E’ anche certo che il Cristianesimo senza il suo inferno e il suo Purgatorio e col solo suo Paradiso, non avrebbe avuta e non avrebbe sulla condotta e sui costumi degli uomini quella influenza ch’egli ebbe ed ha, così non l’avrebbe avuta, o minore assai, se e’ non avesse minacciato nell’inferno e nel Purgatorio una pena di qualità concepibile, e s’egli avesse solo minacciata la pena del danno ch’è di qualità inconcepibile, e di natura diversa dalle pene di questo mondo; benché non tanto, quanto la beatitudine celeste dalle terrene; perché noi concepiamo pure e sentiamo per esperienza come ci possa fare infelici la privazione e il desiderio di beni non mai provati, mal conosciuti, ed anche non definibili; dei desideri vaghi ec. Onde anche non concependo il bene del Paradiso, possiamo in qualche modo concepire come la privazione irreparabile e il desiderio continuo ed eterno di esso, possa fare infelici, massime chi sa di non poter mai esser soddisfatto, (3509) e pur sempre desidera, e sa d’aver sempre a desiderare, e chi è certo di penar sempre allo stesso modo, e di essere eternamente infelice senza riparo, e senza sollievo alcuno ec.
Tutto ciò noi possiamo ben concepire, quasi secondariamente, come possa esser causa di somma infelicità benchè non possiamo concepirlo primariamente, cioè la qualità di quel bene che nell’inferno ec. si desidera, e la cui privaz. e desiderio fa infelici i dannati ec. (23. Sett. 1823).

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